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[continua dal numero precedente….]

Chimaglia lasciò Pietro, che sembrava già essersi dimenticato del precedente istinto omicida e si guardava con un’espressione disgustata, neanche avesse addosso blatte informi. Si passò le mani sulle parti che gli erano state toccate e solo allora riuscì a tornare in ascolto.

«Gli scienziati», illustrò Chimaglia, «ci hanno assicurato che non porterà alcun tipo di disagio».

«Di cosa si tratta? È una specie di elettroshock?»

Per rispondere alla domanda nessuno si espresse e non si poteva interpretare se per una scelta omertosa o perché non si conoscesse la risposta.

«Se è vero che non lede il suo organismo e se è vero che si arrabbia tanto nel subire questo sopruso», dedusse padre Giordano, «potremmo usarlo come mezzo per riuscire a parlargli senza ricevere minacce».

Anche Pietro si stava avvicinando.

«E in che modo?» domandò Torre.

«Semplice: lo svegliamo. Ha una reazione inconsulta? Lo addormentiamo. Quando lo risvegliamo, è di nuovo pericoloso? Premiamo il bottone. Lo svegliamo di nuovo e reagisce con violenza? Lo fermiamo. Finché non capirà. Anche se fossero indispensabili ventiquattro ore, anche trascorresse un anno intero! Cosma dovrà venirci incontro e accettare che gli tocca controllarsi, se davvero non vorrà sentirsi umiliato e restare al nostro ludibrio per tutto il resto della sua e della nostra esistenza».

«Hai dimenticato ’na cosa, gioia mia», sorrise Torre, inclinando leggermente la testa e scoprendo i muscoli allegri del collo. «Cosma non è il nostro servo, ma il nostro capo e nessuno di noi ha diritto di trattarlo come ’na pezza da piedi, neanche sotto consiglio dello strizzacervelli!»

Gli bastò per capire che il vero osso da rodere non sarebbe stato il santone. «Avete avuto l’opportunità di sperimentare personalmente i risultati delle vostre concessioni. Bisogna riprenderlo in mano con la forza, se davvero si vorrà farlo ragionare.»

«Non è come pensi tu», spiegò allora Chimaglia. «Nessuno di noi ha mai viziato Cosma, che si è conquistato con estrema fatica ogni granello della nostra ammirazione e del nostro rispetto. Quello che gli diamo è il minimo, in confronto all’entità del suo apporto alla Onorata Società e alla Chiesa».

Giordano decise di non prenderlo in considerazione. «Conoscerete di certo la storia di Helen Keller, la ragazza che in epoca recentissima rispetto alla nascita aveva perso non soltanto la vista, ma anche l’udito, dunque la facoltà di parlare. Era stata ridotta dalla famiglia a comportarsi come un animaletto, prima che l’istitutrice le imponesse la disciplina, che unita alla durezza della vera maestra, riuscirono a insegnarle il senso dei simboli con i quali anche lei, come gli esseri umani sani, poté raffigurare ed esprimere idee. Con Cosma non è diverso. Per insegnargli a conoscere i simboli chiave del suo equilibrio, ho bisogno di disciplina. E la disciplina si ottiene solo con la rudezza».

«U me bastuni piniau tutt’a vita, ma nascìu ppi essiri ’ntisu. Ora u me bastùni, u me boss, aggh’iessiri com’u rre»,[1] ribadì Pietro con gli occhi iniettati di rosso.

«Ma se ne parlate come fosse a un passo dalla pena capitale per vostra stessa mano! Eutanasia? No, il vostro è un regicidio, è volerlo giustiziare perché vi è diventato scomodo. A questo punto nessuno ha più qualcosa da perdere. Meglio l’umiliazione alla condanna. D’altra parte solo alla morte non c’è rimedio».

«U putenti mori a mmanu ’i nenti?»[2] domandò Pietro a un uomo che non poteva capire i significati dello stretto baccaglio. «No. No. U me putenti havi a campari. Tu!»[3] Alzò la mano tozza e forte per indicarlo e, più che investirlo di una carica importante, sembrava accusarlo. «Si tu nun sì scricchianespuli, si tu sì omu, nun manchi ppi nuatri. A vita nun voli raggiuni, ma nuatrui vulemu raggiuni: a raggiuni ’i Cosimu. E si tu ci runi rristoru, nuatri ti dunamu rristoru».[4]

Quando con passo pesante e un po’ strascicato si avvicinò a padre Giordano per tendergli il telecomando con i due tasti, rosso e nero, fu evidente che non aveva bisogno di chiedere altrui parere, perché a prendere le decisioni serie era lui.

Padre Giordano tenne di forza ferma la mano nell’impugnare quell’arma perversa. Il nero per il buio del sonno, il rosso per la luce della vita. Due colori che ricordavano entrambi le più rifuggite realtà. Il silenzio della morte il primo, il sangue e il fuoco dell’inferno il secondo: Cosma era comunque condannato.

[1] «Il mio bastone ha sofferto per tutta la vita, ma è nato per essere inteso al volo e obbedito. Ora il mio bastone, il mio boss, deve essere come il re»

[2] «Il potente muore per a causa di un nonnulla?»

[3] «No, no. Il mio potente deve vivere. Tu!»

[4] «Se tu non sei incompetente, se tu sei uomo, non sbaglierai. La vita non vuole ragione, ma noi vogliamo ragione: la ragione di Cosma. E se tu ci donerai ristoro, noi ti ricambieremo».

Se la monotonia non aveva inibito Cosma, inducendolo per un’altra volta a imprecare contro l’aguzzino in un gesto lesivo, non fu difficile, neanche stavolta, per padre Giordano ridurlo inoffensivo sul pavimento di una stanza che avrebbe dovuto essere reggia e in atto era aula di umiliazioni. Giordano non pensava, pigiava sui tasti senza farsi domande o tradirsi in pensieri che l’avrebbero spinto all’indugio. Risvegliò il mostro senza attendere ancora, sempre tenendosi alla distanza sufficiente a impedire il trionfo di un agguato, e ancora subì lo stupore per le innumerabili espressioni che ne tramutavano istantaneamente il volto.

«Se vuoi salva la vita, devi dialogare, Cosma», disse,  senza risultati apparenti. Poi, dopo altri tentativi, parve d’un tratto che Cosma fosse stato pervaso dalla facoltà di pensare: guardava l’unica arma che in quel posto apparisse utile contro di lui, realizzava che fosse nelle mani di Giordano e i suoi occhi si spalancavano, aprendosi sempre di più in una consapevolezza schiacciante. «A chi l’hai rubato?» domandò.

«Il telecomando?» sorrise Giordano con la spavalderia di prima.

«Cosa, allora? Aguzza l’ingegno, signor Hegel!» Spiritato, in una frazione di secondo era di nuovo un diavolo.

«Me l’ha consegnato Pietro in persona di sua spontanea volontà».

Neanche un bambino che cerca i genitori in mezzo alla folla gli aveva mai mostrato quella maschera sperduta, neanche un drogato in astinenza o un innocente accusato d’omicidio di fronte alla pena di morte. Cosma d’impulso nascose dietro le mani la faccia che gli mostrava il ruolo di perdente. Era la breccia che immediatamente Giordano sfruttò per carpire una parte di quell’essere con il semplice mezzo del contatto umano.

Una carezza. Una carezza sui capelli appena sfiorati.

E la bestia venne fuori con un latrato aggressivo, mentre anche questa volta il prete, pur sopraffatto dalla forza e dal peso del santo, era pronto… costretto a spegnerlo.

Ma non rinunciava alla carezza, adesso più viva e colma di pietà su un orecchio, sulla guancia. Morbidi, come appartenessero a un uomo normale, a un tatto superficiale.

“Cosa sei, Cosma?” domandò a nessuno, mentre si districava via con energia dal suo immane peso.

Era quasi tangibile l’assenza d’anima a nero attivato, quanto la presenza sotto il comando del rosso, come se qualcosa la risucchiasse, chiudendola dentro una cassaforte per poi sprigionarla, esplosione, quando con un solo dito si riproponeva il risveglio.

Nel momento in cui di nuovo il circuito che gli concedeva di esistere fu messo in moto, questa volta Cosma non si alzò, come tramortito, in realtà soltanto ferito. Occhi aperti, sì, ma blocco emotivo, lo stesso che copriva di disperazione tutte le membra.

«Un uomo come te non può permettersi di giocare con le proprie smisurate capacità», affermò Giordano. «Non può permettersi di crollare. Una bombatomica non può stare nelle mani di un pazzo». Gli si avvicinò. «Devi obbedirmi!»

Ma fu proprio in quel momento delicato che Chimaglia e Torre ruppero l’equilibrio, spalancando la porta.

«C’è un’emergenza, signore», esclamò il primo.

«Non sappiamo ancora chi sono i mandanti, ma i fratelli Costanzo ci bastonarono!» disse il secondo con un sorriso che questa volta era più una smorfia minacciosa. «Avremmo dovuto aspettarci che erano lì pronti a prenderci nel fallo. ’Sti bastardi approfittarono dei campionati per crivellare Giacomo. Ci fregarono con una schifosa vendetta collaterale».

«Giacomo…» disse Cosma da terra.

Giordano non ebbe il tempo di chiedere silenzio, una pausa alla guerra in questo momento sacro in cui le forze dell’anima mundi avevano davvero bisogno di radunarsi per formulare il miracolo e salvare l’ammalato.

«Esatto, capo, proprio il fratello di Alessandro Martino».

Giordano non seppe spiegarsi come Cosma avesse potuto farlo, ma era di scatto in piedi senza che alcuna parte del suo corpo avesse fatto perno contro il pavimento. Il miracolo, sì, si era verificato, ma solo per tirare su dall’alto con una corda invisibile quel pesantissimo corpo.

«Sit nominis tui signo famulus tuus munitus», lo schernì Cosma, notando il suo ennesimo stupore.

Erano le parole d’esordio in un esorcismo.

E in quel momento di confusione Giordano non riuscì a ricordare quale dottrina affermasse che i corpi invasati pesassero il doppio rispetto ai normali, come se sommassero il peso spiritistico a quello reale. Nel momento di smarrimento temette di credere di nuovo all’intervento di un diavolo, lì dove diversi elementi lo confermavano, lì dove gli occhi di Cosma erano girati nelle orbite, bianchi come quelli di un dormiente. «Stolti!» diceva, «non sanno forse che in questa casa regna un’unica legge dell’Unto dal Signore, del Cristo? Chi di spada ferirà…»

Marcella Argento

[continua nel prossimo numero….]