Estremismi, Umanesimo e Resistenza
Di Jacques Decour so poche cose. E tra queste che fu fucilato dai nazisti senza pietà. Traduzioni difettose della sua attività di giovane scrittore e di militante politico non favoriscono purtroppo conoscenza migliore. E così pure il fatto che il suo primo e forse più importante romanzo, Il Saggio e il Caporale, pubblicato nel 1930, è uscito dal catalogo Gallimard nel 2003 senza più rientrarvi. Il liceo parigino che ne porta il nome è lo stesso dove ha insegnato letteratura tedesca. Durante la clandestinità, è stato tra i fondatori della rivista Les Lettres françaises di cui – trovandosi già in prigione – non poté leggere il primo numero.
Decour era un comunista ultraortodosso e ossessionato dal deviazionismo, che gli faceva vedere i trotskisti come dei controrivoluzionari al servizio del fascismo internazionale. Col senno di oggi, fu questo un suo limite. E anche una sua profonda contraddizione. Perché è inconcepibile che un romanziere come lui, che considerava l’umanesimo una religione – la sola religione – si sia reso complice di chi sosteneva l’eliminazione del “nemico interno”.
La sua era la Francia surrealista di poeti e artisti come Rene Char, Paul Eluard, Pablo Picasso, Max Jacob. Era la Francia occupata dai nazisti. La Francia del poeta e giornalista Luis Aragon, che nel 1938 chiede a Decour di collaborare con la Commune, rivista degli scrittori e artisti antifascisti in difesa della cultura. Ma era anche la Francia di Paul Nizan, a lungo demonizzato dalla sinistra francese, e di Pierre Drieu La Rochelle che abbandonò la sinistra per la destra incantato dalle sirene dei fascismi europei. Gli scrittori Decour, Nizan e Drieu – i primi due caduti in guerra ancora giovani, il terzo morto suicida alla fine della guerra – non hanno separato l’impegno ideologico da quello letterario, ma più che per le loro opere, poco conosciute e apprezzate, sono da ricordare storicamente per la loro sofferta vicenda umana e politica.
Decour ha scritto: “L’atteggiamento umanista ha caratterizzato la civiltà europea sin dal Rinascimento. E come immaginare questa civiltà senza la Germania?” In altre parole: la Germania nazista era in quel momento fuori dall’umanesimo e dunque fuori dalla civiltà. Ma lo stesso discorso non valeva anche per il comunismo in cui militava e che gli faceva schedare i trotskisti come nemici?
La polizia francese lo arrestò il 17 febbraio del 1942 e un mese dopo lo consegnò ai tedeschi. Che, per la sua attività di resistente, lo interrogarono e torturarono fino al 30 maggio. Quando lo fucilarono nella fortezza di Mont Valerién: questo destino i nazisti riservavano ai partigiani. Decour aveva trentadue anni. Nell’ultima lettera ai familiari scrisse che si considerava una foglia caduta dall’albero per fare terriccio: “la qualità del suolo dipenderà dalla qualità delle foglie”. La Francia ritiene questo suo scrittore una foglia (e di grande qualità) caduta per la liberazione, la gioia, il progresso della patria.
Contestatore della modernità e del materialismo in cui era precipitato il Vecchio Continente, Drieu La Rochelle scrisse: “Le sue chiese senza Dio, i suoi palazzi senza re, l’Europa li indica come dei gioielli adescatori sul suo vecchio seno”. Parole e idee tornate d’attualità e riprese da autori del nostro tempo come Dantec e Houellebecq.
Drieu aveva combattuto nella Prima guerra mondiale subendone un trauma da cui non si sarebbe più ripreso. E attribuiva ai vecchi borghesi la responsabilità di quei tanti giovani che vi avevano perso la vita. Per che cosa poi? Per ricominciare la borghesia europea, una volta finita la guerra, con i propri disgustosi affari e del tutto indifferente a quanto era accaduto?
Proveniente da sinistra o da destra, quella di Drieu era una critica radicale. Europeista disilluso, del suo tempo incarnava contraddizioni e conflitti. Socialismo e fascismo. Rivoluzione e reazione. E in specie incarnava quella crisi esistenziale in lui aggravata da una quasi intrinseca vocazione alla dannazione e al suicidio, più volte tentato. L’incipit del suo Racconto segreto, uscito postumo nel 1951 ma scritto pochi mesi prima di suicidarsi, ne è come l’inconfutabile testimonianza: “Da ragazzo ho giurato a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola”. Quel giorno sarà il 16 marzo del 1945. E per mantenere la parola si servirà del tubo del gas e di una dose fatale di barbiturico. Aveva saputo dai giornali di un mandato di cattura spiccato contro di lui. André Malraux, che gli era amico ma che militava nel campo opposto, aveva provato a evitargli l’arresto dopo la liberazione di Parigi. Un aiuto che Drieu La Rochelle rifiutò: “Abbiamo giocato e ho perso – gli disse.– Reclamo la morte”. Quale illusione nutrisse nella Repubblica di Vichy, nella collaborazione con la Germania e in un’Europa fascista, sotto Hitler, viene difficile da comprendere.
Per Paul Nizan, fino agli anni settanta autore di culto in Italia e oggi dimenticato anche in Francia, i guai iniziarono quando – disapprovando apertamente il patto Molotov-Ribbentrop – ruppe con il partito comunista francese. Da quel momento partì contro di lui una violenta campagna di stampa che lo additò come traditore, agente di polizia, spia degli inglesi e che ebbe tra i suoi organizzatori il poeta Luis Aragon, suo amico. Un anno dopo morì in guerra, proprio all’inizio della Seconda guerra mondiale e durante l’offensiva tedesca di Dunkerque. Nizan aveva trentacinque anni: da una pallottola era stato colpito alla testa. Quando era ancora studente aveva scritto nel proprio taccuino: “Morire per il suo paese è più bello che vivere per lui”.
A chi lo accusò di aver contribuito alla demonizzazione politica dell’amico scrittore, Aragon rispose: “Il Partito mi ha fatto sapere che Nizan era un traditore…Io credo sempre a quel che mi dice il Partito”. Parole, a sentirle oggi, riprovevoli e odiose. Ma quelli erano altri tempi. I tempi dei pazzi che ragionano. “Credo sempre a quel che mi dice il Partito”. Parole che fanno dubitare dell’idea positiva che abbiamo avuto finora di Aragon e di quanto di bello Neruda (in Confesso che ho vissuto) ha scritto su di lui: e proprio sul suo spiccato senso dell’amicizia. Solo negli anni sessanta e settanta Nizan è stato riabilitato. Da Sartre per primo. Poi anche Aragon ha riconosciuto il proprio errore e quello del partito in cui tanto credeva.
Scrittori estremi, per cultura e indole, Decour, Drieu e Nizan non hanno lasciato una grandissima traccia nella letteratura francese, ma vanno ricordati per lo spirito radicale e antimoderno con cui si opposero a quel mondo borghese in gran parte colpevole dell’abisso in cui precipita – con due guerre e due totalitarismi – un’epoca mostruosa.
Se cerchiamo dei loro epigoni nella letteratura francese del nostro tempo possiamo trovarli in Dantec e in Houellebecq, scrittori nuovi e della stessa generazione. Soprattutto Dantec è molto vicino a Drieu La Rochelle quando mostra tutta la propria angoscia per la decadenza dell’Europa e del suo sistema di valori. Un sistema distrutto da un’Unione che ha voltato le spalle all’Occidente, alla libertà e alla civiltà cristiana. Maurice Dantec dice questo con profondo disgusto. Vede l’Europa come un continente finito, ormai privo di senso. E l’abbandona per andare a vivere in Canada fino alla morte. Figlio di genitori comunisti, era cresciuto nella banlieue rossa di Grenoble. Aveva idee nere nel cervello, ma sapeva ben mischiarle con l’umorismo e l’allegria. E il suo debutto nelle lettere francesi, con il romanzo thriller La Sirena rosa, era stato folgorante e fenomenale. Ma per la Francia rimase sempre (come scrisse Liberation) il gauchiste “passato a destra”. Il futuro dell’Europa questo scrittore visionario e nichilista, occhiali scuri e sempre vestito di nero, l’aveva intravisto, reporter di guerra con le lacrime agli occhi, a Sarajevo. Mentre il sole tramontava “in un maestoso silenzio”.
Cosa vide Dantec in quel tramonto?
Vide “una grande area liberal-socialista, senza alcuna sovranità politica, tanto meno religiosa, senza il minimo di storia”. Ma il suo pessimismo sul futuro dell’Europa era in realtà pessimismo e angoscia per il futuro del mondo, sempre più schiavo della tecnologia e delle macchine. Tanti libri scritti. E tanta angoscia in lui. Tanti farmaci e droghe per curarla. L’autoesilio in Canada non è bastato a salvarlo.
Gaetano Cellura