I decenni post-unitari in Italia furono segnati dal confronto con le sollecitazioni e gli orientamenti del positivismo, la costruzione culturale più rispondente ai bisogni di conoscenza e di sistemazione ideologica dell’epoca del decollo industriale francese e tedesco. Penetrato in Italia già nei primi anni Sessanta, avrebbe dominato nel decennio successivo. Aveva fornito anche strumenti per rilevamenti e ripensamenti di natura critica e polemica, cosi come forniva supporti ai nuovi orientamenti del pensiero socialista.
Si costituiranno poi, di fronte alle forme «forti» del panorama europeo – Darwin, Dilthey, Nietzsche, Bergson, Simmel e, poco dopo, Freud, Weber, Einstein –, come solidi punti di riferimento, nel consenso e nel dissenso, anche per il loro guardare a un pubblico non soltanto accademico e specialistico, il neoidealismo di Croce e Gentile nella sua dimensione europea. Del 1903 è il saggio La rinascita dell’idealismo di Gentile. Del primo decennio del secolo è quasi l’intera prima sistemazione del pensiero crociano. I due avevano costruito per il presente e per il futuro una vera e propria condizione di egemonia, diversa nelle forme teoriche ma convergente nei fini, in varia opposizione a illuminismo, socialismo, democraticismo, positivismo (visto come filosofia intrinseca a liberalismo democratico e socialismo), marxismo, giolittismo, massoneria, cattolicesimo e religioni confessionali in genere, sviluppi teorici del sapere scientifico. Una costruzione che in qualche modo per gli intellettuali, per l’élite dirigente ma anche per vasti strati dei ceti intermedi italiani, fu una sorta di scudo che li difendeva dalla coscienza della crisi di fine secolo e dalla filosofia della crisi dello stesso Novecento, mentre era essa stessa una risposta e una soluzione per la crisi della filosofia, con significativi esiti in direzione religiosa (e cattolica) in Gentile (l’attualismo come inveramento del cristianesimo). Una risposta e una soluzione, ben radicata nella tradizione di pensiero italiana, a quella che vorrei chiamare crisi nella modernità. Come pure costituì un punto di riferimento in rapporto al confronto, che impronterà tutto il Novecento, tra razionalità e irrazionalità.
All’interno di questo sistema il pensiero crociano già nella sua prima definizione appare per quel tempo come il vero garante per la cultura italiana di una modernità di impronta, diciamo in senso ampio, razionalistica (a parte effettivi equivoci, concessioni, cedimenti, compromissioni, disponibilità) e insieme antipositivistica e quindi antiscientifica. Croce insomma favoriva lo sviluppo dell’intellettualità italiana al più alto livello possibile nelle condizioni date, qualunque sarebbe stato il suo esito politico. Debole in questo stesso periodo, dopo Labriola e prima di Gramsci, la presenza del pensiero di ispirazione marxista.
Un loro spazio, benché ristretto, ebbero nuovi orientamenti del pensiero, propri anche dell’area del pragmatismo, in direzione religiosa, fossero o no coinvolti nel movimento modernistico, e riflessioni specificamente filosofiche con intrinseca in-terconnessione con la religiosità e con la religione. Quasi tutti in rotta di collisione col neoidealismo. Massimi esponenti ne furono Piero Martinetti e Antonio Aliotta. Una diversa connotazione ha l’organizzazione di un pensiero direttamente funzionale alle posizioni di potere e di controllo culturale della Chiesa cattolica, che sin dalla fine dell’Ottocento trova il suo radicamento nel neotomismo. Avverso naturalmente sia alla razionalità come all’irrazionalità secolari.
La battaglia contro il positivismo è il collante delle posizioni culturali, sempre più diffuse ed esuberanti negli anni del primo Novecento, di ispirazione irrazionalistica, essenzialmente rappresentate dagli intellettuali facenti capo a Papini e Prezzolini, con sbocco finale nel futurismo, compattati dai miti giovanilistico e vitalistico e dalla fede di fondazione pragmatistica – sul versante di James e Ferdinand Schiller – nel primato della volontà e volti anche verso un riformismo liberal-moderato di impronta cattolica. Luogo di aggregazione è la rivista “Leonardo”, fondata nel 1903. Presto, dopo un’equivoca convergenza con Croce – che dichiarò decisamente la propria differenza nello scritto del 1908 Un carattere della più recente letteratura italiana[1] -, le loro convinzioni avrebbero trovato conferma forte, anche se indiretta, nel pensiero gentiliano. E una fitta trama di convergenze e di scambi si sarebbe imposta con certe posizioni dell’anarco-sindacalismo alla Sorel. Un’esperienza del tutto isolata è quella di Carlo Michelstaedter, che preannuncia l’esistenzialismo col suo La persuasione e la rettorica, terminato nel 1910.
A Catania si era avuta una diffusa cultura socialisteggiante, da Rapisardi a De Felice Giuffrida[2]. Meno presente l’influenza del neoidealismo crociano in parallelo con una relativa persistenza del positivismo. Presente nelle teorizzazioni della critica letteraria, quella di Capuana, la lezione desanctisiana.
Va delineato il quadro della produzione letteraria di questi decenni. In questa sede quella dei siciliani nel rapporto con la storia generale[3]. Illuminanti le pagine di Gramsci, del 1918. La Sicilia, vi leggiamo, nei cinquanta anni post-unitari ha avuto «una vita a carattere nazionale proprio, più che regionale», nel senso che ha contribuito alla formazione di una realtà nazionale italiana[4]. La vera natura dei siciliani si era rivelata nel teatro dialettale: una «indipendenza spirituale». Ma era una vita fondata sulla cultura che non amava Gentile di Il tramonto della cultura siciliana, del 1918.
Dopo La nana di Navarro della Miraglia, del 1879, il Lucifero, del 1877, le liriche Giustizia, del 1880-82, il poema Giobbe, del 1884, le Poesie religiose, del 1887, del Rapisardi, si hanno Le Occidentali, del 1880-96 e Le consolatrici, del 1896-1910, del Cesareo. Già De Roberto, aveva dato il suo Ermanno Raeli, del 1889. Ma il 1894 è il grande anno derobertiano: I viceré e l’inizio di L’imperio. Del 1894 è anche Atlantide di Rapisardi. Del 1896 è il debutto di Concetto Marchesi, ammiratore di Carducci e Rapisardi, con le sue Battaglie, poesie rapisardiane di ispirazione democratica ed egalitaria. Del 1895 è La zolfara di Giuseppe Giusti Sinopoli e del 1897 Costumi e usanze dei contadini di Sicilia di Giuseppe Salomone Marino. Il mondo del lavoro operaio e contadino si impone nuovamente all’attenzione. E nel 1909 l’agrigentino Alessio Di Giovanni darà Gabrieli lu carusu. A lungo si interesserà alla realtà della zolfara Rosso di san Secondo. Al mondo dei rapporti familiari guardava il romanzo del vescovo Mario Sturzo I Rivali, del 1903. Contemporaneo è il lavoro letterario e teatrale di Nino Martoglio.
Gli anni Settanta e soprattutto Ottanta, va tenuto presente, sono il tempo di Verga. Per i primi decenni del nuovo secolo è forse emblematica la sua confessione dell’agosto 1896: «mi sento proprio fuori dal mondo, e finito»[5]. Lo ripeteva ancora a Dina nel 1912, e in una lettera al fratello Mario, nel 1920, si diceva «finito quasi del tutto e prossimo alla fine»[6]. Fine fisica quasi esito di quella letteraria. Il suo lavoro autenticamente creativo si era chiuso tra secondi anni Ottanta e primi del Novanta, il tempo del Mastro don Gesualdo, del 1887-1889, ma anche del concentrarsi di raccolte di novelle da Drammi intimi, del 1884, a In Portineria, del 1885, a Vagabondaggio, del 1885-87 a I ricordi del capitano d’Arce, del 1891, a Don Candeloro e C.i, del 1893-1894. Si afferma nella seconda metà del decennio Novanta un quasi esclusivo interesse per il teatro con le trasposizioni di La Lupa (a cui lavora per un decennio), In portineria, Cavalleria rusticana[7]. Il teatro forse come generale metafora della vanità e dell’inconsistenza (mondo di burattinai e di marionette, e di attori falliti[8]). A fine secolo lavora ancora al romanzo La duchessa di Leyra, progettato sin dalla fine del Mastro, ma ne abbandonava definitivamente il progetto poco dopo il 1911[9]. Tanto meno poté tentare i romanzi conclusivi del ciclo: L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. Dei primissimi, 1901-1902, del nuovo secolo sono i «bozzetti scenici» La caccia al lupo (ma nato come racconto nel 1897) e La caccia alla volpe. Procedimento inverso è quello dell’opera più importante del tempo, Dal tuo al mio, nata come dramma, rappresentato a Milano nel 1903, poi transcodificata come romanzo.
Continuava a svolgersi la fase più significativa dell’operosità sia critica sia narrativa di Capuana. Della prima metà degli anni Novanta è un grande impegno di produzione novellistica, dalle Appassionate alle Paesane. Poi saranno quella al romanzo, di cui dirò più avanti, e l’interesse alla narrativa fiabistica e fantascientifica. Ma anche al teatro dialettale. Per cui dirà, in una lettera a Martoglio, del loro «sogno di autori dialettali»[10]. Un sogno che si legava anche alle necessità e alle attese di ordine economico.
Intanto Giorgio Arcoleo, in L’umorismo nell’arte moderna, del 1885, aveva denunciato la mancanza di comprensione del senso vero della realtà negli scrittori italiani. Lo stesso Arcoleo, nel 1897, in una conferenza milanese su Palermo e la cultura in Sicilia aveva espresso la speranza di integrazione nazionale della regione. Mostrava un profondo disagio rispetto alla situazione culturale isolana. Mentre Pascoli (a Messina dal 1898 al 1903), ne L’èra nuova, del 1899, si interroga sul proprio tempo e la fine secolo e non trova che la poesia abbia svolto una funzione positiva. Nel 1898 usciva a Catania Gli “ismi” contemporanei di Capuana. Il 1902 è l’anno delle lezioni universitarie di apertura e chiusura dell’anno accademico di Capuana e Rapisardi sull’avvenire dell’arte. È lo stesso anno dell’Estetica di Croce. Capuana dice della babele contemporanea. Ancora Pascoli, nel 1903, nei Pensieri di varia umanità, sostiene l’istanza siciliana di autonomia politica e culturale.
Gli intellettuali siciliani non potevano non registrare quella che chiamerei «nascita del superuomo». E lo facevano prevalentemente rifiutandolo. Del 1895 è Le vergini delle rocce e Claudio Cantelmo è il primo superuomo dannunziano. In verità l’antidannunzianesimo è una costante della cultura siciliana del tempo. Avverso a D’Annunzio è i1 Cesareo delle Conversazioni letterarie. Prima serie, del 1889, pubblicato a Catania. Antidannunziani erano Rapisardi, Capuana e Borgese. Del 1909 sono le pagine di Borgese su D’Annunzio in cui denuncia la devianza della letteratura e il correlativo scetticismo degli intellettuali in Europa.
Un contrappeso si ha con Rassegnazione di Capuana, del 1896-1900 (in volume nel 1907), che forse segna la nascita di un’altra grande figura letteraria, il disadattato, l’inetto. Una sconfitta sarà il tema di fondo del capuaniano Marchese di Roccaverdina, del 1901, una sconfitta individuale, che è anche riflesso della fine del potere della classe baronale, una fine senza alternanza. Del 1904 è Il fu Mattia Pascal di Pirandello, che sancisce la perdita di identità. La rappresentazione letteraria va dalla fiducia del mutamento storico alla crisi dell’Io. Il pirandelliano I vecchi e i giovani, del 1905-13, che guarda a Colajanni, registra il fallimento del processo di modernizzazione. Ma già Scurpiddu di Capuana, del 1906, era una sorta di presa d’atto che bisognasse ricominciare da zero. Negli anni della guerra mondiale, nel 1917, Rosso di san Secondo costruiva col romanzo La fuga un metafora del disagio e della ricerca di autenticità. Nel 1908-9 De Roberto, deluso e polemico nei confronti della prassi politica contemporanea, aveva interrotto il lavoro a L’imperio, che ha un finale leopardiano e pirandelliano (del Pirandello di I Vecchi e i giovani)[11] e denuncia la crisi del parlamentarismo. Poco dopo, nel 1912, darà Rosario.
Ci chiederemmo se non avesse vinto il superuomo. Contrastato solo, diremo, dal populismo sicilianistico, di cui dirò.
Sul piano del diritto e della sociologia un Angelo Majorana, dal 1889, aveva additato, in area politica moderata, le vie del progresso e dello sviluppo (in armonia con De Felice). Ma Giuseppe Vadalà Papale vedeva le possibili patologie dello sviluppo stesso. Del 1900 è il suo Il pessimismo del secolo e la patologia sociale, e dell’anno 1900-1901 è la lezione inaugurale Progresso e parassitismo. Nel 1896, Gaetano Mosca, con gli Elementi di scienza politica, forniva una acuta riflessione sulla classe politica, nella convinzione che il potere sia sempre di natura elitaria. Antonino di San Giuliano, nel 1893, con Le condizioni presenti della Sicilia, aveva proposto interventi modernizzanti in campo agricolo. Un Napoleone Colajanni, che sarà a lungo presente nel quadro della riflessione politica, specie con la «Rivista popolare…», da posizioni coincidenti con lo spirito dei Fasci, si soffermava acutamente sui problemi siciliani: Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, pubblicato a Roma nel 1894 Con animata prefazione di Rapisardi. Intanto emergeva dal 1897 la figura di Luigi Sturzo con «La Croce di Costantino». Anche lui guarda all’unità d’Italia, ma poi vorrà la Sicilia ai siciliani: Sicilia ai Siciliani, del 1903. Del 1910 sono i Saggi di propaganda politica e ideologica di Giuseppe Lombardo Radice. In sostanza le posizioni di De Felice, Sturzo, Colajanni sono di opposizione al centralismo e a Giolitti.
Ancora sul piano degli orientamenti politici degli intellettuali siciliani, ampio favore riceve l’impresa di Libia, e si deve tener conto della politica mediterranea di un San Giuliano. Non la approvò però Colaianni e particolare fu la posizione di Mosca. Diffusa era anche, come si è detto, l’avversione al centralismo e a Giolitti. Dopo le elezioni del 1913, si rafforzano le posizioni che chiameremmo di orientamento democratico. E si diffondono posizioni di tipo populistico. Si hanno anche i primi orientamenti in senso interventistico, come quello di Capuana di L’acciaio vivente, del 1913. Si segnala «Il Giornale d’Italia». Interventisti sono anche Sturzo e Colajanni[12]. Interventista è Borgese di Guerra di redenzione, Italia e Germania, del 1915, e di La guerra delle idee, Guerra e letteratura, del 1916, in cui sviluppa l’idea che la guerra cambierà anche la letteratura. Posizione decisamente interventistica assume l’Ateneo di Catania, col suo rettore Giuseppe Majorana. Ma anche quelli di Palermo e Messina. E sono università che godono di notevole prestigio. Seguirà nel dopoguerra una piena fascistizzazione.
Negli anni dei Fasci siciliani Capuana, nel 1892, con La Sicilia e il brigantaggio, poi in L’isola del sole del 1898, negava la realtà del dominio della mafia in Sicilia, mentre riconosceva come mafiosità i comportamenti individualmente aggressivi e violenti. Ne seguiva l’attacco del Boutet, che nel 1894 da Napoli contestava l’effettivo realismo dei veristi: Sicilia verista e Sicilia vera[13]. Il tema della mafia sarà ben diversamente ripreso da De Felice e Colajanni (p. 819-20) e poi, tra 1901 e 1904, da Mosca: del primo Mafia e delinquenza in Sicilia, del 1900, che asseriva la scomparsa della mafia nella Sicilia orientale con la fine del latifondo; del secondo Nel regno della Mafia (Dai Borboni ai Sabaudi), pure del 1900; gli scritti di Mosca apparivano in parte sul «Giornale degli Economisti». Verga sembra propendere per la posizione di Capuana. Al mondo delle sette e delle organizzazioni segrete, viste positivamente, volgerà l’interesse dei lettori la narrazione di Luigi Natoli, I Beati Paoli, apparso per la prima volta a puntate sul «Giornale di Sicilia» tra il 1909 e il 1910, poi pubblicato a dispense nel 1912 e nel 1931 dalla Casa Editrice palermitana La Gutenberg.
Certo la realtà della mafia era ben nota sin dagli anni Settanta. E proprio nei primi anni Novanta culmina la controversia intorno al Banco di Sicilia, che si risolverà nel primo omicidio «eccellente» di mafia, quello di Emanuele Notarbartolo. Nel dicembre 1901 si sarebbe svolto alla Camera un dibattito sulla questione meridionale. Poco note però ne erano la natura, la consistenza e l’organizzazione. E costante è la confusione con la camorra e con lo stesso brigantaggio. Non solo tra i letterati, ma addirittura tra prefetti, questori e magistrati, per non dire dei politici. Capuana da una parte riflette questa situazione dall’altra è motivato dalle preoccupazioni sicilianistiche di ordine politico. L’impegno a non dare della Sicilia un’immagine di terra, direi con suggestione tra Tomasi e Sciascia, irredimibile. Il tutto si risolve nella negazione e in una rinuncia di fatto a conoscere. Si stabilivano la rinuncia a una sicura informazione e il difetto di una decisa volontà di comprensione, determinate dalla sottovalutazione del peso politico, economico, sociale, morale del fenomeno.
Si deve riflettere sul fatto che molte delle opere ricordate furono pensate dopo una vicenda decisiva per la storia della Sicilia di fine Ottocento, la fine del governo della Destra, il movimento dei Fasci siciliani[14], e in concomitanza con la ricordata ascesa delle organizzazioni sindacali e politiche di ideologia socialista. Si legavano in qualche modo all’ideologia riparazionistica. Ma anche un’altra vicenda e un’altra data sono decisive nella coscienza degli italiani e dei siciliani in particolare: il 1896 e la sconfitta di Adua, che segnava la fine del crispismo[15]. Che dava un duro colpo al riparazionismo[16]. Ha un suo significato quella che è stata chiamata «diaspora siciliana»[17]. Lasciano la Sicilia Mosca, Arcoleo, Colajanni, Marchesi.
Molte scritture di siciliani del primo Novecento sembrano mirate in gran parte, rispondendo a Boutet, a costruire quella che ritenevano una rappresentazione autenticamente realistica della più genuina natura dei siciliani delle classi subalterne, riconducendone il comportamento sociale a istintività caratteriale, di costume e di educazione. E questo tentavano di ottenere soprattutto con la grande, decennale, produzione e messa in scena di opere teatrali in dialetto. Martoglio della Centona confermava questa rappresentazione. Non si trattava di salvare un certa Sicilia, ma di farla conoscere nella sua verità qual era riconoscibile nel suo popolo non acculturato soprattutto cittadino.
Sono a Catania, tra fine Ottocento e primi del nuovo secolo, Verga, Capuana, Rapisardi, De Roberto, Martoglio, Sabatino Lopez. Proprio questo, vissuto a Catania (professore) dal 1895 al 1898 tanti anni dopo avrebbe scritto: «La destinazione a Catania mi piacque perché la città era allora poco meno che una capitale delle lettere: vi fioriva una Facoltà Universitaria, ci vivevano Rapisardi, Verga e De Roberto. Capuana ci faceva frequenti comparse e tra gli altri, i più giovani, godeva una grande popolarità Nino Martoglio. Catania era anche un centro politico, vivace e ardente anche nei dissidi: basta ricordare i Majorana, Di San Giuliano, De Felice […]. Città appassionata, attiva e tale per la sua bellezza da essere desiderabile e desiderata»[18]. Ben diverso giudizio però sui catanesi – come sui siciliani in genere – esprimevano in privato i Capuana e i Martoglio.
Martoglio però vi rimarrà per poco. Nel 1902 era stato eletto consigliere comunale nella lista dei partiti popolari. L’allontanamento da Catania fu anche determinato da contrasti coi socialisti catanesi. E non solo con questi. Col settimanale «D’Artagnan», del 1889-1904, si era prefisso la difesa delle classi subalterne, come i poveri della Civita, il quartiere del sottoproletariato catanese. Una difesa legata alla rappresentazione di quella che voleva presentare come effettiva realtà della mafia. O, meglio, del mafioso. Vi furono pubblicati i sonetti in dialetto siciliano sulla «maffia», che poi furono riuniti col titolo ’O scuru ’o scuru, pubblicato a Catania nel 1896, e gli otto sonetti ’A tistimunianza, del 1899. Questi avrebbero avuto collocazione definitiva nella Centona, pubblicata la prima volta nel 1899 dall’editore catanese Giannotta. Coi Poemetti, del 1902, aveva riproposto il livello delle forme alte. Famoso è il suo testo teatrale I civitoti in pretura, del 1903. L’aria del continente, del 1915, segnerà una sorta di chiusura nella realtà siciliana. Si potrebbe parlare di un populismo cataneseggiante. Ma per questo alle spalle è la grande rappresentazione della Caristia di Tempio.
La Centona, arricchita di altri versi in siciliano, Lu fonografu, La ’atta e la fimmina, Fimmini beddi, L’omu, Marvi e Marvizzi, La triplici allianza, il «bozzetto melodrammatico» Vanni Lupu, e col corredo di puntuali note linguistiche e informative, ebbe varie edizioni. Nel 1907 apparve quella con la prefazione di Capuana[19]. Poi, nel 1924, morto Capuana, apparve con la prefazione di Pirandello. Sarebbe interessante, ma non è questa la sede, seguirne la storia della composizione e della pubblicazione. Qui seguo la vicenda delle prefazioni e premesse.
La Centona del 1907 si apre con la riproduzione di uno scambio di informazioni e osservazioni tra Capuana e Martoglio sulla raccolta avvenuto in forma epistolare con illuminanti lettere di Martoglio a Capuana da Roma dell’ottobre 1906 e di Capuana a Martoglio da Catania del novembre dello stesso anno[20]. All’insegna l’uno della nostalgia di Catania – «l’Etna fumante» – l’altro di quella di Roma – i «Sette colli» -. Si comprende da questo scambio quanto fosse importante per loro l’impegno a produrre una poesia in dialetto siciliano. Un’importanza non solo letteraria, ma anche culturale e politica. Era in gioco l’immagine della Sicilia. La prefazione di Capuana era di fatto questa lettera.
Martoglio dice dell’edizione con l’editore Giannotta di Catania di tutte le sue poesie in dialetto siciliano fino ad allora composte e sparse in parecchi «volumini ed opuscoli», specie quelle pubblicate nelle sedici annate del «battagliero e popolare» periodico «D’Artagnan». Ma anche di quelle inedite. Le ha raccolte «per genere» in «otto libriccini che formano il volume». È stato un percorso aperto alle memorie: il «godimento intenso, e in uno acre e doloroso, del riandare a rivivere, attraverso la lettura dei miei sonetti, i giorni or lieti, or burrascosi – sempre cari alla memoria – della mia prima giovinezza». Nel ricordo di Catania dice della «nostalgia del suo Etna fumante» e del «profumo mesto e soave dei ricordi». E la Sicilia è chiamata con immagine sorprendente «l’Isola mia selvaggia e gentile». Per la stessa affezione al proprio passato e per amore di verità ha incluso nella raccolta anche i componimenti da lui stesso giudicati «ben mediocri». Anche questi però sono «frutto delle sue viscere, insieme con quelle venute su forti e diritte». E aggiungeva: «Eccole, dunque, l’intera raccolta. Io sciolgo, inviandogliela alla vigilia della pubblicazione, una vecchia promessa – ricorda? Sarò ben lieto e orgoglioso se vorrà sdegnarla di una lettura, anche sommaria, e se vorrà gradire l’omaggio di uno degli otto libretti – il primo – ma come fosse… che dire?… come fosse cosa migliore. Il primo è ’O scuru ’o scuru, quello sulla mafia. E non è senza significato.
Importanti le dichiarazioni teoriche e di metodo. Andando oltre le forme del Meli, suo convincimento è che «mandato» del poeta dialettale sia «uno solo: quello, cioè, di rispecchiare[21], con sincerità di vocaboli, di frasi e di locuzioni – non scompagnati da frequenti idiotismi – l’anima del popolo che parla il linguaggio nel quale egli scrive». E specifica che ha cercato di riprodurre le varietà linguistiche tra le varie città, i vari borghi, e addirittura «i gerghi di certi dati quartieri e di certe date caste di popolani.
Distingue quindi un «genere soggettivo» e un «genere oggettivo». Nel primo, quello del sentire personale, ha sempre cercato di evitare la retorica, ha sempre cercato di esser fedele alla realtà del sentire popolare, evitando le sovrapposizioni e le intromissioni letterarie. E non ha evitato di ammettere certe espressioni «allobroghe e crude, ma sincere» dell’uso popolare, «come crudo e sincero è il popolo siciliano, ingenuamente guascone, caldo, generoso, entusiasta […] per tentare di renderne la grande anima nella sua integrità». Possiamo certo cogliere in un tale giudizio un effetto di mitizzazione, forse anche effetto della distanza – sentita come definitiva? – Come rivela l’interposta commossa evocazione: «il caro popolo col quale mi sono, per anni ed anni, confuso, lungamente indugiandomi a studiarlo e ammirarlo». E conclude con commossa interrogazione: «Oh, se vi fossi riuscito, anche in parte! Potrei dire di non aver vissuto invano».
La risposta di Capuana, è anzitutto un ringraziamento, ma insieme una dichiarazione di obiettività nei giudizi che darà sulla raccolta. Che sono in effetti densi di riserve. Quello sul libretto a lui specificamente dedicato ne afferma la straordinaria eccellenza. I tredici sonetti del libretto «segneranno una data nella storia della poesia dialettale siciliana». Li aveva già letti in una stampa precedente e si conferma l’«impressione di artistica sincerità che gli era parsa felice innovazione e che ha esercitato benefica influenza».
Si sofferma quindi sull’aspetto linguistico, con insistito apprezzamento del superamento da parte di Martoglio, per primo, dell’«orgoglioso pregiudizio» che il siciliano non sia dialetto ma lingua e perciò in grado di affrontare e trattare qualunque argomento e di ottenere l’espressione poetica più elevata. È un punto questo di eccezionale importanza, su cui tornerò.
Passa poi a raffigurare il caleidoscopio di figure e figurette che i versi di Martoglio fanno emergere: «vedevo sfilarmi davanti tutti quei tipi di mafiosi, di donnaccole chiacchierone e pettegole, di giocatori di briscola e di tressette, di ciarlatani, di burattinai e di frequentatori di opera di pupi a filo, di ubbriachi, di fannulloni, di prosuntuosi, folla viva, còlta con precisione più che fotografica nei discorsi e nella speciale parlata, da interessare, in varia guisa, ora per quel che dice, ora soltanto per la forma con cui lo dice […]». Sono le figure appunto che si definiscono anche attraverso la parlata dialettale.
Seguono osservazioni di natura metrica, che finiscono col costituire una poetica e una programmazione possibile. Contesta l’uso del sonetto, anche se ne riconosce che alcuni dei sonetti siano «stupendi», e, in base alla tradizione – che riassume con competenza – della poesia popolare, sostiene la maggiore rispondenza dell’ottava. Aggiunge che si adatterebbero ai momenti narrativi e dialogici «la quartina, la sestina, l’ottava liberamente fuse insieme», e che non siano da evitare anche le «rime assonanti». Questo significherebbe «rifare il processo popolare, correggendo quel che vi s’incontra di abbozzato, di soltanto accennato; che è quanto dire, svolgendolo con larghezza di intendimenti e di mezzi, invece di sforzare il dialetto a costringimenti che lo snaturano e ripetono, quantunque in modo diverso, la maniera del Meli, dello Scimonelli e del Tempio [..]». In questa «maniera», conclude, «sono dialettali soltanto i vocaboli». Ma subito attenua, dichiarando che nei componimenti di Martoglio «di queste aberrazioni letterarie non c’è traccia», anche se conferma il suo giudizio lamentando che in quartine sia solo il Cummattimentu di Orlandu e Rinardu.
La prosa si conclude con importanti rilievi sulla grafia fonetica quasi sempre adottata e col ricordo dei «molti sonetti» dove non ha usato la grafia fonetica e «dove l’onda affettuosa e gentile, assieme con l’arguzia e la satira che punge a fiore di pelle, sono affatto personali».
Se si può sintetizzare, Capuana suggeriva a Martoglio proprio quello che Martoglio non aveva inteso fare. Non voglio qui dare un’interpretazione complessiva della Centona, ma direi che Martoglio voleva l’immediatezza e l’istantaneità della forma teatrale, mentre Capuana voleva la narrazione. Una differenza di cui sapeva sul piano teorico lo stesso Capuana, scrivendo del verghiano Dal tuo al mio proprio nel 1906[22].
Quanto alla distinzione tra siciliano come lingua o come dialetto, si può capire che nei primi decenni dell’unità d’Italia si vedesse nella realtà dialettale una componente della lingua italiana, mentre il siciliano come lingua sarebbe stato un’alternativa. Un interscambio dunque e non una opposizione[23]. Un interscambio che produceva ricchezza espressiva. Potenziato, va tenuto presente, dalla ripercussione nel dialetto di risonanze dell’oralità linguistica italiana[24]. E anche inquinabile dalla antecedenza mentale nella scrittura delle persone colte della forma italiana, riconosciuta e dichiarata dagli stessi scrittori.
L’edizione 1918 della Centona non ha più lo scambio epistolare con Capuana, che è morto nel 1915. Ha una sua particolare prefazione. Una prefazione dell’autore. Di felice e inedita invenzione. Sono le quartine di un dialogo in dialetto siciliano tra l’autore e il suo libro: Dialugu tra l’auturi e lu so’ libru, a usu di prefazioni. Ma i versi sono tutti e quattro a rima baciata. A prova della bravura linguistico-letteraria dell’autore. Apre e chiude la voce dell’autore, al centro, più a lungo, è quella del libro. L’autore prende atto del fatto che l’opera non ha raggiunto il pubblico colto, perché non ha saputo creare risonanza intorno a sé: «’n’ha’ saputu fari puulazzu». L’immagine riflette l’effetto di un certo movimento di un cavallo o di una carrozza. Il libro è visto come essere vivente appartenente al genere umano, una figlia. E l’autore è madre. Si costruisce una metafora continuata, costruita con arguta allusività sul tenore della pubblicità editoriale. Il libro risponde col dire che è stato abbandonato sin dalla nascita. Se avesse voluto la notorietà, l’autore madre avrebbe dovuto, ai primi sintomi del parto, uscire in strada e gridare e chiedere aiuto. E poi mostrarsi disfatto per aver creato un tale portento e far dire da banditori che Centona era una gran bella creatura. Ci sarebbe stato un grande effetto di feste e di partecipazione cittadina e di simpatie in alto loco. Eppure ha avuto lo stesso una sua notorietà. Ha festeggiato ed è stato in compagnia con ogni tipo di siciliano, anche se all’estero o sotto le armi. Con il suo linguaggio trasmette il mondo della campagna, delle famiglie, dei paesaggi, dei sentimenti dei siciliani. Un sentire però che è sempre tormentato. Non è tanto dunque che una figlia abbandonata alla nascita giri il mondo e procuri uno stabile guadagno? L’autore conclude col chiedere perdono. Il libro gli dà più di qualunque apparentamento, gli fa ricordare i suoi venti anni e dentro di lui ritrova quelli che stabilmente rimpiange. Vi ritrova vivo tutto quello che in parte ha perduto, le persone care defunte e sino la stessa fede nella creazione artistica. E ricorda il padre, la madre, il fratello Giulio, morto sul Carso nel 1915. E ricorda tutte le care cose del mondo catanese: gli amici, molti dei quali non più in vita, le feste, i luoghi. Conclude con l’invito al libro a tornare dal primo editore, che gli dia un nuovo abito, e vada per il mondo sicura di piacere sempre finché è intrisa del profumo della sua Sicilia «’ncueta».
Un’opera dunque, è il giudizio che se ne deduce, nata nel modo più genuino come rappresentazione fedele di un mondo. Il mondo conosciuto dall’autore in giovinezza.
Ma già una sorta di presentazione era il sonetto proemiale, Li me sunetti, del primo «libretto», ’O scuru ’o scuru, quello dedicato a Capuana. Ha raccolto, dichiara, la sua materia in luoghi di delitto e malaffare e brancolando nel buio della notte. È il mondo di certi quartieri della città. Seguono la serie di sonetti Mafiusi di città e quella, assai più breve, Mafiusi di campagna. Mafiosità cittadina è la provocazione in campo sessuale, il giuoco verbale con tocchi aggressivi, la frequentazione della bettola e delle case di tolleranza, l’appassionarsi e l’immedesimarsi alle rappresentazioni dei cantastorie, la tensione e l’aggressività, anche delittuosa, nei rapporti intersoggettivi, l’omertosità. Al mondo contadino, con accentuazione scherzosa, è assegnata la furbesca sovrapposizione tra uccisioni di uomini e di animali. In sostanza si collocava sulla posizione di Capuana riguardo alla mafia, che veniva rafforzata, per Catania, dalla ricordata analisi di De Felice del 1900. Non a caso è il libretto d’apertura ed è dedicato a Capuana. Ma si insinuava al fondo una sorta di divertita comicizzazione. Che era attenuazione, se non cancellazione, della realtà delinquenziale.
La prima edizione successiva alla morte (del 15 settembre 1921) avrà la commossa e affettuosa prefazione di Pirandello, datata 18 settembre 1921. L’edizione è del 1824. Era il testo della commemorazione. E si mantiene quasi del tutto nei termini del tipico del genere. Diceva della morte «prima del tempo» di Martoglio e di «tutti i moti della sua nobilissima anima e del suo cuore generoso, moti che, seppur talvolta violenti e inconsiderati, palesavano sempre in lui l’eterno fanciullo-poeta». Mostrava di apprezzare in modo particolare «la satira politica in versi: La triplice alleanza», che «si legge con piacere, in fondo a questa Centona, che lo fa, dopo il Meli, il poeta dialettale più espressivo del popolo siciliano». «Dopo» è da intendere in senso cronologico. L’espressività certo riconosceva nella riduzione caricaturale delle figure rappresentate. Ricorda però con maggiore interesse e diffusione la sua attività teatrale, in cui fu «un vittorioso». Concludeva con profondo rimpianto: «Lui solo, povero Nino, non potrà più soffrirne o goderne. E che abbia lasciato sul meglio e innanzi tempo il suo lavoro, sul meglio e innanzi tempo i suoi adorati piccoli figliuoli, l’adorata Compagna, i fratelli, gli amici, così, per uno sciagurato incidente, aprendo per isbaglio una porta che dava in un baratro, è cosa di tale e tanta crudeltà, che veramente fa disperare e inorridire».
Era la segreta percezione di un più generale tramonto?
Nicolo Mineo
[1] In Letteratura e critica della letteratura contemporanea in Italia. Due saggi, Bari, Laterza, 1908.
[2] Imprescindibile G. Giarrizzo, Catania, Bari, Laterza, 1986, pp. 80 sgg.
[3] Della vasta letteratura sull’argomento, basterà il riferimento a AA. VV., Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, Einaudi 1987 (molto informato in questa M. Sipala, «Una cosa nuova che la chiamavano sciopero»: Ideologia e letteratura nella Sicilia del primo Novecento), e a F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, 3 voll., Sellerio, Palermo, 1999.
[4] A. Gramsci, cronaca teatrale dell’«Avanti!» del 29 marzo 1918, in Quaderni del carcere, 6, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 19522, pp. 321-2.
[5] G. Verga, Lettere a Dina, a cura di G. Raia, Roma, Ciranna, 1962, p. 4.
[6] G. Verga, Lettere a Dina, cit., p. 434; G. Garra Agosta, La biblioteca di Giovanni Verga, Catania, Greco, 1977, pp. 228-9.
[7] Sulla variazione del teatro rispetto alla narrativa, vd. G. Alfieri, Verga, Roma, Salerno editrice, 2016, pp. 184 sgg.
[8] Vd. G. Alfieri, Verga, cit, pp. 180-1.
[9] G. Verga, Lettere a Dina, cit., p.369.
[10] In S. Zappulla Muscarà, Luigi Capuana e le carte messaggere, Catania, C.U.E.C.M., 1996, p. 664. Il finale della lettera è tutto da ricordare.
[11] Vd. M. Sipala, «Una cosa nuova che la chiamavano sciopero»: Ideologia e letteratura nella Sicilia del primo Novecento, cit., p. 854.
[12] Vd. G. Astuto, La Sicilia e l’Unità d’Italia. Conflitti politici e istituzionali, In Pensiero politico e istituzioni nella transizione dal Regno borbonico all’Unità d’Italia, Acireale-Roma, Bonanno, 2011, pp. 24, 25, 30 sgg., 40 sgg., 61, 25,
[13] Vd. N. Mineo, Il vero dei veristi, Introduzione a L. Capuana, L’isola del sole, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 1994.
[14] Vd. per questi N. Tedesco, Introduzione a G. Verga, Tutto il teatro, a cura di N. T., Milano, Mondadori, 1980, pp. 13-8. Cfr. A. Manganaro, Verga, Acireale-Roma, 2011, p. 188. Ma questa monografia, con la bibliografia citata, va tenuta presente per tutto l’ultimo Verga. Come quella della Alfieri.
[15] Per quella che chiamerei funzione Crispi in Sicilia vd. G. Astuto, La Sicilia e il crispismo. Istituzioni statali e poteri locali, Milano, Giuffrè, 2003.
[16] Per questo vd. Fr.. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Palermo, Sellerio, 1985, vol. II, pp. 89 sgg.
[17] Vd. M. Sipala, «Una cosa nuova che la chiamavano sciopero»: Ideologia e letteratura nella Sicilia del primo Novecento, cit., p. 822.
[18] Catania quando c’era Verga, in S’io rinascessi, Milano, Mondadori, 1949, cit. da S. Zappulla Muscarà, Nino Martoglio, Caltanissetta-Roma, Sciascia editore, 1985, pp. 120-1 n.
[19] Se ne conserva copia presso la Biblioteca di Mineo, diretta dalla dottoressa Di Salvo.
[20] In N. Martoglio, Tutto il teatro e Tutte le poesie siciliane, a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma, Newton & Compton, 1996, pp. 23-6.
[21] Come non rimarcare la presenza di un termine di tanto futuro rilevante significato e valore!
[22] In A. Barbina, Capuana inedito, Bergamo, Minerva italica, 1974, p. 200.
[23] Una interpretazione che può trovare fondamento in F. Lo Piparo, Sicilia linguistica, in AA. VV., Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, La Sicilia, cit.
[24] Vd. F. Lo Piparo, Sicilia linguistica, cit., pp.797-801.