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casa natale di Nino Martoglio, Belpasso
casa natale di Nino Martoglio, Belpasso

    Aspettavo, da un tempo che non la smetteva di dilatarsi, il turno al pronto soccorso del Vittorio Emanuele, e per non pensare al dito autopugnalatomi, e alla caciara fiera lunesca del luogo, mi soffermavo sulle lapidi, (già è meglio che altrove, dove, in simili circostanze, sono costretto a leggermi le proteste sindacali gli inviti ai convegni in bacheca, persino le istruzioni in caso di incendio).

   In mezzo alle solite autocelebrazioni di benefattori rifuggenti la morte o la dannazione, chissà!, tra quelle lapidi, certo, la questione di Martoglio era proprio una stranezza, una enormità, una lapide già ‘romanzo’.

    E lì mi accadde uno di quegli istanti singolari del tempo, quelli che si allargano, che ti intrappolano e non ti fanno scivolare via, un kairos, bolla spaziotemporale pseudoeinsteiniana, una magarìa spiritica, oppure noia o sedativo.

    Mi apparve. Lo vidi, dolorante e dolente, in fondo al pozzo dell’ascensore, Nino Martoglio, che mi parlava come a un conoscente di vecchia data, come a un amico di sempre che non vedi da tanto tempo, e non fu il solo che vidi…

    «Ormai saranno passate ore da quando sono caduto…Non sento più le membra, neanche il dolore, non sento più la vita. Solo, mi allùcina questa folla di ricordi, che quasi, mi sembra, la stia partorendo adesso la vita mia…

    L’avevo sentito dire, da piccolo, ai ‘grandi’, mentre ciuciuriàvano sottovoce, partecipando con mestizia adeguata al ‘visito’ che seguiva il funerale della prozia, dopo l’accompagnamento, quando tutti sono già un po’ sollevati e ci si lascia andare moderatamente ma voluttuosamente alle lusinghe della vita:

    — Appena prima di morire, i tuoi morti ti compaiono, ci puoi parlare…

    — Nel sonno mi dovivano accomparire a mia, ca me li giocava al lotto, ca mi levavo qualche pùlice dalli nginaglie…

    — Siete il solito Ballacchiere…

    Adesso, precipitato come rana in questo pozzo, finalmente mi trovo in quel frangente esatto, almeno questa soddisfazione! Dove siete morti miei? Madre, frate. Mi appariranno o li immaginerò? Sarò già morto se li vedo? Magari invece mi spunta mio padre, tanto detestato ma anche fatalmente ripercorso. Padre! Tu qua?

 

— Eccomi, Ninuzzo, figlio mio, mio fallimento e mio compiacimento.

Ti ho visto diventare me, più di me, peggio di me. E non sapevo se esserne orgoglioso o rammaricato. Avevo provato ad allontanarti dal mercimonio del giornalismo, dal veleno della politica, volevo fare di te un uomo di mare come tuo zio, un pesce di altura e non pesce di scoglio, ma tu già ai tempi dell’imbarco, giovanotto, preferivi i periodi di stanza al porto di Catania e le scorribande alla Civita, dove già ti facevi assicutare da Cicca Stònchiti e sbuffoneggiavi Don Procopio Ballaccheri, ti divertivi all’Opra dei Pupi dei Grasso, quand’ancora Giovanni non era ancora “il più grande attore tragico del mondo” non avento ancora tu inventato il teatro catanese, lì nei sotterranei del palazzo Sangiuliano, e cominciavi a ammaliare gonnelle e istigare duelli, del cui sangue ancora le basole della piazza Ogninella sono lorde, e poi passavi in atto di sfida davanti al palazzo del Marchese di Sangiuliano a mostrargli lo spadino insanguinato. Malanova!

    E mi rivedevo, e ne ero orgoglioso e atterrito.

E tu vedevi me — innocentello! — ancora come un eroe:

 

A me’ patri (pri lu so’ nataliziu)

I
Patruzzu miu: — Talura quannu pensu
A lu piniari c’haiu fattu ju,
A lu me vanu disideriu immensu
Di gloria, d’amuri e di virtù

A lu travagghiu miu senza cumpensu,
a la me’ cummattuta giuventù…
mi veni di scunfortu un tristu sensu
e a la me menti Ti ci affacci Tu.

E Ti ci affacci intrepidu e giganti,
forti di ‘ngegnu e frorti ‘ntra la manu
sempri gridannu: – Avanti, avanti, avanti!

Li giuvini d’avannu chi ni sanu
Di li To’ tempi gluriusi e santi?
Oh quantu, accostu a Tia, mi sentu nanu!

II
Allura erivu forti comu rupi
Di ’ntagghiu, pronti sempri pri n’idìa
A sfidari li baddi e li sdirrupi,
e a succurriri un frati che pirìa

Oggi facemu l’opra di li pupi:
iu smuntu a chiddu e chiddu smunta a mia;
li giuvini si sparanu pri lupi,
e sta la forza ’ntra l’ipocrisia!…

Occhi chi siti avvezzi a tali visti;
ucchiuzzi mei, jttativi a lu chiantu,
Pricchì nascivi ’tra sti tempi tristi!…

Ma a tia, patruzzu, grazii pri lu Santu
Numu chi portu e pri ‘ssa scola: chisti
Su’ li me’ glorii, e mi nni portu vantu!

 

    Tu, Ninuzzo, ancora ti facevi inevitabilmente schiacciare dalla ingombrante e posticcia figura paterna e dai racconti gloriosi dei garibaldini, mentre io navigavo già con affanno le tempestose acque della vita: ancora non avevi scoperto in tuo padre le debolezze dell’uomo, i garbugli a cui la vita costringe, i naufragi, i rappezzamenti e i buchi nelle pezze.

     Ma quando, più maturo, pubblicasti La Centona non li inseristi, questi sonetti, non ammiravi più l’eroe, solo mi dedicasti ironicamente il capitolo dedicato alle femmine belle, scommettendo che me ne intendessi:

 

A me’ patri
(ca si nni ‘ntenni!)

FIMMINI BEDDI

Non sacciu lu tudiscu e lu francisi
e mancu sacciu la lingua tuscana;
ma ‘ntra lu gergu di lu me’ paisi
mi sentu grossu, e fazzu buriana
‘Ntra lu paisi miu, fimmini beddi,
ci nni su’ tanti, indigeni e frusteri
ju m’e’ ‘mparatu tanti paruleddi
pi diraccilli di tanti maneri.

p style=”text-align: justify;”>     E invece non ci ho capito mai nulla, dico delle fammine. Solo abbindolato da sirene invitanti ma incomprensibili. Tua madre più di tutte: non la capivo, non mi capiva, io non riuscivo a tenermi nelle questioni di femmine come nelle questioni di sfida, lei non aveva pensieri che per voi e le vostre incombenze. E poi le questioni di soldi, figlio mio, che ti trascinano nella polvere e ti costringono a saltare tutti i banchi che ti si pongono d’innanzi… altro che eroismo garibaldino.

 

Eppure un pallido riferimento al nostro cognome, come pegno d’amore alla tua bella:

AMURI ANTICU E AMURI PRISENTI

VI.
Bedda, ora ca sugnu ammaistratu,
prima chi m’apprisentu pri maritu
vi vogghiu diri tuttu lu me’ statu
cu lu curuzzu ‘mpunta di lu jtu:

Ju nun pussedu: ‘ntra lu me’ casatu
non c’è casteddu e mancu castagnitu,
me’ patri m’addutò ‘n nomu onuratu
ed ju, gilusu, mi l’ha’ custuditu .

S’iddu m’aviti ‘ntra lu vostru cori,
chiddu chi v’offru vi divi bastari
megghiu di centu e di milli trisori.

Cu lu cugnomu miu vi pozzu offriri
lu strittu nicissariu pri campari:
pani, rizzettu… e quarchi piaciri.

 

    Il Martogghiu ghiro è, roditore, topo, sorcio, sorcio pulito, buono da mangiare, ma sempre sorcio, e tu lo elevasti a nome della drammaturgia, come gli dei tramutavano ninfe e pastori in costellazioni. Ma questo non ti scansò la fine la fine che ti fecero fare.

    Tu ora lo sai, come lo seppi io prima di te, che la gioventù ti seduce poi ti abbandona, lasciandoti solo i ricordi a consolarti e a torturarti, come il dolore di testa dopo la sbronza:

 

Centona mia, pirduna, su’ pintutu
parravi ccu lu senziu malatu;
chiddu chi tu mi duni ogni minutu
vali chiù di qualunchi Cumparatu.

Tu mi fa riturnari a li vint’anni,
tuttu ‘mmizzìgghi e tuttu cumpunenni,
dintra di tia ci trovu, nichi e granni,
chiddi chi chianciu a lacrimi pirenni!…

Ti leggiu e li ritrovu vivi e forti,
tutti li cosi ca pirdivi in parti,
tutti li cari mei ca sunnu morti,
tutta la fidi ca mittì ‘ntra l’Arti…

Me’ Patri, me’ Matruzza, amuri santu,
me’ Frati Giuliu, ca valia ppi centu,
cori malatu e cori senza scantu,
cumpagnu fidu, di ogni mumentu!…

 

     Anche to patri, che tanto ti deluse, ti diventa dolce ricordo.

Ancora mi rivolto per l’umiliazione a cui vi costrinsi con il compagno onorevole cavaliere barone bancarottiere Giuseppe Bonaiuto Paternò Castello, ma quanti sono sti Paternò?, molto più bravo di me a incassare la rivoluzione, e più conottato, ma poi anche lui costretto dai passi più lunghi della gamba, dalle speculazioni commerciali, a tradire gli ideali, indotto dalla paura di perdere tutto a compiere le stesse nefandezze che aveva denunciato con veemenza, e anche successo, in altri.

     La lettera che tuo fratello, spinto da tua madre, e sotto dettatura dell’avvocato, gli scrisse, all’onorevole, mi brucia ancora come se fosse stata arata sulla mia pelle:

 

Ebbene, Cavaliere, noi – e dicendo noi intendo parlare di me, dei miei quattro fratelli e di mia madre – siamo stati sempre disgraziatissimi, – così disgraziati, che se le raccontassi le molte e dolorose nostre sventure, lei, animo gentile, non potrebbe impedirsi dal provare un vivo sentimento di compianto. Ma io non voglio annoiarlo, mentre so che il suo tempo è prezioso e che è richiesto da ben più alti interessi. Le dirò solo che un’altra più grave sventura ci minaccia. Noi viviamo separati da nostro padre, ma, essendo lui in Catania, ne ricaviamo qualche utile e abbiamo ritenuto sempre come vera disgrazia il suo allontanamento, rimanendo noi in tal caso senza nessuno appoggio né aiuto, né potendolo seguirlo per le condizioni della famiglia nostra. Un traslocamento di mio padre in altra residenza, mentre a lui recherebbe forse piacere, getterebbe noi nella più triste condizione. Sarebbe per noi la rovina. Ed io mi rivolgo a di lei cuore, alla di lei filantropia, al di lei animo grande per chiederle se non è opera più bella il soccorso a tanti sventurati piuttosto che una live soddisfazione di amor proprio.

     Si era risentito, l’onorevole barone e compagno garibaldino, che gli avevo scoperchiato il ‘cummogghio’, le fraudolente manovre finanziarie per salvare almeno parte del suo patrimonio, dopo aver perso tutto con l’affare del vino, guastato dal colera, e dal crollo finanziario seguito alle sue stesse denunce.

    E dire che si era distinto, come me e come De Felice Giuffrida, nella denuncia dei legami illeciti, tra imprenditori, appaltatori, politici e banchieri, che avevano portato al crack finanziario della Cassa Depositi e Sconti nell’ ’86, con tanto di cambiali falsificate, fumi di zolfo intossicanti e navi che scaricavano colera nel porto di Catania. Bonaiuto dalle colonne della “Gazzetta del Popolo” aveva definito le banche di Catania “un covo di ladri”, ci aveva fatto la carriera politica tra i crispiani, fino alla carica di prosindaco e fino al seggio al parlamento

    E poi ero arrivato io che gli avevo rotto le uova nel ‘cofìno’, conoscendolo bene per la passata comune militanza crispiana, e anche un po’ invidioso della sua agiatezza, mentre io rimanevo a pelo d’acqua tra i flutti di questa vita in tempesta, avevo fatto notare, dalle colonne della mia “Gazzetta di Catania”, che proprio lui, il Bonaiuto, non poteva parlare, visto il giro sospetto di prestiti che si era fatto fare dagli amici, allo scopo di diluire i debiti relativi all’affare delle vigne Bommacaro e Nitta, sfumati come un ubriacatura di vino nuovo.

     Forse agii troppo presto, il tempismo non fu mai il mio forte, ma volevo fare niente di più di quello che Bonaiuto aveva fatto con il caso della Cassa Depositi e Sconti a Casalotto e compagnia, e però a me presentarono subito il conto, mi costrinsero a smammare, a togliere il disturbo, minacciandomi con qualche mia passata intemperanza, e i miei protettori imbeccatori non mi protessero. Servì la lettera? L’umiliazione fu tanta, per tuo fratello, per te, per tua madre, e anche per me, t’assicuro. Poco servì a me che me ne scappai lo stesso, poco tempo dopo, a Palermo, con la mia seconda famiglia, a insegnare al professionale. Poco servì al Bonaiuto, ché lo scandalo scoppiò lo stesso di lì a poco. Poco servì a voi, tranne che alla tua rabbia, quella voglia di rivalsa, quella guasconeria alla D’Artagnan. Ti ricordi? Te ne avevo letto il libro, da piccolo, e poi avevamo disquisito di come il furore di D’Artagnan fosse fuga piu che dalla miseria e dall’immiserimento del padre nobile decaduto, la fuga in avanti con il petto esposto una maniera di non dover retrocedere a vita tranquilla, di non dover ripercorrere le orme del padre.

    Tu lo volesti sbeffeggiare in U contra mettendoci ad abitare in casa sua in via Bonaiuti proprio Don Procopio Ballaccheri, che se la faceva sotto di fatto e di figura, per la mancanza del contravveleno, dopo che lui stesso aveva sbeffeggiato Cicca Stònchiti e comarca, per la stupidaggine di credere che lo buttassero, il colera, preti medici e governo.

 

DON PROCOPIO
Qua non ci sono morti, e ritocco ferro! Chi e sta boccia d’acqua puzzolenti?
FACCHINO
Ppa disinfettazioni.
DON PROCOPIO
Via, portatela a disinfettare i vostri parenti, chi cca non c’è bisognu!
FACCHINO (contrariato)
Scusati (legge) via Bonaiuti, nummero nove, è cca?
DON PROCOPIO (tenendosi la pancia e contorcendosi)
E qua, sbrigatevi che non posso darvi tanta udienza!
FACCHINO
La casa di don Procopio Pernamasca, inteso bellaccheri, è cca?
DON PROCOPIO
Pernamastra, non Pernamasca… sono io!
FACCHINO
E allura u mottu siti vui!
DON PROCOPIO
E il cadavere putrefatto siete voi!
FACCHINO (duro d’orecchi)
Dicistu chi siti don Procopiu?
DON PROCOPIO
Si, ma vivo e vegeto, animali chi siti, non vedete?

….

    E mi dispiace che anche in questo che ora ti capita, in questa tua ultima avventura io sono stato esempio e maledizione, e tu sei stato costretto dalla sorte a ripercorrere i miei passi, l’eterno ritorno, l’ineluttabile peso di essere figlio, un gioco della sorte, uno scherzo del destino, una coincidenza o una sincronicità: un direttore d’ospedale-banchiere-onorevole avresti trovato pure tu nel tuo cammino, stesso l’ospedale, stesso il parlamento.

     L’Ospedale Vittorio Emanuele, quello costruito e diretto dal Bonaiuto, ora è nelle mani di Pasquale Libertini, baronotto calatino, possidente latifondista, ammanicato in tutti i manici della provincia. Era calato dal calatino in capoluogo, come l’avvoltoio cala sulla preda boccheggiante, paesano e famelico subito inciampato nelle maglie della giustizia, ma già punto di riferimento per le prime squadraccie che si agitavano in città, facendo pure la figura di quello che li teneva buoni. Egli ha riempito l’ospedale di malacarne reduci di guerra, ricoverati come scemi-di-guerra lungo-comodo-degenti, o anche assunti tra le fila dei dipendenti, a compenso per una guerra assurda, o come compenso di favori a uomini d’onore, o come compenso di protezione delle famiglie maffiose, spesso tutt’e tre le cose. Trovare dei sicari buoni a tombarti nel pozzo di un ascensore in costruzione, per chi aveva elargito tanta pubblica benevolenza, non sarebbe per nulla difficile. O qualcuno voleva seppellirci lui e ha trovato te per sbaglio.

     Anche Libertini, come il Bonaiuto a suo tempo, è decorato già da due processi per bancarotta fraudolenta della Banca Agricola Commerciale di Catania, e per appropriazione indebita proprio come presidente dell’Ospedale Vittorio Emanuele. Ma è stato benevolmente amnistiato dal Magistrato essendo considerato ‘testa di legno’, prestanome, specchietto per allodole.

  Strano esemplare di gattopardo-iena, quando capì il vento che tirava invece di opporsi all’esproprio dei latifondi ereditati dalla sua schiatta, cavalcò l’onda delle riforme agrarie, non prima di aver permutato i terreni paludosi con terreni migliori del comune, o ottenendo per gli espropri indennità non dovute, o ricomprando e facendo ricomprare i terreni dagli assegnatari indebitati per il censo, subito dopo l’esproprio. Fonderà addirittura un villaggio colonico che per emulazione della Mussolinia che non si fece, chiamerà Libertinia, quasi un nome socialista…

    C’è un tempo in cui ci rivoltiamo contro il potere, e non ci accorgiamo che abbatteremo solo il potente, non il Potere, il quale piuttosto ci accoglierà come suoi nuovi sacerdoti, in attesa che la prossima rivoluzione ci condanni, sostituendoci.

   C’è un tempo in cui sentiamo di dover uccidere il padre, ma prima che ce ne accorgiamo siamo noi i padri, lì ad accudire i figli che ci accusano.

 

     Figlio mio, dopo tutti i duelli e le querele, sei andato a morire qui sul luogo del mio delitto. Dopo che ti eri allontanato, a Roma, a fare il teatro con Pirandello, a piantare il seme della gloria per il cinema italiano, fata morgana!, dovevi tornartene qui, a Catania, all’Ospedale Vittorio Emanuele, a incontrarti con la tua sorte, a suggellare le mie vicissitudini passate nella tua tragedia presente, o a drammatizzare il tuo destino che oggi si strappa come trama ereditata da me: più sincronicità di così!

    Ora sei qui, figlio mio, Ninuzzo, in fondo al pozzo di un ascensore nell’atto di varcare la soglia dello spavento supremo, e io vengo ad accoglierti alla porta, evocato o provocato da te stesso, consolatore ma anche un po’ boia, per quello che ti ho trasmesso, per quello che ho vissuto e che la sorte ora si è divertita a rinfacciarti, più dolorosamente che a me, più gloriosamente che a me.

    Eccomi, sul bordo del pozzo, come la tartaruga che viaggia per tuffarsi nel mare del sud e cerca invano di spiegare alla rana, sicura del proprio dominio di ogni acqua del pozzo, cosa può mai essere il mare del sud; tutt’al più può portarsela dietro, caricandosela sul carapace, se la convince e lasciare la sua pozzanghera padroneggiata e angusta… Vieni?

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Maurizio Cairone

  • Luca Platania – La stampa democratica a Catania tra il 1860 e il 1875
    – Tesi di dottorato – UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
  • Fascicolo Senatore Libertini Pasquale – Archivio storico del Senato della repubblica
  • Giuseppe Barone – Banchieri e politici a Catania. Uno scandalo di fine Ottocento
  • Nino Maroglio – ­ Centona
  • Camilleri, a cura di – Cose di Catania – TRINGALE
  • Sebastiano Catalano – Protagonisti a Catania fra Ottocento e Novecento – CUECM