È proprio e sempre il normativo teorico del Verismo positivista illustrato dalle crestomazie letterarie quell’eclettico Luigi Capuana (Mineo, 1839 – Catania, 1915) che, ancora prima di pubblicare il romanzo parapsicologico Il marchese di Raccaverdina (1901), introducendo la raccolta di fiabe C’era una volta… (1882) smentisce i fondamenti veristi, fissati sul finire del 1870 e prossimi al Naturalismo francese, dichiarando certa sua predilezione per un “mondo meraviglioso di fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi”?
Dopotutto, malgrado la sua professione di realismo e al contrario di come si crederebbe, lo scrittore è sovente più vicino all’animismo popolare e all’influenza delle spaesanti metafisiche di taluni autori simbolisti (Hoffmann, Poe, Gautier e Tarchetti, Maupassant, Huysmans) che alla cultura progressista indotta dalla rivoluzione industriale nell’Europa del suo tempo. Ciò anche perché il Verismo – capocorrente lo stesso Capuana seguito da Verga, il maggior verista, e da Federico De Roberto con Matilde Serao e Salvatore Di Giacomo, Grazia Deledda, Renato Fucini e il poeta in romanesco Cesare Pascarella – resta un fenomeno riferibile in gran parte a un Meridione d’Italia proletario e sottoproletario: escluso, ancor più dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia (1861), dallo sviluppo economico e dal progresso dell’industria e della tecnologia che connotano il secondo Ottocento trovando più tardi un tragico sfogatoio nelle due Guerre Mondiali della prima metà del Novecento.
Oltre che dedito alla sua scrittura prodigiosamente fluviale, Capuana disegna, fabbrica vasi e anfore in stile greco antico, fa esperimenti di psicologia e spiritismo, è entomologo e ornitologo allevatore di piccoli uccelli insettivori, capinere cinciallegre pettirossi, ospitati in una voliera aperta da cui liberamente escono ed entrano.
Preso dalla dinamica delle proprie contraddittorie pulsioni e convinto che l’ispirazione e il lavoro artistico derivino soprattutto da uno stato medianico, ipnotico e sonnambolico, lo affascinano la cabala, l’alchimia e il mesmerismo, il magnetismo, la telepatia e la suggestione, la scrittura automatica, l’evocazione dei defunti e il paranormale con un pizzico di magia nera: tutta la paccottiglia, insomma, delle pseudoscienze. Fra queste ultime, non mancherebbero di rientrare talune macabre corbellerie del criminologo fisiognomico Cesare Lombroso, tanto intriganti per lo scientismo capuaniano vissuto come un sapere iniziatico intriso di tardoromanticismo e panpsichismo… Panpsichista, Capuana crede che tutte le cose abbiano un’anima e ‘pensino’; e, al pari d’un Leopardi peraltro critico verso l’armamentario del fantastico, potrebbe affermare: “Che la materia pensi è un fatto” (Zibaldone, 4288).
È quella dello scrittore una predilezione per mondi ‘altri’, indagati, non solo per trastullo, anche durante i soggiorni a Firenze (1864-1868). Nella città del Giglio, specie dal secondo Ottocento al primi decenni del Novecento un punto di riferimento per intellettuali e artisti, è critico teatrale del quotidiano “La Nazione”; e nell’estate del 1864, abitando in affitto presso una famiglia fiorentina, intrattiene in esperimenti di suggestione mentale la diciottenne Beppina Poggi che, presto preda d’isteria ipnoide e d’una nevrosi ossessivo-isterico-narcisistica ‘indotta’ (dallo stesso Capuana), finisce per credersi posseduta dal demonio e si dichiara tormentata dagli intenti sadico-sessuali di un Ugo Foscolo tornato dal mondo dei morti per attentarle la virtù.
Un esito delle negromantiche esperienze di Capuana è il suo Diario spiritico, scritto verso il 1870 e pubblicato dalla rivista di parapsicologia “Luce e Ombra” (n.7-8; n.9; n. 10, 1916) che, tra i collaboratori, conta gli psichiatri Lombroso ed Enrico Morselli.
Attivo poi a Milano (1877-1882) presso il “Corriere della Sera”, negli anni dal 1882 al 1884 è, a Roma, direttore del settimanale politico-letterario “Il Fanfulla della domenica”; prima d’interrompere un nomadismo peculiare di tanti scrittori siciliani otto-novecenteschi e ritornare definitivamente in Sicilia dove ottiene, nel 1902, la cattedra di estetica e stilistica all’Università di Catania.
Una convalida dello spiccato interesse di Capuana per la fantasticheria, le incursioni in ‘mondi paralleli’ e i giochi a rimpiattino, talvolta pure parodistici, col mistero – quanto lo distanzia dal ben più loico Verga – sono il saggio Spiritismo? (1884), col punto interrogativo alludente a dubbi o scetticismo, e i Ricordi d’infanzia e di giovinezza pubblicati nel 1893 presso la torinese “Gazzetta Letteraria”. In questi racconta, tra l’altro, dell’apparizione di notte, nella sua stanza di bambino, d’“una bellissima signora, vestita di raso bianco con mostre e ricami d’oro”… Beh, in ogni tempo non è che manchino le cronache di apparizioni mariane.
Sogni, simili apparizioni, d’una personalità disorientata? Ma il sogno – spiega il prometeico scrittore – non è che “un’altra realtà” (Il sogno d’un musicista, in Il Decameroncino, 1901) o, come si sostiene in psicanalisi, la via principale per accedere all’inconscio… Sono temi – quelli nebulosamente formulati da un Capuana immaginabile perfino ‘prefreudiano’– che dopo non troppo tempo vengono identificati, appunto da Freud, con le conflittualità inconsce.
Aggiunge nei Ricordi…: “[La bellissima signora] mi prese nudo su le braccia e mi portò via con sé, facendomi passare attraverso l’uscio com’era passata lei. […]. Oggi, che fin la scienza comincia ad occuparsi di visioni, di apparizioni, forse non dovrei dire sogno, tanto più che anche allora lo credevo proprio realtà”… Capuana non spiega quale sia la scienza cui fa riferimento, mentre, in un foglietto di poche righe, reperibile presso la “Biblioteca Capuana” di Mineo e intitolato Testamento spirituale, scrive d’avere ripudiato le presunzioni scientifiche e, professando di credere nel divino, aggiunge d’avere rigettato il proprio “vanitoso ateismo giovanile”.
Analogamente all’epifania espressa dal materializzato fantasma mariano apparso all’autore da bambino, un’apparizione di bellezza e beatitudine è dapprima, per il pittore affermato Mario Procci, protagonista del racconto Ofelia (pubblicato da Capuana nel 1893), la giovane Anna De Luigi: “Era così bella!” scrive l’autore come evocando, col personaggio del racconto, un ricordo personale. “Pareva una madonna. Bianca di carnagione, bionda di capelli, slanciata di persona, con certi occhi grandi così, di un azzurro limpidissimo…”.
Divenuta modella e, poco dopo, “promessa sposa” di Procci, Anna presta il suo bel viso al soggetto evocante Ofelia raffigurato in un quadro eseguito dall’artista, che, a una mostra personale, consegue “l’onore di essere comprato da Sua Maestà il Re”.
Senonché Anna/Ofelia non è quella che si direbbe la donna giusta per l’ipersensibile, trepido e innamoratissimo Mario, il cui attaccamento paranoico infastidisce la donna che, ora fata e ora capricciosa sorcière, con crudele innocenza si diverte a ostentare indifferenza, a provocarlo e farlo ingelosire non immaginando il conseguente destino che l’aspetta.
Colta, “artista anche lei”, certo Anna è diversa dalla mitica, “pensosa figura” dell’Ofelia shakespeariana. Allegra, disinvolta, spiritosa e “caustica nella conversazione”, lei è innamorata solo di se stessa. Civettuola, le piace farsi corteggiare, idoleggiare: “Non aveva cuore costei, no, non aveva cuore! […;] non poteva amare, forse… Chi lo sa?” borbotta Mario. “La natura aveva dimenticato di mettere qualcosa in quel corpo, o in quell’anima…”.
Eppure, chissà se conquistata dalla fama dell’artista e dal successo arriso al quadro che l’effigia nelle sembianze di Ofelia, lei accetta di farsi amare. Nello stesso tempo, non si esime dal suscitare la gelosia dell’uomo prestandosi all’attenzione e ai corteggiamenti d’ogni ammiratore.
Quanto più lui evita di rimbeccarla, tanto più la donna s’ingegna di provocarlo, instillandogli sottilmente il veleno d’un sospetto angoscioso: “Mi vedeva soffrire, e rideva”… Lei non l’ama – è chiaro. Ma lui, niente! S’illude, la scusa, tace: “Soffrivo e tacevo… L’amavo tanto! tanto! Che spregevole miseria l’amore!…”. Amore improprio, amore-non amore, amore-malattia e magia, questo sì accomunabile a quello stravolto di Amleto per Ofelia.
Ed ecco Mario che, recatosi davanti al delegato di pubblica sicurezza, s’autoaccusa dell’omicidio della fidanzata: uccisa, ovviamente, per motivi di gelosia. “Dovevamo sposarci fra due mesi” dice pallido nel viso, maschera lombrosiana pavesata “dai baffi e dalla barbetta acuminata al mento e rada su le gote”, spiegazzando nervosamente il cappello tra le mani, seduto davanti al poliziotto che ascolta perplesso il racconto del pittore adesso pentito del proprio delitto.
In che modo Mario uccide Anna? Lo fa, manco a dirlo, con un espediente magico; dopo che è per magia, cioè per un atto d’oscura volontà, schopenhaueriana ‘illusione della volontà’ da cui è esclusa la consapevolezza, che lui s’innamora di una che si lascia amare ma non ricambia. È un amore, quello dell’artista, che sembrando romantico è solo nevrotico, senza intimità né amicizia e senza vera conoscenza, empatia o simpatia, insoddisfatto e intimamente conflittuale: uno stato d’animo apprensivo e ossessivo è.
Se lei, con la sua sfuggente leggerezza, un po’ acconsente a farsi amare, ma un po’ ne è infastidita (“Sì, sì,” lei talvolta glielo dice: “ti voglio bene!”. Ma casualmente, “sbadatamente”), lui abbandona ogni coscienza di sé, s’incupisce, vorrebbe ignorare di non essere corrisposto, poi se ne esce in un critico soprassalto contro la propria dabbenaggine: “E che amavo in costei, che cosa? La sua bellezza, il suo fascino, oppure la mia opera d’arte, di cui ella era la riproduzione vivente, quella maledetta Ofelia sognata”.
Ma se Anna non lo ama, perché non lo lascia? “Perché?” si chiede Procci. “Che maturava nel suo interno?… Qualcosa di orrendo!”. Qualcosa che vorrebbe umiliarlo, ridicolizzarlo? Lei vuol servirsi di lui e metterlo al proprio servizio, ma tenendosi intanto libera di frequentare un altro uomo? “Mi avvidi che cedeva più frequentemente la sua mano all’uomo che odiavo”, bravo a farla “ridere, ridere”… E ora che fanno? Si parlano sussurrando, facendosi “cenni che non potevano essere innocenti, indifferenti”?… No, no, la misura è ormai colma: lei deve morire, sprofondare nell’acqua come Ofelia… “‘Infame, muori!’ […] E proiettavo […] la forza che doveva fiaccarla. […]. E nello stesso tempo, rivedevo il mio quadro: Ofelia che affonda lentamente nella riviera tranquilla; […] e vedevo pure Anna. […]. Avevo voluto che Anna annegasse… ed era annegata!”.
Ed è di Ofelia che Anna fa la morte quando lui, per liberarsi della propria ossessione, provoca l’annegamento della donna giunta sulla spiaggia davanti al mare di Porto d’Anzio in una mise vagamente pacchiana (ma quanto “incantevole in gonnellino e pantaloni di raso di lana, orlati di bianco”).
Ma no, nessuno ha ucciso quella donna: il fatto è un altro – obietta una guardia trovatasi presente, nell’occasione, sulla spiaggia. È stato un incidente – insiste –, un malore capitato alla donna entrata in acqua con un accompagnatore sotto gli occhi del Procci tenutosi alquanto distante, fermo sul bagnasciuga…
Mario non nega, ma vuole spiegare d’avere soppresso la donna operando a distanza, ricorrendo alla suggestione e al magnetismo già altre volte sperimentato sulla fidanzata. Grazie alla propria mente capace di condizionare gli atti delle persone o addirittura di soggiogarle, lui, ricorrendo al proprio potere, sarebbe in grado d’indurre chiunque, anche Anna, ad amarlo… Magnetizzare l’amata per farsi amare? “Fui onesto; non volli”… (C’è qualche nesso fra il racconto di Capuana e la biografia dello stesso scrittore che, nel 1879, soggiornando a Milano, apprende che una sua amante di Mineo, Giuseppa Sansone, forse lo tradisce. La cosa lo ossessiona fino a fargli decidere di sottoporre la Sansone a un interrogatorio rivelatore ricorrendo alla magnetizzazione. “Magnetizzerò la Beppa” scrive risoluto a un amico di Mineo, il geofisico Guzzanti).
Superfluo aggiungere che lo sbigottito delegato di polizia non crede a una parola di quanto ascoltato. “Maledetti scienziati!” prende a imprecare. “Non sanno che inventare per disperazione della polizia. Mancava proprio la suggestione!”.
Ed è per suggestione che alfine vediamo la figura di Anna dissolversi in quella dell’Ophelia (1851-’52) dipinta non più nel malaugurato quadro dell’infelice artista condannatosi all’eterno dolore, ma in quello sublimante del preraffaellita John Everett Millais.