Pirandello
Dalla rivoluzione industriale ad i primi anni del novecento, numerosi artisti e filosofi hanno iniziato a parlare di crisi d’identità, alienazione dell’io, perdita di certezze da parte dell’individuo. Allora le cause erano da attribuire al nascente fenomeno dell’industrializzazione, la creazione di fabbriche ove l’operaio si perdeva nei monotoni meccanismi delle imprese, vivendo di stenti in condizioni che ad oggi definiremmo disumane. Da allora è trascorso più d’un secolo, ma i drammi sociali rimangono gli stessi: quotidianamente sentiamo parlare di lavoratori sottopagati, sfruttati da imprenditori incuranti delle necessità umane, ci indigniamo innanzi a locali fatiscenti ove trovano”rifugio”gli umili ed il lavoro nero. Nel novecento esisteva la migrazione dal sud al nord, dalle campagne alle città ed ora come allora ci troviamo di fronte ad orde di disperati che, con la speranza di una nuova vita,giungono dai luoghi più lontani e, allora come ora, si verificano episodi di razzismo, violenza (fisica e morale) e sfruttamento della mano d’opera a basso costo. Multinazionali, banche e conferenze internazionali guidano l’agire dei Paesi, è come se ci stessimo dirigendo verso la creazione di un “globale sistema unico”, ove impera un unico pensiero, un unico modo di fare, dove il diverso è temuto ed ammutolito con la maschera della follia.
Contro chi osa ribellarsi alle indegne manovre “dei grandi” del mondo viene azionata la ormai famosa macchina del fango, il cui unico scopo è massacrare l’attendibilità e la buona fama del dissidente che viene prontamente trasformato in “folle estremista fazioso”, distruggendo così le vite di innocenti e rendendo incomprensibile e confusa la reale comprensione dei fatti. E’ dunque una società di mistificatori e sofisti la nostra che brulica di opportunismo menzogne e mezze verità.
Nel’900 Pirandello scriveva di come fosse necessario andare oltre le apparenze e di quanto fosse difficile per l’uomo individuare il proprio “io” tra le infinite maschere che la società e gli altri individui gli attribuivano. Credo che queste parole siano fortemente calzanti col periodo storico che noi tutti stiamo vivendo, ogni giorno vengono proiettati dei modelli sempre più inconsueti, che confondono e turbano, siamo costretti ad assistere a spettacoli di cattivissimo gusto dove l’onesto viene penalizzato ed i delinquenti trionfano, siamo costretti ad appurare come la mercificazione del corpo e la prostituzione (non solo) intellettuale siano l’unico modo per raggiungere il tanto agognato successo. E l’umanità in tutto questo, dove è? Risulta perduta! All’individuo non interessa più la differenza tra giusto e sbagliato perché ha ben compreso che comportarsi correttamente “non paga” e così assistiamo al camuffamento dell’ “io”: giovani ed anziani,costretti a sottomettersi alle odierne convenzioni, indossano le pesanti maschere dell’indifferenza, dell’odio, della volgarità. E quell’antica distinzione che il poeta pubblicava ne” L’umorismo” tra il concetto di comico e quello di umorismo è quanto mai veritiera: se ci limitassimo ad osservare superficialmente la situazione politica-sociale italiana non potremmo evitare di ridere per gli assurdi e paradossali “sketch” che ci vengono quotidianamente proposti, ma se con attenzione analizziamo quei comportamenti, allora non potremo evitare che le lacrime inondino i nostri occhi, stanchi della tristezza e della sterilità che hanno invaso le nostre menti e che ci portano ad immaginare delle realtà altre, diverse da quella in cui viviamo. Ed ecco che la triplice pirandelliana divisione dell’individuo torna a manifestarsi: l’uno, costretto dalla società ad indossare centomila maschere, si trova ad essere nessuno, non riuscendo ad emergere dalla eterna dialettica tra l’essere e l’apparire.
“Il Colombre” di Buzzati
Se volessimo guardare superficialmente il racconto potremmo dire che viene narrata una semplice storia umana, quella di un bambino amato dal padre, seguito dalla madre che cerca di accogliere i loro consigli e seppur infelice riesce a crearsi una vita, ad avere successo. Una parola salta agli occhi da questa semplicistica descrizione: “infelice”. Quanti al giorno d’oggi appaiono infelici? Possiedono eppur avvertono un incolmabile vuoto, un senso di irrequietezza, di sconforto che li fa andar avanti per inerzia, bloccando le loro potenzialità, ingigantendo quel freddo varco nel petto. Detto ciò, vien da chiedersi chi è e cosa accade al nostro protagonista. All’età di dodici anni Stefano, ragazzino amante del mare, scopre d’essere inseguito da un terribile squalo, per opinione popolare, pericoloso che lo condurrà alla morte. Opinione ch’egli sente particolarmente sua poiché detta dal padre, figura che stima profondamente. Questo straordinario essere lo insegue per tutta la vita, Stefano non riesce a godere un solo momento poiché fisso è il pensiero dell’orribile bestia. Scappa, ha paura ma qualcosa lo spinge a tornare, a tentare la presunta voracità del demone. Passano gli anni, invecchiano insieme e proprio quando pensava fosse giunta l’ora dell’ultimo viaggio, quando convinto sfida il Colombre a divorarlo, scopre che quel fedele e gentile essere voleva solo essergli d’aiuto. Portava un dono. Vediamo dunque come con un’estrema leggerezza Buzzati ci testimoni quanto stolto e timoroso sia l’uomo. Si lascia traviare dal pensiero della massa, non confuta da sé le parole, non cerca il vero dietro la “volatilità” del verbo, rimane condizionato ed impaurito da ciò che di diverso esiste al mondo senza apprezzare la bellezza racchiusa nel dissimile, in ciò che va contro l’ordinario. Giudica, allontana e ghettizza “lo straniero” senza capire quanta ricchezza comporti la dialettica ed il confronto con ciò che è altro da sé, senza capire il male che produce alla propria e altrui esistenza. La storia che ci racconta Buzzati è quanto mai attuale, quotidianamente assistiamo ad assurde reticenze da parte di coloro che si definiscono “normali” contro chi, fortunatamente, non lo è. C’è paura di “contaminazione”, terrore di diventare “qualcosa” che non si conosce e non si vuole conoscere perché “la morale di classe” lo etichetta come antisociale. Dopo secoli di lotte per le pari opportunità, contro i razzismi di ogni tipo, oggi più che mai assistiamo con orrore al ritorno dell’intolleranza, dell’ignoranza e dell’estremismo intransigente. Chi è quindi il Colombre? E’ la vittima, il capro espiatorio, la vita stessa in realtà!Vita che in quanto tale, non può essere spiegata o vissuta con le altrui esperienze, per esistere davvero l’uomo deve vedere da sé: ormai anziano, Stefano decide di affrontare il “mostro”, di riempire il vuoto con il coraggio della vista, della lotta. Così, dopo aver rinnegato pace e felicità, riempiendo l’intera vita con il timore, lo incontra e innanzi la sua supplichevole voce è costretto a piegare lo spirito, ad accettare la verità! C’è dunque speranza per l’essere umano? Lasciamo che i lettori diano la loro risposta, sottolineando però come questo triste racconto sia certamente una favola moderna, dove la morale è la “Perla del Mare” che colta diverrà insegnamento per giovani ed adulti affinchè possano abbandonare i loro timori e rendere le future generazioni libere dalla schiavitù della paura.