Al momento stai visualizzando Sguardi su Medea: volti di un mito

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Quello di Medea è uno dei miti più complessi dell’universo greco, peraltro coniugato in più d’una versione, e si intreccia con il ciclo degli Argonauti. Che è ciclo fondante, non meno di quello troiano o di quello edipico, nell’immenso universo di miti cui i greci antichi diedero vita. Nelle opere antiche che narrano di lei, Medea è figlia di Eeta, re della Colchide: una regione pianeggiante sulle rive del Mar Nero. È ricordata soprattutto in connessione con Giasone, capitano degli Argonauti. Essi avrebbero varato la prima nave dell’umanità, per compiere un’impresa ordinata da Pelia, zio di Giasone e re di Iolco, in Tessaglia. Egli avrebbe ceduto il trono al nipote solo se questi gli avesse riportato il Vello d’Oro: la pelle dell’ariete che aveva trasportato in Colchide Frisso, discendente da un ramo della genealogia di Giasone. Il Vello era, appunto, custodito da Eeta. Il nome dell’eroina Μήδεια ha la stessa radice di μήδομαι, “provvedere”, Med-  è indoeuropea; si ritrova nel latino mĕdicu(m), da cui “medico”. È caratterizzata, infatti, dalla conoscenza di φάρμακα sia benefici che mortali. È nipote del Sole per parte di padre, pertanto imparentata con l’omerica Circe. È sacerdotessa della divinità infera Ecate e le si attribuiscono poteri magici pressoché illimitati. Uno degli atti che la caratterizzano maggiormente è lo σπαραγμός, rito sacrificale per smembramento, spesso seguito dalla bollitura e dal ringiovanimento della vittima in un calderone. Ciò rimanda alla morte e rinascita quotidiana del Sole dalla “coppa d’oro” in cui attraversa l’Oceano. L’atto è legato anche alla condizione sacerdotale di Medea: il calderone, infatti, era strumento dei sacrifici nel culto, ricorrente altresì nei miti di Pelope e Dioniso. La scena della bollitura rituale è rappresentata frequentemente nelle figurazioni vascolari attiche tra il 520 a.C. e la metà del V sec. a. C.   Medea, invaghita di Giasone, lo aiutò a compiere il furto del Vello d’Oro , fuggì con lui dopo avere abbandonato al suo destino il regno del padre Eeta e ucciso il fratello Absirto, provocò la morte del re Pelia ingannando le sue figlie, venne abbandonata dal marito deciso a sposare Creùsa (o Glauce), figlia del re di Corinto, e in un raptus di folle gelosia si vendicò uccidendo la rivale, il di lei padre Creonte e i due figlioletti avuti da Giasone. Per poi involarsi nel cielo su di un carro di fuoco donato dal suo avo Elios e finire in una nuova selva di varianti del mito: in Atene, sposa di Egeo, o di nuovo nella Colchide dove partorì Medo, o sposa di Eracle da lei rinsavito, o compagna di Achille nell’Aldilà. Naturalmente i poeti non potevano non sentirsi stregati da questo personaggio. Sull’argomento Léon Mallinger scrisse un libro nel lontano 1898, Medée, étude de littérature comparée. La poesia greca è piena di questa figura. Pindaro ne parlò nella Quarta Pitica, i tragici ne fecero tutti la protagonista di almeno una tragedia, anche se dall’immenso naufragio è giunta a noi solo quella di Euripide, Apollonio di Rodi ne ricavò uno splendido personaggio. Lo stesso va detto della poesia latina. Ne trattarono Accio, Pacuvio, Ovidio, Seneca, l’unico di cui ci è rimasta l’opera. Questo tra gli antichi. Tra i moderni ne scrissero Jean de la Péruse, Ludovico Dolce, Pierre Corneille, Bernard de Longepierre, Giovanni Battista Niccolini, Franz Grillparzer, Hippolyte Lucas, per non parlare delle versioni musicali, tra tutte quella di Cherubini. Pasolini ci costruì un film famoso con una splendida Maria Callas nel ruolo della maga, offrendo del mito una truce rilettura che affonda nell’ancestrale dell’umano e della ferinità primigenia del materno femminile quale depositario della vita. Che ci riporta al culto mediterraneo della dea madre ed è la ragione oscura e profonda per cui Medea rivendica quasi come suo diritto quello di uccidere lei i suoi figli. Ancora recentemente è stata ripescata da Christa Wolf  per una rilettura di palpitante attualità. La donna/Medea inventata da Euripide uccide perché incapace di reggere al demone della gelosia, al furto di quei piaceri che sente irrinunciabili, che avverte come suo diritto, e ciò scatena in lei, donna barbara, il ferino, l’aischròs, il tremendo che la rende altra cosa rispetto all’umano equilibrio, che è greco. Ponendola in una sorte di logica del divino, greco anch’esso, ma che ha modalità di comportamenti se non inaccettabili certo difficili da comprendere al senso comune. Che è qualcosa che ha a che vedere con l’arcano terribile della donna/dea come se la figuravano i greci, “terribile nelle sue ire … quanto soave nelle sue grazie” (Diano), feroce coi nemici, benevola con gli amici. Euripide esplorò fino in fondo questo abisso duale dell’animo femminile, materializzandolo in due figure esemplari, Medea e Alcesti, la donna che arriva ad uccidere i figli in odio al marito e quella che uccide se stessa per amore di lui. Specchio rovesciato l’una dell’altra, l’una complementare all’altra, perché “nel cuore di Medea c’è anche l’amore che fa sublime Alcesti, così come nel cuore di Alcesti c’è la possibilità di Medea” (id.). Il cui dramma è tutto nel conflitto fra la debolezza senza ragioni  di Giasone e le sue ragioni di feroce ancorché inaccettabile determinazione. Che è come dire che nel momento in cui l’umano femminile vedeva riconosciuti i suoi diritti, vedeva anche sancita la sua oscura terribile perversione. Medea è dunque in primis un simbolo. La sua ribellione diventa ribellione totale, quasi cosmica, che la sublimità dello stile esalta oltre ogni limite. L’oltraggio subito con la minaccia delle nozze imminenti del marito non è solo riflesso dell’offesa insopportabile di una donna, ma diventa contrapposizione totale, contrasto feroce coll’ordine stesso del mondo così come la storia lo ha costruito. La parole sagge della nutrice, che suggerisce moderazione e paziente rassegnazione non valgono nulla per l’indomita virago. Cielo e terra sono chiamati a testimonianza dell’offesa patita, e affiora una visione di quasi assoluto nichilismo nel giudizio di uomini e istituzioni. Il potere, che si personalizza in Creonte, è pura tirannide. “Se devi giudicare” grida la donna in faccia al re di Corinto venuto a cacciarla via, “ascolta le mie ragioni, se vuoi imporre il tuo potere regale, comanda pure”. E quando si sente rispondere che “giusto o ingiusto che sia, lei dovrà sottostare all’ordine del re”, commenta amara: “I regni ingiusti non potranno mai durare per sempre.” E lei, che fu già regina, lo sa bene, come sa bene quale dovrebbe essere il dovere dei re. Al tiranno che le impone di partire all’istante, e finge di volerla comunque ascoltare in un “processo” il cui esito è scontato, urla sdegnosa: “Fìdati del regno, se poi il caso volubile a suo piacimento ogni bene, per grande che sia, porta via – eppure i re questo potere possiedono, magnifico, immenso, che nessun giorno potrà mai loro sottrarre: aiutare gli infelici, offrire ai supplici ausilio e protezione”. La sua scelta è tuttavia già compiuta sin dalle prime battute del dramma. Scritta nel mito, contenuta nel nome stesso del personaggio, anche se il suo ètimo rinvia al medéomai, guarire, dare consigli, essere saggia. Ed è scelta cosciente di vendetta non più e non solo personale. Giasone e chi l’ha oltraggiata non hanno solo violato le leggi umane, hanno anche sovvertito l’ordine del cosmo, distrutto la misura antica delle cose. E lei, che c’è piombata in mezzo, diventa ora vittima sacrificale di questa colpa antica, per di più da donna offesa e umiliata. Il coro che segue al colloquio con Creonte canta l’epica della conquista del vello, ma la canta in un’ottica di superbia che distrugge l’ordine voluto dalla natura. Tifi e Giasone e quanti si spinsero ad oriente armati solo della voglia di rapina osarono troppo, peccarono di dismisura, furono empi nella loro audacia. E a lei, alla misera Medea rannicchiata ad ascoltare in un angolo della scena, altro non resta che rammaricarsi di averli aiutati. Non l’avesse mai fatto! pensa chiusa in se stessa. Non fosse mai accaduto! “Puro, privo d’inganni, fu/ il tempo che conobbero i nostri padri/ Le proprie coste ognuno, quieto, sfiorava/ e, invecchiando nel campo paterno,/ ricco di poco, non conosceva messi altre/ che quelle del suolo natìo./ L’ordine sacro dell’universo, in parti suddiviso,/ la nave téssala precipitò nell’indistinto Chaos/ e a Oceano impose la sferza dei remi;/ il mare, prima lontano,/ parte divenne delle nostre paure.”  Ora quel mondo, che non è neanche l’età dell’oro, non c’è più. La superbia venuta dall’occidente lo ha ucciso. E a Medea non resta altro da fare che vendicarlo. Pasolini traspone cinematograficamente la Medea di Euripide con un’impronta tutta personale. La tragedia euripidea appare come una struttura narrativa utilizzata per mostrare in realtà altro: innanzitutto un conflitto fra due culture, quella “barbara” di Medea e quella “moderna” di Giasone; poi, le immagini di un sacrificio umano e di antichi rituali rappresentate con occhio quasi documentaristico, filtrate dalla lettura di alcuni trattati di antropologia e di storia delle religioni, come quelli di Levy-Brul, Frazer e Eliade. Ed è così che la sua Medea, in cui il ruolo della protagonista è affidato a una silenziosa e ‘barbara’ Maria Callas, appare inoltre ‘riambientata’: l’autore opera cioè anche una trasposizione di luoghi; dalla Grecia della tragedia antica ci ritroviamo in Siria e in Turchia, mentre altri momenti della vicenda tragica inventati da Pasolini – come la narrazione del Centauro a Giasone bambino, all’inizio, o l’incontro di questo con i due Centauri – vengono ‘riambientati’ rispettivamente nella laguna di Grado e nella Piazza dei Miracoli di Pisa. La Medea di Pasolini assume perciò un’impronta dichiaratamente politica: rappresenta infatti una cultura ‘barbara’ e ‘primitiva’ (e, si potrebbe dire, ‘sottoproletaria’) che si pone in forte contrasto con la cultura moderna e neocapitalistica rappresentata da Giasone. Così dichiara lo stesso Pasolini in un’intervista con Jean Duflot: «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo» . Medea possiede uno sguardo ‘da terzo mondo’, uno sguardo sacro sulla realtà, completamente estraneo alla macina del potere neocapitalistico avanzante; e tale visione della realtà, si potrebbe dire, viene accentuata dall’ambientazione che Pasolini sceglie: terre lontane dalla colonizzazione neocapitalistica (nel 1970 certo più di oggi) come la Siria e la Turchia. La Medea di Pasolini è anche la tragedia psicomitologica della famiglia e della coppia. La protagonista è una creatura destinata all’espiazione, straniera, diversa, seminatrice di morte ma anche vittima, corpo estraneo in una società chiusa, compatta, tesa unicamente all’incremento della propria ricchezza. Quello che incarna la principessa colchide è uno slittamento continuo, un movimento che corre sempre sul confine tra bene e male, tra delitto e innocenza. Infatti, quando Giasone corre a vendicarsi dell’atroce delitto, ella viene sottratta alla sua ira dalla dea della maternità, Hera, che la trasporta su un carro alato presso il suo tempio, perché dia ai corpi dei figlioletti la giusta sepoltura. Chiaro segno del perdono divino. “Io li voglio seppellire con queste mani; li porterò nel tempio di Hera Acraia, perché nessuno dei nemici possa recar loro oltraggio, profanare la loro tomba. E qui nella terra di Sisifo per i tempi a venire istituirò feste solenni e riti ad espiazione di questo empio assassinio.”