Da mani mortali
di Biancamaria Frabotta (Mondadori)
Biancamaria Frabotta, romana, una vita spesa nell’impegno civile (è stata femminista militante e a lungo ha scritto sulle pagine del Manifesto), e per la poesia (ha curato, tra l’altro, le antologie Donne in poesia, Roma, Savelli, 1976, Letteratura al femminile, Bari, De Donato, 1980), insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Il suo ultimo libro di versi, Da mani mortali (Mondadori), è un’opera composita che, oltre all’omonima raccolta del titolo, contiene, rielaborate con alcune varianti, sezioni di liriche già apparse come Gli eterni lavori (San Marco dei Giustiniani, Genova, 2005) e I nuovi climi (stampa, Brunello, 2007). Ad apertura del libro, quasi da passe partout per il lettore, la Frabotta abbozza un ritratto dei poeti: Sono come le pulci , i poeti / acquattati nel pelo del mondo. / Invisibili, se ne stanno passivi / nelle ore dolci dei vivi […] Oh, se mordono nei loro nidi […] E bisogna cercarli perché / smettano infine il fastidio / uno a uno e prima o poi / di certo, scovarli, stanarli dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti. La messa in guardia tra l’ironico e l’amaro, lascia trapelare il disagio di una condizione rara e controversa, ambivalente come la verità, difficile da accettare. La verità, come i poeti, non può passeggiare libera per il mondo senza pagare dazio a una società ostile. Subito dopo ci immergiamo nel rapporto familiare (dunque non esente da scontri e convivenza complicata) tra l’io del poeta e la natura. Le osservazioni ravvicinate degli animali inducono a similitudini da bestiario medievale, paradigmi dei vizi umani: “fra i gruccioni / dalle ali d’oro si sparge la voce / che in troppi saltellano sullo stesso ramo” (pag.48), o, a pagina 85, dove, il cane della vicina, “abbaia dentro al sole / affinché, su di lui, il sipario non cali”. Una non comune conoscenza botanica, degna dei poeti lirici che hanno fatto la storia della poesia, ci accompagna in questo primo itinerario contemplativo: l’ibiscus, il plumbago, le spine di Cristo sono gli attori di “quella pace truccata / che al mattino scuote la coperta dei sogni”. La natura è ribelle, i biancospini liberi corrono in alto “Raggirando la vana gloria di piegarli / in archetti di trionfo”, un uccellino “puerile”, invece, “sta sotto il tetto a guastare il silenzio / con un gorgheggio qualsiasi, a gustarsi / la sua causa persa dall’inizio del mondo”. Le notti vivono di risvegli agitati, le albe falcidiano i giorni, il poeta esclama: “Non si dorme dalla parte del cuore”. Giungiamo alla sofferta sezione “Poesie per Giovanna” (dedicata a Giovanna Sicari, poetessa di talento morta precocemente), bagnata di nostalgia rabbiosa, che culmina nei versi struggenti della penultima poesia: “Manca un fiore / alla tua tomba recente. / Non avertene a male / se lo rubo a un vicino. / Nutrita è la sua scorta / e perdonerà il furto. / È la prima estate / che t’ho voltato le spalle. / Come quando il mare è solo, la sera / e si smette di guardarlo”. La Frabotta è dotata di penna dai tumulti composti, grande senso della misura del verso, dall’accento lirico che non si sfilaccia nemmeno davanti ai dissesti emotivi dell’invettiva, come nella turbata ma salda “Vattene, Presidente, dai cieli”. Il suo verso addomestica gli accadimenti e contiene i dolori, aristocraticamente, potremmo dire, senza sfumature negative di senso. Le tonalità raziocinanti della scrittura talvolta la avvicinano a Valentino Zeichen, poeta e amico peraltro citato nel libro (insieme, tra gli altri, a Maurizio Cucchi, Antonella Anedda, Giorgio Caproni). In La casa dello studente, invece, l’autrice adopera lo sguardo materno, facendosi complice delle inquietudini adolescenziali dei suoi allievi: “Troppo / il pensiero della prova imminente / lo assillava e altro non temeva / la sua giovane età, cui ogni cosa è amica. / Sognava la patria artificiale dell’infanzia”. L’infanzia come luogo fittizio di salvazione, punto di fuga di un’età, l’adolescenza, che ha come tappa obbligata l’antidogmatismo e il rifiuto delle convenzioni. L’eponima ultima sezione del libro viene inaugurata dalla dissezione di un cadavere, quello reso celebre da Rembrandt nel quadro Lezione di anatomia del dottor Tulp, “sotto l’argento vuoto della pelle / il pudore non è ancora estinto / ma del tuo cuore in pezzi conta / solo lo sconosciuto risvolto”, mani mortali sono quelle che frugano nella carcassa di quell’uomo, indifferenti e irriguardose verso “l’eternità trascendentale” di quell’ombra che si fugge dal corpo. La morte, insieme ai lividi del “tempo usuraio atroce” (Zanzotto), si stende su questi ultimi versi provati, sfiancati da una maggiore disillusione. La “risanata Genova” del poeta Caproni si tramuta nella “capitale delle rovine d’Italia”, irriconoscibile rispetto al suo passato di lotte operaie e “operaia decenza”, “Oh Giorgio, mio Giorgio / quale nuovo disastro è ora nell’alba / fra nuvole dissolte e rifatte poco in là / eguali, come Allah vuole, che il cosmo / ricrea ogni attimo che muore”. Ci proiettiamo nei simulacri del poemetto Il gesto più gentile dell’amicizia, ispirato da una visita dell’autrice alla villa La Rondinaia, sulla costiera amalfitana, appartenuta allo scrittore Gore Vidal che la lasciò alcuni anni fa, in seguito alla scomparsa del sodale Howard Austen. Le presenze diventano sagome assurde e insignificanti di “un blindato condominio di spettri”, i lustrini e le stelle del “vecchio Nuovo Mondo” americano appaiono come putrescenti macchiette grottesche, nella stanza zeppa di foto, “l’apparato infetto delle Memorie”, “non è il caso / di prenderti sul serio, mio caro Gore lasciò scritto una di loro”. Un lutto irredimibile, angoscioso, assorbe per intero la mente dello scrittore in questa epica funesta immaginata dalla Frabotta, come quella d’un nobile decaduto nei film di Visconti o nei romanzi di Thomas Mann, qui la vanità irride le vecchie ambizioni e tutto mostra il volto sfacciato della polvere. “Ciascuno si crede il primo sulla scena del mondo”, e altrove, con sarcasmo: “L’Eterno s’apposta dietro la prima fila delle palme / grida un buongiorno smisurato dal bel mezzo dell’Eden / da ciascuno staccherà la sua ombra la lima del tempo. / Ti prego, dammi la mano, la battaglia è perduta”. Bruciano gli altari eretti al profitto e alla popolarità, cala il sipario senza che lo spettacolo possa continuare per gli artisti. È la volta di fare i conti con Dio, noi, sue “Sagome fraterne, fragili bersagli”, che così interloquisce: “sono inscritti negli annali / della solarità mattutina, gli stili / del mio più riuscito romanzo”. Un Dio che si rammarica di non poterci essere amico e di non potersi godere i frutti del suo creato: “Da qui è impossibile avvertire le allegrie delle allodole / le malinconie delle bisce, il risveglio torpido dei fiori / il gracidìo delle rane nate a mia insaputa negli acquitrini. / Anche gli astri, nell’alone dei gas, hanno compassione di me”. Un Dio, pentito e penitente, ribaltato dalla sua condizione di onnipotenza (immaginato a otto anni perfino), dubbioso come i mortali suoi figli: “E se fosse stata soltanto rimandata / come una lettera lasciata a mezzo / la mia divina creazione / dell’esistenza animale / la felice combinazione / io che non ho il tempo / di dare importanza al tempo. / Io per sempre fuori di me”. Negli ultimissimi versi, torna l’io singolare (proprio mio, aggiungerebbe Patrizia Cavalli) della Frabotta, l’irregolare passo dei poeti che è più un zoppicare (“abbacinante zoppìa”), con un bilancio colmo di perplessità stemperate dall’ironia. Chiedendosi se presto sarà stufa dei ricordi, si risponde nei versi della poesia successiva così: “Da tempo sono uscita dall’infanzia. […] In quanto lettrice profana di un testo sacro / dai ricordi venni infine bandita. E sulla carta / usurpai la vita che era stata, così credevo, mia.” E conclude affermando la sapienzialità del poeta: “un poeta sa che l’opera finisce dall’inizio”, “perché un poeta sa / quando risuona la sua ora”.