(Continua dal n. 76/53 di gennaio 2017)

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Sulla-ferrovia-sul-mare-corre-il-treno-più-romantico-che-cè

 

Nel lavoro La stanza e la partita (in cui, tra l’altro, sono confluiti, pur con qualche aggiunta, espunzione e variazione, i testi di Piccoli viaggi), c’è quasi la sobria, sicura voce della coscienza della maturità. Si possono richiamare i vari temi e pienamente definirli, ridefinirli, fare la messa a punto di istanze, atti, eventi iniziatici e costitutivi di tutto il discorso poetico svolto e in atto, mentre nel contempo tutto si continua, tutto resta in gioco. Tutto mantiene e porta in sé, ancora e sempre, la grande aspettativa e il quotidiano tormento, il gioco di allusione, illusione, elusione, delusione, l’invito e il rifiuto, la promessa e la smentita, tutto continua a pronunciare, ora come sempre, l’ipotesi della vita, e la disperante mancanza della sua vera, certa, sostanziale verifica. Si vorrebbe realizzare, per così dire, la raccolta del “senso” di tutto, e si dubita, però, per tante prove contrarie, ora come sempre, di centrare il sempre fuggitivo bersaglio.
C’è, in questa raccolta poetica, per così dire il tono pacato e la saldezza costitutiva che è della natura, la sua purezza di linee. E nello stesso tempo la voce poetica sembra contenere in sé l’umana, quasi affranta vibrazione che accompagna la coscienza della fragilità del nostro essere, della nostra condizione, della nostra passeggera vicenda, che è del Petrarca, da cui il titolo della raccolta è desunto.

Quel tratto intermedio tra i quaranta e i cinquanta
col volto circoscritto dal mucchio, anni passati
come malattie infantili, adesso che lo costeggio
lungo il muro di cinta inciampando
in troppi sassi insidiando
la fuga delle siepi,
lo capisco dai rovi strappati
sfogliati come petali, fino alla cima
dei capelli, nel completo
blu di tela, pronto a tutto rivedendolo
qua e là per poco
viaggiando a passo d’uomo
figlio o padre
nel prestare ascolto al brusio
del crepuscolo,
implacabile e fermo oltre il goffo
esercizio del quieto
vivere.   [La stanza e la partita, p. 53]

(“Il nostro reciproco assedio
l’aspetto consumato dei programmi
il peso che lascia il dito nella polvere
smossa ma ride
dal legno dei mobili il tarlo
che invecchia tardi –
così col mio cuore io prendo confidenza
intorno ai bellissimi corpi celesti
nel ritornare
un passo ancora un passo
all’interno un gradino anzi mille:
i bambini a passetti veloci trascendono
la profondità delle scale…”)   [La stanza e la partita, p. 29]

E volendo scendere ancor più nei dettagli, si possono vedere ancor più da vicino alcuni temi portanti. Come, per esempio, il tema del luogo. Il luogo attuale del vissuto di tutti, e il luogo, e i luoghi, del vissuto individuale. Il luogo delle origini. I luoghi della memoria. C’è l’altrove. C’è il luogo del sogno. C’è il luogo, o i luoghi, della proiezione d’anima; verso ciò che sarà, che dovrà essere, che vorrà essere. Tenendo presente che c’è una continua intima comunione, allusione e rimando fra di essi.
Si può cominciare dal luogo iniziale, da dove tutta l’avventura è cominciata. Esso è ormai più una dimensione interiore che un’entità reale. Non va tanto cercato, più, lì dove effettivamente lo pongono le coordinate geografiche, quanto nelle fibre segrete del pensiero e del sentimento. Esso, quindi, può essere qui, prossimo, “oltre la soglia”, “nella stanza accanto”, basta fare idealmente solo qualche passo, per arrivarci. O, ancor più, basta guardare dentro se stessi, scendere nei sotterranei, nelle caverne del proprio io, per ritrovare il luogo, i luoghi originari, col relativo corredo di oggetti e sensi.
Ma non è mai un ritrovamento certo, veramente tangibile, concreto, veramente afferrabile; non è stabilmente o a lungo fruibile, non vi si può sostare più che qualche attimo: per poi riperderlo, come già lo si è perduto irrimediabilmente nel momento iniziale in cui s’è lasciato.
Da quel momento, la “partita” non ha avuto più fine. E sempre è rimasta, rimarrà, come è stata all’inizio, atto vitale, conquista di libertà e avventura, e insieme inizio di ostracismo, di indefinita condanna, di indefinita dispersione esistenziale.
Spesso il perduto luogo iniziale può sembrare riapparire in altri posti che ne richiamano le forme e la memoria, alcuni elementi fondamentali; o trasferirsi, reincarnarsi in qualche modo in essi, quasi per intima comunione, o per ubiquità: e il suo richiamo è subliminare e tuttavia profondamente ineludibile; ma certamente esso si rivela allora ancor non meno irraggiungibile, ed esalta, sottolinea per contrasto, la condizione di condanna alla dispersione, all’“esilio”, di colui che ha operato lo strappo, il distacco iniziale, che è l’equivalente di uno strappo, di un distacco da se stesso.    
In contrasto con l’iniziale luogo lasciato, il luogo, anzi i vari luoghi, del vissuto attuale, il luogo dell’avventura, è – quindi – anche estraniamento, dispersione, luogo in cui si sente la pena quotidiana, in cui si combatte giornalmente per un riscatto dell’esistenza.
Ma così come da un lato è luogo di incalcolabile smarrimento, dall’altro è luogo chiuso, claustrofobico, prigione quotidiana, coazione a ripetere, impossibilità di uscirne, quando che sia, veramente, realmente fuori.
Ciò non impedisce, però, che l’ipotesi del rifugio, l’illusione di un punto di appoggio della vita, di un intimo sacrario, dove la dimensione dell’interiorità, propria e di tutti, possa esplicarsi nella sua cadenza quotidiana, non trovi spesso il modo di inventare il luogo idoneo, o almeno la sua illusa, momentanea, postulazione e teoria, la sua “figura”: il “dove” dei riti familiari, dello svolgersi quotidiano, o straordinario, epifanico, degli eventi segreti della vita nelle sue più umane accezioni, nel cui centro spesso si pone, col suo corredo di realtà concreta e mistero, la “figura femminile”, che sembra specialmente relazionarsi con tali eventi.
 
Pronta per questa luna, per queste chiavi
impreviste che si adattano
alle porte e le aprono:
le braccia allentate alla fine dell’atto e la prova
del parto eseguita sognando
d’essere appena nata e raccontare
la vita fin dall’inizio. [La stanza e la partita, p. 28]
……………………………………….

Perfetti l’uno all’altra ecco un uomo
negli occhi di una donna, ecco una donna
che consente lo scambio dei doni, la grazia
del fuoco, dell’onda – e del soffio
che guida il pensiero e la mano. [La stanza e la partita, p. 87]

Il sogno veglia nella stanza accanto
prossimo alle parole che allungano
giorni e notti che ci guardano
da storie sconosciute,
foglie che il vento solleva
con mani da Sibilla…   [La stanza e la partita, p. 92]
 
Ma vi sono anche i luoghi dei riti più estrinseci della realtà attuale, dove anche le proposte più apparentemente “ideali” hanno soltanto un “valore di mercato”, e dove ogni dato di profondo spessore ontologico, o di profondo spessore “ideale” (appunto) è soggetto a ineluttabile dissacrazione, viene ridotto a mero, irredimibile “oggetto” di “consumo”.
E ciò che avviene nei confronti dello spazio e dei suoi elementi, dei suoi oggetti, avviene anche, direi imprescindibilmente, nei confronti del tempo, quello attuale e quello d’origine, quello vicino e quello lontano.
Per lo più abbiamo un uso sincronico di esso, e in quest’ambito le diacronie procedono non soltanto dal passato al presente, ma anche viceversa, direi anzi che procedono in tutti i sensi, per diagonali, per cerchi, per spirali, orizzontalmente e verticalmente. Il poeta può viaggiare nel tempo in tutti i sensi, anche in molti sensi inversi al suo naturale andamento.

Come sul quadrante di una
meridiana rotta
la passione del tempo… [La stanza e la partita, p. 89]

Cieli di vertigini
riaccendono questo
sole dimenticato da coloro che guardano
oggi ancora da una foto scattata
in un giorno lontano di festa –
così inseriti nel count-down dell’ultimo
sorriso dei monti… [La stanza e la partita, p. 90]

 

Stazione nord
 
Il treno che partiva ad ora insolita,
meno alcune vetture di coda destinate
a luoghi incerti, lì ferme a ospitare
viaggiatori distratti o noncuranti
del quadro di servizio,
quali arrivi perseguiva quali ritorni
ai paesi d’origine ai margini
del mare rumoroso tra gli scogli
lungo la costa oltre la scarpata
della strada ferrata
tra i limoni e gli aranci appena fuori
di mano e di mente
e gli odori infantili dell’isola
ancora intatti incontro al fiume
là proprio là dove il sentiero
quasi scomparso sui franchi bruciati
dai molti incendi estivi
lentamente sui monti
saliva saliva
allora come ora
– e ora quando?   [La stanza e la partita, p. 58]
 
E a questo punto viene naturale considerare l’elemento umano, il campionario dei “personaggi” che abitano il “luogo” e il “tempo” complesso di questa poesia.
Dove innanzi tutto è naturalmente onnipresente (come già ampiamente detto) il soggetto da cui tutto parte e dove tutto arriva, ritorna; che in sé tutto comprende e in tutto, in ogni singola cosa, è compreso, cioè colui che dice “io”. Anche se il più delle volte esso si sottintende, ed è pur vero che per lo più quest’io è un io di pena, che ciò che più (in senso antifrastico) può esibire, “vantare”, è proprio questa pena. E dunque questo “egotismo” dovunque diffuso è piuttosto lamentazione di sé, della sua vicenda, del suo rapporto con se stesso, col mondo, coi luoghi, col tempo, con ciò che per lui è memoria, attesa, previsione, speranza, disperazione, dispersione, continua conquista e perdita di se stesso. Comunque può usare tutta la gamma dei sentimenti: entusiasmo, esaltazione, sofferenza, ironia, sarcasmo, anche estrosa giocosità.
Questo onnipresente soggetto spesso inventa, trova, degli alter ego, controfigure, comprimari, ma anche gli “altri”, in cui si incarna e si esprime la giustificazione, la disapprovazione, l’esecrazione, la compartecipazione, la pietà dell’“io” dichiarante, per sé e per essi. (Indimenticabile: Per Luciano – il fratello morto prematuramente.)
La sensibile, partecipe umanità dell’“io” si può trasferire e incarnare nel “cieco nato”, nel giocoliere, nelle figure femminili, nella bambina che gioca, ignara, “in mezzo ai cartellini numerati dei bossoli” accosto alla “figura di sangue il profilo di gesso sul selciato” di un morto ammazzato, in colui che dimentica aperta, forse per l’età, la patta dei pantaloni, in quell’altro che sottobanco pulisce le lenti con la falda della giacca del signore accanto.
Anche questi, comunque, sono “tic” che denotano disagio, carenza di fondo dell’uomo, del suo essere.
 
Cominciava dal collo dal punto in cui
la barriera dei peli fittamente saliva
lungo il mento e le guance costeggiando
i bordi del viso fino alla breve
prominenza del naso al di sopra dell’alta
siepe dei baffi indugiando vicino
prima all’una poi all’altra basetta
il rasoio franco la mano ferma la lama nuda
lievemente toccando la morbida
schiuma del sapone sulla pelle
di pelo e contropelo lavorando però mai
né un taglio né un graffio né uno sbaglio
senza un sostegno o il basilare
aiuto dello specchio come a memoria
la propria faccia riconoscendo
quando puntuale ogni mattina all’alba
dolcemente ma rapidamente
si radeva il cieco nato.   [La stanza e la partita, p. 54]

 

Muoveva gli occhi le orecchie la bocca
come una macchinetta le braccia e le gambe
le piegava dietro al collo faceva
moltissime capriole però non toccava
con i piedi e le mani
mai terra.

……………….

Mi sfugge il trucco diceva non sono
mai riuscito a capirlo per questo
sempre più mi appassiono.

Rideva piangeva cantava
parlava benissimo in
non so più quante lingue solo che
nella maschera fissa del volto
ma senza fastidio senza
il minimo rimpianto del movimento
si consumava tutta la sua grande
inquietudine di cuore la sua falsa
indifferenza da ventriloquo.

Avrei pensato ecco il grosso acquisto
ecco l’omone il gaudioso infermo
nei panni del guarito ecco qualcuno
che m’imita facendo un calderone
delle mie creature
ecco il giullare ecco il biancovestito
nella più riuscita delle sue caricature.   [La stanza e la partita, pp. 75-77]

 

Ma è vero, tuttavia, che una diversa entità dell’uomo, del suo destino, del mondo, è sempre eventuale, possibile; sempre presente la promessa, l’attesa dell’epifania di questo, con i suoi molteplici continui segni, allusioni, accenni, inviti, richiami, intese segrete; è in ogni cosa, in ogni momento, in ogni luogo, nella luce dei giorni e nei segreti delle notti, nelle più svariate atmosfere, in guizzi, baluginii: sospesa, forse prossima, forse imminente.
L’“ipotesi della speranza”, nell’“attesa purgatoriale”.

Così, questa poesia continuamente pensa e immagina e rappresenta, sia per il contenente sia per il contenuto, in modo profondo e complesso.
Essa si avvale di notevoli suoi modi peculiari. Basti solo osservare che in essa, fra l’altro, si combinano e si amalgamano, in modo tale che le parti componenti, come avviene in una lega metallica, non si possono scindere né singolarmente riconoscere, due elementi che si potrebbero considerare a prima vista incompatibili e inconiugabili fra di loro: l’uno attinente al metodo filosofico, l’altro alla cinematografia. Infatti luoghi, tempi, eventi, impressioni, riflessioni, sentimenti, vengono spesso evocati e rappresentati con metodo induttivo, risalendo dai particolari al generale. O viceversa, col metodo opposto (deduttivo) discendendo dal generale ai particolari. O, ancora più spesso, mescolando in maniera complessa, inestricabile, ambedue i procedimenti. Alla stessa maniera vi si può riscontrare la presenza di procedimenti cinematografici: il piano-sequenza, la carrellata, la zumata, la dissolvenza incrociata, il flash-back. Spesso essi sono compresenti, nello stesso componimento.
E si può anche rinvenire non di rado in questi componimenti poetici una sorta di interiore macchina romanzesca, dove magari si pone all’inizio un segno, un indizio (o una serie indefinita di essi) di qualcosa che si sente dovrà avvenire, dovrà svelare la sua entità, e il senso, la verità; e alla fine la rivelazione risolutiva avviene; e il senso da questo punto culminante rifluisce a illuminare tutto l’organismo poetico e la sua complessità, con le circostanze e accidenti di cui è costellato; anche se spesso si avverte che il significato scoperto, riconosciuto, non adempie tutti gli interrogativi, le metafore, le immagini, i segni, i congegni del dispositivo significante che si è esaminato. E al di là dei tanti particolari che ci paiono non interamente svelati, è soprattutto il senso generale che ci pare conservi in sé, ancora e sempre, un irraggiungibile fondo, un’incalcolabile ulteriore riserva: il significato è più vasto, duraturo, complesso, di quello che abbiamo ogni volta attinto. È quel che accade, ancora una volta, in Nóstos11, che riunisce à rebours due poemetti: Nóstos, appunto, e Al Qantarah (Solare notturno), composti a grande distanza l’uno dall’altro, oltre che nella raccolta Varianti Variabili12 e in quella sorta di “antologia-non antologia” dal titolo Prove d’impaginazione che raccoglie poesie mai apparse in un volume organico, composte à côté dei lavori finora apparsi dell’autore lungo un arco temporale che va dal 1975 al 2015.

Coglie impulsi la vita – non c’è vita
senza posizione – è lì che stai.   [Nóstos, p. 16]

La sera vibra nel vento
che passa da una vita all’altra,
la mano scopre
la superficie apparente
i tratti nascosti sotto
i pentimenti e le titubanze
della ragione,
la mente libera gli sguardi
celati dallo schermo
come nelle antiche
pergamene soprascritte.   [Varianti variabili, p. 52]

 

Così la potenzialità di questa poesia può dare l’impressione di essere, per così dire, inesauribile. Si sente che sarà sempre “remunerativo” ritornare indefinitamente a rivisitarla, ripercorrerla, perché inesauribile sembra la sua messe di immagini, metafore, significati, la sua proposta inventiva.

Ma come si rapporta e si comunica dunque questa poesia, partendo dall’io individuale del poeta, con la coscienza, con l’interiorità degli “altri” individui?
Qui ogni cosa che sia, per sua natura, estrinseca all’intima natura della poesia non serve, non aiuta a varcare la soglia, a penetrare dentro.
Quando ci si accosta ad essa, si avverte subito che essa elimina intorno a sé ogni estraneo “rumore”, che crea magicamente un’atmosfera raccolta, intorno a cui aleggia il silenzio. E l’animo del lettore deve essere anch’esso sgombro da ogni voce, istanza, passione impropria, e riattingere una sorta di condizione primaria, riprendere uno stato iniziatico, una dimensione pura.
Allora, veramente, ci si mette nella condizione per capire. Significante e significato si stagliano in tutta evidenza e perspicuità nella loro necessaria connessione organica, nella loro indissolubilità. La voce della poesia, in quel silenzio, si leva nitida, distinta, chiara e spiegata. Anche quando essa voce è così discreta, quasi sommessa, accennante.

A questo punto forse cade opportuno un cenno sulla “fortuna”. A tal proposito si può dire che gli amatori della poesia conoscono il nome di Angelo Maugeri e la sua posizione nella realtà letteraria attuale. Però, in un mondo che fosse meno distratto da tante vacue “ragioni”, così estrinseche ai suoi veri bisogni di fondo (anche inconsci), meno disorientato dalle tante futilità (anche della cosiddetta industria culturale), e che fosse più invogliato a riconoscere ciò che più veramente potrebbe essere un valido rimedio al profondo senso del vuoto che pure così spesso si avverte, la poesia di Angelo Maugeri – quale la vera poesia – figurerebbe come un patrimonio comune e corrente, e ciascuno saprebbe apprezzarne debitamente l’ideale necessità, per la sua non comune qualità, la speciale capacità inventiva, la profonda umanità della voce:

 

Per Luciano
 
La mano cerca il lieve muoversi del corpo,
la stanza ingrandisce il ticchettio del respiro, il polso
accelerato dell’orologio,
il cielo è sempre più distante
dagli alberi che allungano le radici nei viali,
la terra si dispone all’accoglienza: ogni giorno
riduce la spinta dei tronchi
verso l’alto… Vola altissimo
il sole in quel colore
freddo come l’attesa…
Provare e riprovare
il gesto abbandonato,
e non sentire
niente, non vedere…

Si ripara chi aspetta la neve, il limite del viaggio,
l’inverno del motore nell’attesa del tempo
che fiorisce la stella del freddo…
La notte ama il bordo della grazia,
il confine che muove la fuga: rinnova
lo stupore davanti alla parte
di noi che tace…

La tua vita dicevi come assenza o breve
strada non percorsa… Su per la collina
bianco e pellegrino
il vento del dolore, la nuova
stagione che fa
rifiorire le spine… [La stanza e la partita, pp. 93-94]

 

A lungo le cose si lasciano prendere
in loro compagnia dolcemente
ci lasciano vivere,
d’improvviso ci dicono addio.
Niente somiglia a ciò che abbiamo amato. [La stanza e la partita, p. 108]

 

 

 

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NOTE

1Mappa migratoria (Geiger, Torino, 1974);

2Verbale di s/comparsa (con un ritratto a penna di Carla Tolomeo; Geiger, Rivalba-Torino,1976);

3Il filo del discorso (Altre ragioni) («Niebo – Rivista di Poesia» n. 2/3 (Deambrogi, Milano, 1977);

4Minimi variabili («Niebo – Rivista di Poesia» n. 2/3 (Deambrogi, Milano, 1977);

5I sensi meravigliosi («Quaderni della Fenice» n. 4, Guanda, Milano, 1979);

6Il fiume i falchi la distanza il vento («Almanacco dello Specchio» n. 9, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1980);

7Passaggio dei giardini di ponente (Società di Poesia / Lunarionuovo, Milano-Acireale, 1983); 8Kursaal (Guanda, Parma, 1989);

9Piccoli viaggi (Laghi di Plitvice, Lugano, 1990);

10La stanza e la partita (Nuova Editrice Magenta, Varese, 2000);

11Nóstos (con due disegni di István Gyalai; alla chiara fonte, Lugano, 2004);

12Varianti Variabili (con quindici dipinti di Arianna Maugeri; Consorzio Artigiano «L.V.G.», Azzate, 2012);

13Prove d’impaginazione (Nuova Editrice Magenta, Varese, 2015).

 

 

* Salvatore Bongiovanni è nato a Malvagna (Messina) nel 1941. È stato docente di lettere negli istituti superiori italiani. Critico letterario e narratore, è noto per il romanzo Contromiraggio (Edizioni Greco, Catania, 2000). Risiede nell’hinterland catanese. Il saggio qui presentato riprende con alcuni aggiornamenti quello pubblicato su «Cenobio / Rivista trimestrale di cultura» (Anno LV, Aprile-Giugno 2006, n. 2, nuova serie, Lugano).