Al momento stai visualizzando La gazza nera sugli aranci
Bruno Caruso, La mafia dei fiori, disegno e tempera

Ucciso tra i fiori. “La mafia dei fiori. La mafia dei giardini. La mafia delle acque. E’ la cronaca del giornale della sera o una metafora dell’esistenza?” L.do Sciascia

 

Curuzzu, ca parrinu mi faria;

Li tituli cci appizzu e li dinari,

Basta chi trasu dintra la batia,

Basta chi  po’ ti vengu a cunfissari.

– A Diu  l’aviti offisu, figghia mia?

– Patri, un picciottu ’un l’hê vulutu  amari.

– Amalu, figghia, ca lu voli Diu,

Ca cui nun ama nun si pò sarvari.

Corleone,“Canti popolari siciliani” L.do Vigo

 

“ Morire adesso,prima del tempo, è un guadagno per me… A te sembrerà che io agisca da folle. Ma chi mi accusa di follia, forse è lui il folle”. Sofocle, Antigone

 

“Ha ucciso, rubato, truffato ma mai nessuno riuscirà

a trovare le prove che lo accusano e provino che dico

 la verità… Già come sempre vince chi è più bravo a truffare la vita”.

Rita Atria, diario

                                     

LA GAZZA NERA  SUGLI  ARANCI

Dalla finestra aperta, le litanie scioglievano angeli arcangeli e altre invisibili schiere. Ma le ombre gravavano i misteri gaudiosi di quella sera, mentre sui muri ai miei occhi l’azzuolo stemperava dalla calce enigmatiche figure di cavalieri e di dame. Avevo otto anni e le ginocchia sbucciate da dolorose peregrinazioni, due trecce diritte e rigide che terminavano in un nastro rosso ardito come un fringuello. Ero impaziente quella sera, scontrosa quasi come può esserlo un ragazzaccio condannato ad espiare qualche purgatorio sulla terra, per cose che alla fin fine è sempre difficile spiegare ai grandi. Roteavo perciò il mio piumaggio in voli a bassa quota, posando l’eresia delle mie beccate tra i cespugliosi giacigli di pidocchi, che scappavano sotto immacolati fazzoletti a scocca. E contenevo dette oranti come in una gabbia, dove sparivano in una babele di cinguettii e di chiacchiere starnazzanti passere presuntuose e cardelline civettuole, colombe e tortorelle titubanti. Mentre quelle sollevavano in segno di misericordia estasiati sospiri, impennando occhi beatifici sui corni della luna affacciatisi alla finestra, i loro santamaria e gli orapronobis si sprofondavano come aculei sulle mie intemperanze. Tra le litanie intanto cigolavano i selciati al terremoto degli uomini che tornavano dalla campagna.

 

“ Allura Orlanto Palatino jsa

  Cu li dù manu la so trullintana!…”

 

Mio padre allora scardinò con un improvviso rotolare di tuono, le assi allentate del portone. Sbatacchiò con malagrazia i battenti cigolanti. Sputò senza parole il suo disappunto di non trovare un’accoglienza di odori dai fornelli, ma un’altalena di giaculatorie, di candele fumiganti su un altare improvvisato, di carbonella che covava la sua lava sotto il mantice delle bocche e che improvvisamente alzava la sua ira d’incenso. Disponibile proprio a chiunque la chiamasse una Madonna, nel mese di Maggio, si faceva pellegrina di casa in casa, manco fosse la serva di tutti. Ma nemmeno lei impose nulla quando l’uomo digrignò la sua rovina contro il saraceno invisibile, vomitandogli contro tutte le più nobili litanie del suo rosario. Tanto che infine le stesse cardille e le altre piumate allentarono le loro e gridando Gesummarìa e Dio lo liberi dal demonio, scattarono a razzo verso la porta. Allora restò sola la mia famiglia. Seppi poi che le vicine contarono undici strazianti pugnalate al cuore onesto di mia madre.

 

“ Nello specchio della luna

  Si pettinano fanciulle col petto d’arance”

 

Ecco che mi sono persa. Collocata in un giorno senza fissa dimora ho continuato a rincorrere il passato, che io sopporto come si trascinano i fastidi degli anni o il cruccio delle necessità. Ma fu allora che, per la prima volta, feci la valigia. Ci ficcai dentro, più che i vestiti i pochi giocattoli e gli esigui ori gialli di mia madre. Chiusi con rinforzo tutte le porte, chè se i fantasmi della casa ci avessero fatto il nido non l’avremmo più potuta affittare. E andai ad abitare da mia zia, quanto desiderosa di rimpinguare la sua prole di tre maschi e di due femmine, potete pure immaginarvelo. Ma suo marito non parlò e lei, alzando gli occhi al cielo, mi infilò tra le mani un cesto verde di mandorle amare. Dicendomi canta che ti passa raccolse i suoi capelli a diadema sulle tempie brizzolate. Le mandorle le avevo già visto in fiore, pendere come un sorriso di angeli dall’albero del suo orto, tra incolti cespugli e siepi di rosa canina. Ora,  richiuso il loro sorriso, erano diventate sode come uova e dure come pietre. Le dovevo con pazienza sgusciare, liberarle da quella pelle resinosa che mi coloriva la punta delle dita e che, infiltrando i contorni delle unghia, lasciava trasparire un alone difficile da lavare. Mi consumavo anche in lavori più casalinghi, scontentando comunque la mia benefattrice. Certa, per conto suo, che giammai sarei stata in grado di portare avanti una casa, quest’ultima si preoccupava di conferirmi un aspetto di orfana dignitosa. E mi allungava le vesti, appiattiva il debole accenno del seno in camicette a sacco americane, di quelle che arrivavano a pacchi e poi era tutta una festa di famiglia, farle sbocciare nel loro colore presuntuoso dall’involucro di cartone. Ma la Mariuccia d’America, l’ultima moda per la sorella la ricostituiva a parte, sopra una carta da parati dismessa, colorita di pappagallini e di rose centifoglia: l’abito blu per la messa, il cappotto giornaliero, il soprabito festivo, gli scollati per le feste con passeggiata lungo il corso, quando sul balcone scoppiavano i baffi e gli occhi di don Ciccino. Quello che restava della sfilata lo chiudevo però in una borsa a quadri. Ci conservavo anche, come in una cassaforte, quegli strumenti minimi di lavoro che riuscivo a racimolare: aghi con crune immense o invisibili, rocchetti di filo multicolore sottile e serico. Attillavo perciò camicette, aprivo fantasie nei colletti, accorciavo gonne, chiudevo ogni notte gli occhi su un paese incantato.

 

“Di rosi, di canzuni, di primuri

  T’atturniava sempri lu me cori”

 

Loro ragionavano di terreni immensi e di stuoie piene di provviste, di mucche e di pecore che fornivano ricotta a mezzo mondo. La zia s’impennava tutta davanti a quell’altro Giove di suo marito, tragica nel raccontargli che io facevo la scipita, la zucca vuota, che non avevo occhi e nemmeno cervello. Nonostante la farsa, restavo comunque sicura che la temperatura del loro termometro s’era stabilizzata su quel marcantonio che continuava ad incrociarmi lanciandomi veloce, dalla sua bicicletta rossa, fichi secchi o noci. Al suo apparire, ogni volta provavo a farmi il segno della croce. E poiché questo esorcismo non sempre mi riusciva come volevo, ad evitare che quello continuasse a ballarmi davanti con giri mezzi giri e striduli gazzeggiamenti, infine feci la prova dell’acqua benedetta. Ne trafugai con circospezione una boccetta dalla marmorea bocca del drago, che s’impennava tra due santi decisi a fulminarmi con la loro incomprensione. Poi la toccavo, attraverso la borsetta, ogni volta che la visione da dietro le spalle improvvisa mi faceva scattare davanti agli occhi la sua lingua di fuoco. Una volta che quella allucinata fantasia mi si attardò più del solito, impennando il suo cavallo in spire sempre più strette, provai con precipizio a svuotargliela addosso. Lo vidi invece beatificarsi, chiudendo al sole gli occhi presuntuosi e perfidi, come a dirmi che non mi sarei facilmente liberata dalla sua fattura. Non riuscendoci con l’acqua benedetta, presi allora un’altra decisione. Andai a trovare la Ruffiana un pomeriggio afoso di Giugno, chiudendo in un pugno i soldi della scommessa. La trovai assonnata sulla sedia, che ronfava come la sua gatta, né si poteva capire quale delle due fosse il vero animale. Fino a quando la più bestia si inarcò tutta sul tavolo, alitando contro la mia mano una rugiada di rabbia felina. Ma la padrona la rassicurò subito:

-Narduzza, non ti preoccupare, che ora te la presento. E voi cercate di essere naturale. La gatta è come me. Con chiunque, prima di fare amicizia ci litigo. Con la guerra si arriva meglio alla pace… Ma la Ruffiana era però talmente riversata in altri suoi lavori, che dal cortile interno si rotolavano fino a noi con improvvisi fragori o leste martellate, che alla fine, dopo un lungo giro di parole,  il consiglio sul mio caso le restò in gola.

 

“Supra lu nidu, ‘nmenzu a la cardedda,

  Lu cardidduzzu canta a la cardidda”

 

Chiudevano le ultime case filari gremiti di gelsi, pioppi guardinghi e sontuosi. Rissosi nella corsa i cani abbaiavano contro il paese, nel loro pellegrinaggio abituale verso la macelleria di Titta. Quasi odoravano nell’aria il loro banchetto di ossa, mentre rinfrescavano la loro impazienza al solido filo della fontana, studiando il trotto gravido delle mule sugli aspri ciottoli della salita. Veniva loro incontro un paese travestito.  Sformati e guardinghi i vecchi gobbi potevano essere fabbri contadini pescatori o pastori. Padroni ora di una vita improvvisata, astuti con gli altri diavoli che li accompagnavano o disfatti come disertori, scoppiavano infine in rigide contraddanze. Una cascata litigiosa di sonagliere mi trascinò allora in un pesante ballo di maschere. Tutti gli scansafatiche però potevano esserci in quel Carnevale, pensai anche a quella lingua di fuoco che improvvisa dalle spalle mi vomitava la sua presenza. Ero divenuta una maschera anch’io quando l’orologio rotolò ore pesanti come macigni, non capendo perché quel chiassoso formicolio si fosse trascinato tra i sassi di una strada vuota, fino ad un casolare diroccato. Il cielo ormai, dal tetto sfibrato, mi scoccava le sue stelle.

Attesi soltanto che mi accadesse qualcosa. Ma lui neanche mi disse niente.

 

“Ora li peni mia, lu mortu amuri

  M’addumanu, m’abbruscianu lu cori”

 

Prima di tutto c’è dunque la questione dei denari. Poi si tratta anche di capire una disgrazia e attraverso quella non perdere di vista le altre che si defilano all’orizzonte e non osano ammainarsi tra gli scogli. Mia nonna ad esempio, prima di me, ogni volta che il filo del discorso la conduceva alla buonanima del marito, correva a voltargli la faccia contro il muro. La foto era una di quelle brutte copie sotto vetro, come allora si usavano, incorniciata da un legno dipinto con venature di radica. Appena finivano di bollire i suoi rancori gli rivoltava la faccia. Ricordo che la storia me l’aveva raccontata mia madre, come la nonna fosse stata costretta a maritarsi quell’uomo più grande di lei, solo perché s’erano trovati chiusi nella stessa casa. Quella spina poi le era rimasta dentro la carne fino alla morte di lui, nonostante l’abitudine e i figli che quel ritratto glielo solidificavano in ogni momento. Non mi compatisco però, se ho preso un treno e ora vedo scorrere dal finestrino solo campagne spoglie e deserte pietraie. Per questo non c’è motivo di pensare che il viaggio intrapreso sia inutile. Almeno fino a quando mi risulti chiaro l’indirizzo da seguire e la velocità sia quella giusta. Vorrei concludere confidenzialmente. Con tutta la mia indignazione.

 

“Cuddau lu suli, ‘u tiempu si fa cupu:

  Mutu agnidduzzu, quannu c’è lu lupu!”

 

Per guadagnare la sua vita non dormiva la notte. Azzimato, impettito, seguendo il filo dei suoi baffetti e lustro come il suo paio di scarpe incerate, si allontanava lasciandomi tra lo sciacquio degli ultimi piatti. Che dovevo pensare? Di notte mi svegliavo e trovavo il posto vuoto. A che ora fosse partito non lo sapevo. Tastavo con le mani quel posto freddo e guardavo le lancette luminose della sveglia sul comodino. Le tre. Non potevo più dormire. Alzatami riflettevo tutti i crucci e il mio lungo fantasma, chiuso tra le pieghe della vestaglia, sulle sontuose porte a specchio dell’armadio. Nessun rumore veniva dalla strada, gli altri immersi nel sonno dei giusti. I galli ancora non cantavano, nemmeno s’indovinava fioco il rumore dei primi carretti e delle autolambrette, lo scricchiolare secco di qualche uscio, sollecito ai doveri dell’alba. Mettevo allora sul piano della cucina un qualche mio percorso dimenticato, un fastidio che avevo cominciato a caricarmi per attraversare meglio le insonnie delle stagioni. Come Penelope però dovevo disfare ogni notte la mia tela e vinta ritornare nella solita stanza buia, dove il letto m’imbarazzava come un catafalco sontuoso e maligno. E allora giravo verso il muro, come faceva mia nonna, le foto di un matrimonio troppo riparatore per essere coltivato come una promessa. Ma solo io dovevo avere il purgatorio in terra? Le liti c’erano state ed avrebbero continuato ad esserci. Attaccavo io per prima, morsa dalla tarantola, appuntendo i silenzi più che i lividi della rabbia. Ma che vita è questa?… precipitavo su Sasà. E poi gli lucidavo il ricordo dei disprezzi, delle dimenticanze, non tralasciando nemmeno solitudini e sbigottimenti. Lo sapevo che il lupo dopo quei discorsi s’incazzava. S’intanava infatti stupito e frastornato, arroccato dietro a chissà quale filone d’interessi. Addirittura sorrideva quando io alzavo le vele, costruendo con foga il mio palazzo, certo che tuttavia ad una leggera mossa della sua mano mi si sarebbe precipitosamente rovinato.

-E che ti pareva, che ti dovevo portare ogni sera a ballare?

-Ma la notte… se non si sta con la moglie, con le altre si sta. Con quelle ci stai bene?

La goccia l’avevo precipitata giusta. Mi bastava ora tenerlo nel pugno della mia sfuriata, irriguardoso mentre ritraeva il mio trasalimento. Un uomo non deve mai sposarsi diceva. Le altre sono meglio della moglie. Ci stai e le saluti. E ti dicono pure grazie.

-Vedi che ho ragione io? La testa hai perso.

-La testa l’ho persa quando ti ho sposato.

-E i figli, ai figli non ci pensi? Loro ti aggiusteranno la testa quando saranno nell’età di capire…

-E io la testa a te l’aggiusterò subito con un pugno… All’istante ti appiccicherò su quel muro come un francobollo.

 

“O stidda, ca mi vai a cantu a cantu,

Vogghiu sapiri chi è lu to ‘ntentu”

 

Nei giorni della mia infanzia lo scirocco precipitava sulle case l’inferno e lustrava gli occhi d’una strana attesa. Qualche cane allora uscendo s’attaccava al suo osso, come un ubriaco, peggiorando ancor di più la solitudine del suo fastidio. Appenati dall’ora abbassavamo gli occhi alle confidenze: avevamo un piatto di pasta da digerire e le lumachine tutte aglio e pomodoro. Intanto si sprofondavano i più piccoli in pianti volubili, mentre un’eco di flebili giochi veniva mimato e suggerito ai muri in ombre rigide e mortificate. Fino a quando la cognata Stella, navigando silenziosa verso la stuoia, ci si coricava accanto, imbarazzata nei suoi ori sormontati dal cono rigido dei capelli corvini. La storia delle lupinelle, che s’erano succedute nel governo del cuore di suo marito, lei la conosceva. Si levava allora gli ori e il rossetto, che la incorniciavano, socchiudeva ancora di più le persiane e sorvegliava con attenzione il russare dei giovani rampolli. Poi mi chiedeva s’ero sveglia, poiché come il cantastorie delle piazze aveva bisogno di un pubblico per il suo spettacolo. In realtà lei provava sempre a raccontare la sua storia, a chiunque fosse capace di capirla e di consolarla. A sua madre innanzi tutto, che in ogni occasione le diceva mangia figlia mia, come se il cibo le avrebbe tolto la spina che la straziava dentro. La madre consigliava inoltre di metterlo con le spalle al muro: lui avrebbe dovuto cucinarsi, lavarsi la biancheria, lucidarsi le scarpe, stirarsi le camicie. Bisognava aizzargli contro i figli come cani. Fargli capire che l’ora del bisogno sarebbe suonata anche per lui. Il discorso che invece le facevano i parenti di parte era un altro.

-Che ti manca? – le dicevano – Fa forse mancare niente a te e ai tuoi figli?… Ma il punto non era quel benessere che gli altri le mettevano sotto gli occhi, come se lei non lo vedesse. Si vive forse di solo pane? A dicembre si sarebbe sposata la figlia di suo fratello ‘Ndria e Stella aveva avvertito tutto il parentado di mettersi il cuore in pace, chè al matrimonio suo marito non l’avrebbero visto. Non c’era stato uno che l’avesse creduta però. Tanto che perfino lei si era convinta a comprarsi per il matrimonio un abito di pizzo nero, la borsetta in pelle, le scarpe verniciate come allora s’ usavano. Il regalo poi che avevano fatto alla nipote lo aveva scelto il marito, con la meticolosa intenzione di fare restare gli altri a bocca aperta. In chiesa però non s’era visto. Neppure al ricevimento era venuto. E alla fine di quella storia Stella s’era trovata abbandonata in quella sala immensa e immersa in quel brusio festoso, coi suoi tre figli, come un naufrago con l’acqua alla gola. Gli altri poi di quella diserzione avevano voluto conto e ragione proprio da lei, come se non li avesse avvertiti prima. Ma a lei nessuno continuava a credere.

Io ho il pane! – concludeva intanto Stella la sua cantata con un segno di croce, mentre fuori scoccavano dal campanile le ore calde del pomeriggio e le vecchie massaie battevano con le scope la loro rabbia sulle travi, per sedare il tumulto dei gatti contro lo scirocco. Io come nipote però la contrariavo e cercavo di convincermi che il cuore continuava a mostrarsi meglio nei momenti di bisogno. E lo potevo pure dire ora che Sasà aveva perso suo compare, assaporando che la vita non è sempre una festa in piazza e riconoscendo che bisognava decidersi una buona volta, davanti ai figli, a mostrare per intero quel suo lenzuolo di sacrifici. Approfittavo proprio dei momenti in cui, rientrato da qualche funerale, lui era tutto commosso.

-Lo vedi come si muore? –  gli dicevo – Nemmeno pare che l’abbiamo conosciuto. Eppure ogni giorno veniva a cercarti. Si fermava sulla soglia, nemmeno voleva entrare, se tu non eri in casa. Il lupo a quei discorsi si frastornava tutto, confuso e barricato dentro una convulsione di pensieri, come se non volesse sentirselo sciorinare che il morto trattava la moglie come una regina e che insieme si dividevano dolori e contentezze. Sfacciato però fino a domandarmi se quelle cose non ce le dividevamo pure noi: a lui i dolori e a me le contentezze…

 

“Cu sdegnu e supra sdegnu ti sdignai,

Focu di l’aria si ti guardu cchiui.”

Bruno Caruso, Topografia di Partinico, disegno colorato

In processione, appresso al dolore di Maria, una pugnalata tra le scapole mi riscosse tutta, lasciandomi come ubriaca. Mentre soffocavo rinforzai tuttavia giaculatorie preghiere e suppliche. Inutilmente, poiché le sofferenze si acuirono tanto che il sangue cominciò a sgorgarmi dal naso. Mi sentii allora improvvisamente sollevata tra la folla, ventilata, slacciata, abbandonata alla furia di quegli ebrei quasi come il Cristo dell’urna. In sinistrato dormiveglia il mio spirito s’abbattè su quattro stressanti voci di giubilo, che mi squadravano le lacrime con una curiosità insana.

-Vero allora fu? – conclusero chiocciando a più riprese su cose che avevano già indagato. Volli che subito mi riportassero a casa. Sul letto aspettai che il buio, filtrando dalle persiane, mi trasportasse in una pace insolita ed infinita.

Allora improvvisamente le anime sante del Purgatorio mi raggiunsero con le loro lingue di fuoco, sfavillanti come pugnali, dal quadro di fronte al letto. Rinvenuta infine dal mio sudario, cominciai a darmi da fare per preparare la cena. Aspettai quindi Sasà come se nulla fosse accaduto, considerando però tutte le informazioni racimolate su quella volgarità che tanto lo impressionava. Avevo già deciso di completare la carta d’identità di quella donna, venendole improvvisamente incontro da un incrocio. Per un attimo eravamo rimaste entrambe perplesse sulla precedenza, incanto sufficiente tuttavia per riempirmi gli occhi di quel suo carretto, da cui traboccava un arcobaleno di frutta matura: melograni arance fragole… con gli occhi che sbucavano come due prugne nere e succose. Erano passati quindici anni da quell’oscura notte di carnevale, tutti trascorsi ritmando battesimi e penitenze, accettando solitarie mortificazioni in nome della famiglia. Ogni due anni poi facevo imbiancare quei muri tra i quali mi agitavo. Quando decisi l’ultima imbiancatura mi soffermai però a soppesare i vecchi ritratti di famiglia, che mi guardavano sontuosamente sotto vetro, dal comò lucido dell’ultima vernice. Li radunai infine in un pacco di cartone, che sigillai meticolosamente. Alcuni quadri, resistendo ancora sui muri, avevano lasciato un alone permaloso che tentai di camuffare con paesaggi prelevati da anonimi ambulanti, o coi santini della Beata Vergine, raccolti durante i cicli delle novene. Mio marito non s’accorse di niente. Neanche le mie cognate, venute a raccontarmi i loro dispiaceri con i figli e i gran sacrifici che dovevano sopportare, notarono la novità una soffocante sera di fine estate, mentre scioglievano tra i denti la granulosa di limone. Solo mia suocera non parlava, come se improvvisamente quel gelato fosse diventato una sabbia dura e rovente che le pesava sulla lingua. Infine osò sventagliarsi con furiosa fibrillazione, richiedendo un bicchiere d’acqua come una pausa al suo dispiacere. Indicò infatti l’ultimo rospo che non poteva mandare giù, su una parete spoglia, dove il colore pesava meno uniforme.

-Dove l’hai messa?- interrogò- te l’avevo solo prestata la foto di mia madre…

 

“Voca, voca marinaru

Ca lu celu non è chiaru”

 

Quando ero piccola una volta, dopo i rintocchi della mezzanotte, improvvisamente urla selvagge ci tennero svegli. Ricordo che allora scattai sul letto pronta ad alzarmi, ma mia madre mi tenne in sospeso, poiché non erano cose da guardare disse. Lei invece venne fuori con la sua sottana bianca. Come una falena va incontro a un’improvvisa lama di luce, appiccicò alle persiane semichiuse il suo respiro. Cosi tinti, commentò poi mentre andava a letto. Ma con mio padre stette poi a confabulare tutta la notte. Sentivo i suoi lunghi sospiri e il ringhio soffocato di mio padre, entrambi persi come due merli lungo il filo di improvvisi rovinosi interessi. Poi con la luce del sole, dai muti cenni che indicavano la casa e dalle mezze parole venni a conoscere che s’erano portate la moglie e la sorella, poiché il ricercato s’era mangiata la foglia prima del tempo. Scoperte nel sonno le due donne, contro quelle maniere spicce, avevano alzato un lucido rosario. Avevano solo risparmiato la povera Sarina mezza scema, l’altra sorella che andava srotolando dumani duminica è dumani duminica è… tra le donne del paese che cucivano di tutto, tranne le loro labbra, mormorando  come quello che dovevano arrestare una volta avesse interrotto un avvertimento. Dapprima c’era stata infatti una vigna rasa al suolo e lo sgarbo non si sapeva da dove fosse piovuto. Poi una lettera pretendeva una ricompensa, a scanso di altri guai. Tutto finito però a pacche sulle spalle, tanto che ora non sarebbe stata meraviglia se il miracolo lo avesse ripetuto e meglio proprio per lui. Non so però quali miracoli veramente lo tirarono fuori, dopo l’ultima diarrea all’olio di ricino. Invecchiando lo ricordo mentre col bastone batteva, sul selciato di granito, gli anatemi della sua saggezza. Ma parlava quasi sempre da solo, mentre il vento qualche volta corteggiava le sue parole.

 

“Purtatimi na curuna

Stasira

Mi vogghiu diri lu rosari

Cu la vucca nvilinata”

 

Con trombette strepitanti, a cavallo di canne, una banda improvvisata irruppe dai vicoli stretti e s’ingrossò tutta dietro al lambrettone di Peppino. Si bloccò poi improvvisamente chè, dal suo balcone gravido di nove mesi, l’Angelina s’era tutta precipitata intonando la musica è finita. L’ultimo rombo ancora scardinò le fila ricomposte, presuntuose contro il grugno del conducente, che a perdifiato andò loro incontro. Ma a quei monelli non sorrise affatto l’idea d’avere accarezzata la schiena, squittendo perciò a destra e a manca, corsero a nascondersi dietro ai cantoni o tra gli spigoli contorti dei portoni. Poi il Peppino si sovraccaricò le spalle dei mobili, a uno a uno li innalzò fino al primo piano, mentre l’Angelina dal suo balcone come un faro lo dirigeva, gridandogli di tanto in tanto di fare piano. Restai sospesa dunque, nella meraviglia di vedermela dirimpettaia, a quel carretto multicolore che mio marito di mattina salutava, alzandole incontro la tazzina del caffè come l’ostia consacrata. Tenendola fissa nelle sue preghiere, come se quella donna, vivendo da sola, non aspettasse altro, mentre in realtà già accoglieva in casa un marito e numerosi parenti festaioli, che le sbarcavano a mensa come i Giudei nella Terra Promessa. La domenica poi era come un ballo continuo, considerato che la vicina metteva avanti a tutto volume i dischi dei festival più recenti, sontuosi e lucidi come dischi volanti. Le sue canzoni allora mi cadevano in casa con tonfi di frutta matura. Mormoravo la mia disgrazia su quanto accadeva con tutto il vicinato, essendo abituata a più riservate allegrie, mentre quella continuava ad aprire le finestre alle sue armonie e il lunedì mattina scopava al sole tutta la polvere dei suoi invitati. Sicchè alla fine proprio con rassegnazione mi dedicai a sfogliare quel nuovo vangelo, prodigo di vita ad anziani e ai giovani, che in processione santificavano quella strada da mattina a sera; dispensatore ancora di meditazioni di convenienza ai venditori di primizie, che tentavano di farla sporgere verso la loro merce, concedendole pure il nulla osta di toccare con mano. Non tralasciando inoltre di sorvegliare le liti della sera, quando il Bitto ritornava e l’Angelina, sotto le sue mani, invocava aiuto e misericordia. A lungo poi inseguivo il suo flebile guaire, dentro qualche stanzino buio, come un bambino cui si insegni l’educazione. Festini e lamentose scontentezze si inseguirono fino a quando il marito partì. Ripresero allora a vele spiegate le canzoni, il pericoloso sporgersi della donna verso gli ambulanti dal balcone rugginoso, le visite frivole di parenti ed amici. A volte il Bitto improvvisamente ritornava e l’Angelina allora diceva che le aveva fatto la sorpresa. Una volta che fece il solito ritorno inaspettato, non ci parve vero però che discutessero in silenzio. Non lo sapevo ancora che a volte per dare la morte si usa il silenziatore. Avviene forse come per lo spumante, diceva ariosa mia zia, stappandomi le sue confidenze. Se non si toglie il tappo dalla bottiglia, l’acqua vi frigge internamente ma non esce. Il potenziale botto interno non lo può mai sentire nessuno.

 

“Passanu jorni e misi, misi ed anni,

E la tò riti è sempri ddà ca penni.”

 

Quando ci avviammo il sole rompeva le nubi come un ostensorio. Tutti con un vestito nuovo, dimenticando una volta per tutte gli inciampi che avevano mortificato il correre instancabile delle ultime settimane. Ma la recita delle imbarazzate rivelazioni, imbastite sotto il baldacchino del Risorto, s’era conclusa bene. E la pena delle quattro catechiste s’era infine sciolta in beatifiche congratulazioni, strusciando la lingua su quei soliti confetti, che Sasà s’era ormai disinvolto ad ordinare. Prima con lui c’erano stati patti chiari e una pioggia lenta di imprecazioni, insistenze irriguardose affinché le sue intenzioni le mettesse sul tavolo quanto prima. Lui cascava naturalmente dalle nuvole.

-Già perché è meglio che tu lo sappia in anticipo, o vieni anche tu in chiesa o a Giugno la cresima ai tuoi figli non gliela faccio fare… Una certa ragione gliela si poteva anche dare, dato che non sapeva di che cosa si parlasse. Né da solo poteva certo immaginare l’intrigo che covava abiti festini e tutte le altre sante preoccupazioni. Ma alla fin fine non c’era niente di cui veramente convincerlo, poiché i suoi figli brutte figure non ne dovevano fare. Lo vidi per questo all’opera, nudo come un verme battezzarsi fin da prima mattina, sbarbarsi, impomatarsi, lasciando in bagno laghi e montagne di biancheria dismessa ad attendermi. Imbottigliati dentro banchi interminabili, tra un pigia pigia di comunicandi e di cresimandi, tra cenni di saluto, mormorii sommessi, clamorose risate ci trovammo infine con la funzione già iniziata, a dare conto del nostro ritardo ai padrini e alle loro mogli, impettite come candele col collo piegato della fiamma, su quel quarto d’ora per strada in un gorgo di conoscenti dell’ultima ora, tutti con gli auguri i baci e i confetti dei loro figli, che sbucavano dalle borse troppo tese e imbronciate.

 

“Durmiti, figghiu, ca la naca è nova,

D’oru li cordi e d’argentu li chiova”

 

Aspettando di riordinare le mie disgrazie, l’anno già correva insospettabile verso l’acquario, sotto nuvole di pioggia e novene di preoccupazioni. Con le sventure che non arrivano mai da sole, precipitavo dunque lenta verso incerti abbagli di verità, sempre più arresa ai miei due figli. Come i ragni della casa abbandonata, anche loro scendevano a terra con un filo, veloci toccavano appena quella vita familiare che forniva festini e confidenze, poi annoiati in un lampo erano fuori mira, a guardare rigidi dall’alto dei loro cieli. Sasà intanto costruiva la nostra nuova casa e, quando il tetto premurosamente finì di coprire il primo turno di speranze, ci aveva invitati dentro: tutta la famiglia riunita attorno a una mensa, imbandita tra travi di cemento ed impalcature di legno. E lì s’impoveriva tutto e ansimava come un sarto sulla riga di gesso, che deve inseguire fino all’orlo estremo, perché poi alla fine aveva tutto e non aveva niente. Ma se la stoffa c’era, perché non fare un bell’abito? ‘Ntoniuzzo, il figlio più maturo, s’impennava tutto a quei discorsi e lo storcersi del gusto gli veniva fuori con balbettii e vaghi cenni del capo, come i suoni a vuoto di una campana, che gli altri scambiavano per timidezza. Ma il capofamiglia, che quella testa nel sacco da parte sua non l’aveva mai conosciuta, lo apostrofò contrapponendogli infine il suo disprezzo, come se il figlio avesse per primo compiuto il peccato originale e non l’avesse invece ereditato. Alla fine ‘Ntoniuzzo a suo padre non negò nulla, nemmeno quando lo stesso volle conoscere in che mani fosse andato a cadere. Continuò invece col suo solito silenzio, che lasciava Sasà libero di correre su una rete di binari, preoccupato infine a battere su quel estremo tasto della riparazione matrimoniale, che gli altri pretendevano dal sangue suo.

 

“Ride la gazza nera, sugli aranci”

 

Ma ritorniamo all’allegria vera, poiché con quella lui quel giorno era andato a riverire il parroco. Sasà coi cresimandi avanti e tutti i compari dietro, abbracciati agli ultimi singulti che dall’organo fuggivano come diavoletti capricciosi, preoccupati dell’acqua benedetta. Dopo avere inseguito tutti insieme a precipizio quella solenne benedizione, che aveva trasformato i vari pettegolezzi in un unico solenne ringraziamento. Quasi sforzando le resistenze ultime e l’attenzione, stanchi del sudore che cominciava a lucidare la fronte e ad annebbiare i pensieri, tutti s’erano allora spinti con una fretta dignitosa verso le vetture, rosolando al sole le stoffe vaporose e plissettate, mentre i cappellini rigidi, chiusi dalle sontuose velette colorate, davano ai visi d’uccello l’impronta di strane ed improvvise migrazioni. Mentre gli ospiti si acquietavano davanti al via vai dei camerieri, Sasà diede il la alla fisarmonica, sciogliendola dal resto dell’orchestrina. Nei movimenti di danza s’inseguirono allora le prime coppie, inesperti e tumultuanti tutti i ragazzini si raccolsero invece nel vasto baglio, decidendosi infine per l’inseguimento tra i tavoli, dove gli invitati non tralasciavano di ricordare per filo e per segno quello che avevano visto.

-Ma non parevano tante sposine quelle bambine? Tutte col giglio in mano. E quando facevano la comunione, com’erano tutti bravi a presentarsi ordinati! Un maschietto e una femminuccia…

-Ed è questo il punto. Loro pensavano più al maschietto che avevano accanto che al Cristo, col quale in realtà si sposavano.

-A quell’età a che volete che pensino! Pensano alla civetteria dell’abito.

-Io per i miei figli non ho voluto fare niente di speciale. Avevano bisogno del vestitino e ho approfittato della Cresima per farglielo.

-Non c’è più sicurezza, si ritorna a vivere come nel dopoguerra, quando non si potevano tenere nemmeno le scarpe ai piedi che te le rubavano. Ognuno vuole tutto e subito.

Ma quelli che erano arrivati a simili conclusioni erano in pochi, ristretti nella tavolata come naufraghi che vedono la salvezza improvvisamente raccolta in un fazzoletto scarno di terra, circondato da un mondo sommerso. Gli altri, quelli che avevano conservato tutte le speranze, annaspavano invece e guizzavano dal loro mare come delfini, strusciandosi le guance nel giro vertiginoso dei valzer. Tutta l’orchestrina ora copriva la fisarmonica e i mandolini come cardellini gorgheggiavano con le chitarre, mentre i suonatori correvano preoccupati tra le note, inseguendo coi visi sudati la pausa finale. Un battimani improvviso chiuse infine lo scoppio dello spumante e i naufraghi, dal loro esilio, irruppero nella festa coi lieti calici.

 

“Cori nudu russu, nsanguliatu-

Supra na frasca di rosamarina,

Ci volanu li còrivi di ncapu

-E sangu cula di la rosa spina.”

 

Ora è rimasto solo, calmo sotto il mio sguardo. Lo vedo scarno, nella luce che disegna appena la sua ombra. Ha russato fino a rovinare il mio sonno, impedendomi forse di continuare a sorvegliare l’orlo del precipizio: una salvezza quasi, prima che mi potesse accadere di peggio. Ma nel sogno l’incomprensione era partita dall’educazione dei figli. Poi anche quella lite s’era improvvisamente rassegnata ad una festa dove tutti ridevano. Una lunga processione, con un santo benedicente, passava infine sotto un balcone gravido di anni, dal quale i garofani bianchi facevano capolino tra il rosso presuntuoso dei gerani. Vedevo, dentro quella stanza, la luce soffocata del lampadario accendere l’incenso, che saliva come un ospite inatteso, benedetto dal santo. Sollevate dal vento di tramontana tremavano le falde della tenda, come le ali di un tabernacolo impuro, mentre la bocca della donna addentava la mela da un lato e Sasà dall’altro. Le due dentiere lucide, aleggianti e bianche come fantasmi, arrivavano alla fine a congiungersi come i poli opposti di una calamita. Lui intanto parlava dei suoi trionfi, mentre indicava alla donna un pacco di dolci, che aspettava sul tavolo  le cortesie della padrona. Continuava infine a sostenere che non c’era niente da decidere, perché tutto era già deciso. Divagava poi su quelli che non volevano vendere. Li aveva fatti parlare chiaro alla fine. E quelli se ne erano rimasti zitti, nemmeno sul prezzo avevano più avuto niente da obiettare. Al grazie di lei infine si schermì tutto, perché non ci doveva essere nessun grazie tra di loro. Che cosa poteva costargli una bambola, se la sua picciridda gli voleva bene? Non era mica la vedova di un morto di fame. Lo guardai mentre, come in apnea, continuava a girare i suoi occhi liquidi verso di me senza vedermi. In una  incendiaria determinazione glieli chiusi, come avevo fatto con suo padre, quando lo trovammo riverso nel suo ultimo respiro. Forse avrei preferito perderlo in quel momento, nella carezza di un sonno senza sogni, immobilizzarlo su quella giostra come da bambino, quando aveva cavalcato il cavallo di Napoleone. Il fatto lo raccontava lui stesso in poche battute: la giostra ogni anno veniva da Messina e una frotta di ragazzacci s’imbastardiva ogni volta a rovinare le groppe di legno e cartapesta dei cavalli. Ma era solo suo il docile cavallo bianco, che gli si offriva, mentre la ruota della giostra scorreva veloce. Rosario continuò ad equilibrarsi intrepido sulle sue gambe, fino a quando il padrone infastidito con una trombetta cominciò a rinfacciargli la sua insistente presunzione. Ero ormai sulla soglia di quell’ultima mia battuta e quasi invocavo che la forza mi mancasse. Decidermi era infatti un po’ perdermi dentro chissà quale passaggio, in una buia galleria da cui il mio treno precipitava in un’infanzia di aridi campi. Dopo i festini trascorsi, vendermi nella parte di Giuda, sarebbe servito a liberarmi dal rimorso di una lunga confidenza. Non c’è denaro che spieghi però l’orrore della mia follia. Gli altri infatti romperanno la mia lapide e priveranno dei poveri fiori la mia unica  sensata scelta di vita. Solo i miei figli sapranno che la nuova strada qualcuno non la vedrà mai portata a termine.

 

“Mi vogghiu svacantari scurciari,

Farimi la peddi nova comu li scursuna”

 

Ti rappresenterò invece chiaramente un posto di passaggio. Una tana, da cui uscirai come un lupo, quando il sole frettolosamente tramonterà dietro un sipario di acacie ingiallite. Passeggerai forse pensando che posti sicuri non ce ne sono, che nella rete prima o poi ti ci saresti impigliato da solo, per incoscienza o per testardaggine. Ed ecco allora che ti verrà incontro l’ultimo trionfo, quell’ultima ciambella mal riuscita per la quale avrai perso il sonno e la salute. E pazienza se dapprima la porterai in giro con la tua mala voglia, deluso e amareggiato tra quelle notizie scarne e imprecise, ingigantite dalla paura e dall’impazienza. I trionfi comunque passeranno lo stesso, come le rovine di antiche civiltà, sulle quali la tua religione idolatra conserverà altri idoli. Se un freddo, come una lama improvvisa, non penetrerà anche questi sottilmente, deciso infine a farli miseramente cadere. Qualcosa allora potrebbe succederti in qualunque momento: la casa circondata dalle sirene della legge, spaventata e abbagliata da un improvviso finimondo, persino un  dolce avvelenato portatoti in casa da un amico. Perché tu solo resterai amico di te stesso, quando all’alba il cane ricomincerà a tirare la sua catena. Ti vedo già in piedi, a controllare un furgone avvicinarsi a fari spenti. Scomparirà dietro le curve, ritornando ogni volta più nitido e ingigantito, fino a quando il cane ricomincerà a lanciargli contro i suoi latrati penetranti come lame. Sento il rombo del motore sempre più insistente e vicino. Ti ritrovo infine dietro un muro di sacchi di farina. Riuscirai tuttavia, attraverso le esili feritoie, a fare largo ai tuoi occhi, mentre fuggiranno le acacie ingiallite nella segreta sonnolenza dell’alba. Scomparirà così la casa che ti aveva protetto per un mese. Ma nel fondo del tuo sacco resterò sempre io, a raccogliere il tuo rancore. So che mi sputerai il tuo disprezzo, come se quel paese di mmerda che ora ti vuole allontanare non fossi tu stesso: una fetta ignobile di festini e irregolari confidenze. Vedrai tuttavia che ti saprò stare lo stesso accanto. Come Giuditta taglierò la testa del mio Oloferne con delicata perizia, fino a quando il mondo ti resterà silenzioso nel palmo della mano: un messaggio dall’infanzia chiuso in una palla di vetro che, capovolgendosi, si animerà sotto un’improvvisa nevicata. Il camion si sarà fermato a fare benzina. Sento la sua sosta dilungarsi in chiacchiere. Commentano che hanno ammazzato qualcuno che non s’è fatto i fatti suoi. Mentre acchiappiamo le ultime notizie, con una fame d’aria insolita, il rombo del motore mi scoppia contro la sua violenza momentaneamente repressa. Resisto appena. Lo sento quasi in gola, come lo strazio d’un uccello svegliatosi improvvisamente da un incubo.

Salvatore Bommarito

 

LA GAZZA NERA SUGLI ARANCI

Allura Orlanto Palatino jsa

N. Martoglio, Centona

Nello specchio della luna

S.re Quasimodo, Il falso e vero verde

Di rosi, di canzuni di premuri

Canto Popolare Siciliano

Ora li peni mia, lu mortu amuri

Canto Popolare Siciliano

Cuddau ‘u suli, ‘u tempu si fa cupu

Vann’Antò, voluntas tua

O stidda ca mi vai a cantu a cantu

Canto Popolare Siciliano

Cu sdegnu e supra sdegnu ti sdignai

Canto Popolare Siciliano

Voca, voca marinaru

Canto Popolare Siciliano

Purtatimi na curuna

I.Buttitta, La Peddi Nova

Passanu jorni e misi, misi ed anni

Canto Popolare Siciliano

Durmiti figghiu, ca la naca è nova

Canto Popolare Siciliano

Ride la gazza nera, sugli aranci

S.re Quasimodo, Nuove poesie

Cori nudu russu, nsanguliatu

A.Cremona, Occhi Antichi

Mi vogghiu svacantari scurciari

I.Buttitta, La Peddi Nova