In un luogo dopo l’altro pestilenze (Profezia 4– Luca 21:11).
…il bacillo della peste non muore né scompare mai… (A. Camus, La peste).
In principio, c’è il Dio della Bibbia che invia la peste bubbonica ai Filistei (cfr. Primo libro di Samuele)… Discende anche da tale mitica iattura e prevale in un ‘inconscio collettivo’ da sempre schiavo della superstizione la fede dogmatica o credulità ideologica, ossia quella metafisica “peste religiosa” stigmatizzata dal socialista anarchico americano Johann Most (1846-1906) che afferma: “Fra tutte le malattie mentali che l’uomo si è posto sistematicamente nel cervello, la peste religiosa è di certo la più orribile (La peste deistica e l’epidemia religiosa dell’uomo, 1880).
Così, come una sottaciuta opinione di massa, come il ‘senso comune’ o un ‘argomento di fede’ il cui concetto di verità è radicato nella superstizione, come un contagio impuro, un destino maledetto, un morbo incurabile della nostra epoca di germi farmacoresistenti ovvero post-antibiotica, è da sempre tempo di peste, pandemia intrinseca all’umanità, colpa irredimibile, tenebroso fermento di virus e spore, protozoi, bacilli e muffe.
È una peste “simpatetica con la falsa coscienza” o pensiero infetto e linguaggio contagiato/alienato – scrive Sergio Givone, filosofo che non confonde la peste gnostica con la “nausea” sartriana, maestro di istanze metafisiche e, in nome d’un ‘sapere aggiunto’, affabulatore ora delle “cose ultime” ora delle creature gettate nella “nuda vita” da un “dio barbaro” chiamato Amore.
Circonfusa di paura e di morte, la peste dimora in un ‘umano-troppo-umano’ inequivocabilmente appestato. Essa rovescia l’essere nel nulla, crede solo al nulla ed è foriera di “umori che pervertono la capacità di discernere il vero e il falso, il bene e il male […]. Con la peste le leggi si fanno evanescenti, diritti e doveri vengono ignorati […]. Al tempo della peste tutto è permesso. La libertà manifesta il suo lato notturno e pauroso, la sua natura ambigua, la sua vicinanza al nulla. Al punto che la libertà”, rivelando il suo statuto tragico, “distrugge se stessa” (Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, 2012, pp. 206, € 22,00).
Ora s’assegni alla parola Peste la lettera iniziale maiuscola o, appunto, ‘metafisica’: a segnalare il metodo filosofico-letterario seguito nell’occasione da Givone in un’opera d’avvolgente densità che integra e reitera interpretazione e interrogazione; e, allegoria di allegorie, procede per esegesi e deduzioni analogico-comparatistiche modulandosi lungo molteplici percorsi e sommovimenti con una dialettica rigorosa di tesi e antitesi non rinserrabile entro definitive sintesi.
“La peste è fra noi perché è già da sempre in noi. Noi siamo la peste e l’antidoto della peste”. Ma non s’accorge della peste chi smarrisce la verità della realtà e vive negli equivoci della falsa coscienza da Boccaccio esorcizzata travestendo i suoi ‘dieci novellieri’ da filosofi causidici. Falsa coscienza che, nel De rerum natura (I sec. a. C.), l’epicureoLucrezio, ‘pensatore poetante’ e negatore d’ogni rapporto della divinità con la natura, identifica anche nella religione sorella delle ubbie idolatriche.
Non si rende conto della peste il protagonista del racconto La penultima cena (in Le ombre bianche, 1990) di Ennio Flaiano che, lui pure ispirato dal Decamerone boccaccesco (di cui la tersa mimesi di Givone segnala in particolare la prima e l’ultima novella, “poli opposti del cielo e dell’inferno”), inscena un party in una villa dalle imposte chiuse, difesa da cani minacciosi e sita in un quartiere elegante. In essa, un gruppo di dame truccate e gentiluomini incoronati s’ingegna con giochi eccentrici e ambigue cerimonie d’ignorare l’epidemia che infuria non distante.
“Se al tempo della peste tutto è permesso, solo la peste incombente può autorizzare la festa. Finché la peste resta all’orizzonte, però. Fuori della porta” denota Givone… E, a chiusura del racconto di Flaiano, il dialogo con una guardia notturna del protagonista, per la sua stolida inconsapevolezza esposto alla peste: “Che cosa brucia laggiù?”. “Tutto. Mobili, vestiti, cadaveri. Sono i fuochi del servizio d’igiene”.
Non è, invece, il soffio metafisico-trascendente della pestilenza quanto circola nel racconto pirandelliano, tutto naturalistico, La mosca (1904), che descrive l’infezione di carbonchio inoculata dall’insetto posatosi su delle scalfiture di Giurlannu e di suo cugino Neli. Allora è superflua o può sembrare forzata la notazione di Piero Gelli che, nell’articolo Sergio Givone interroga la peste (“Alias. Supplemento settimanale del ‘Manifesto’”, 15 luglio 2012), farebbe passare come una trascuratezza l’assenza di Pirandello dal discorso givoniano: che, semmai, lega il tema della “nuda vita” non a Pirandello ma a Benjamin, Foucault e a Giorgio Agamben autore di Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995). Tema nel quale – enuncia Givone, illuminista con Kant e, con Platone, curioso del mythos propiziato e dedotto dal logos – “la peste è ben più che una malattia mortale, sia pure la più devastante. La peste è il Male” che coglie inermi le creature.
Quanto le perenni figure del male, la peste “è da sempre e per sempre […,] non è mai arrivata, non è mai andata via, ma è sempre stata lì” coi suoi agenti del contagio: forse – assecondando Defoe, pastore presbiteriano mancato – “entità spirituali. O addirittura emanazioni divine”.
La peste – ipotizza il filosofo adombrando un estremo paradosso – come maledizione oppure “forma di benedizione nascosta e crudele”? Allora “si dovrà dire niente meno che Dio è nella peste, nella peste è Dio, e che bisogna andare incontro alla peste come a Dio”?
La peste, insomma – secondo il carnascialesco Francesco Berni che coniuga comico e tragico -, è “un mal che manda Dio;/ e chi crede altramente egli è un balordo”.
Mentre in Italia, importata dalla Germania primeggiante nell’Europa dell’economia e del commercio, infuria – si fa per dire – la blanda peste restauratrice d’un “New Realism” filosofico dedito più alle ‘cose’ che ai ‘fatti’,“parla di quasi niente” (un modo per resistere al ‘tutto niente’ dell’effimera attualità) la commista Metafisica della peste di Givone. Completando un’ideale dilogia iniziata con la sua Storia del nulla (Bari, Laterza, 1995), l’autore induce a riflettere sulla differenza o deriva tra il nihil (istanza metafisica che non è il nichilismo, cui bisogna guardare come a “un fenomeno storico”) e il ‘niente’ (nec entem, ‘neanche un essere’)che, non diversamente da una peste gnostica dislocata ‘al di là della fisica’ (metà tà physiká) e ogni volta apparsa da un carsico nulla, resta ‘indefinibile’; e, dopo aver preso il nome delle classi di ‘Male’ ‘destino’ ‘colpa’ o ‘castigo’, infine rimanda soltanto a se stessa.
Allora – insiste il filosofo, attento al senso e al ‘sentimento’ delle cose, al leitmotiv della natura senza gli dèi e alla peste il cui nonsenso è poi il senso dell’essere -, se “la peste è peste e nient’altro”, occorre soffermarsi a “guardare in faccia questo niente” intorno al quale gravitano l’illusione e la verità, il non-senso e lo stesso senso-del-non-senso.
Pur essendo un fatto della natura, la peste, date le sue implicazioni simboliche, metamorfosa in argomento di cultura, buono per filosofi tragici e per scribi critici dell’ordine apparente o impegnati, anche implicando se stessi, a dissolvere le certezze tramandate.
All’incestuoso Edipo che s’accusa, persuaso di esistere come ‘colpa’, cioè come peste (“La peste sono io!”), fanno da contraltare Leopardi, sodale di Lucrezio avverso alla natura matrigna, regno della tragedia che non ha nessun riguardo per il genere dei viventi (mirabile, nel testo, la lettura givoniana della Ginestra); il Manzoni della Colonna infame (1840) che riabilita gli untori ingiustamente torturati e uccisi, e comunque si rimette alla volontà divina mai dimentica del peccato originale;Dostoevskij col suo “uomo ridicolo” (cfr. Il sogno di un uomo ridicolo, 1877), tragico “uomo del sottosuolo” votatosi a “diventare un insetto” e persuaso d’essere un “atomo di peste”; Camus che nel romanzo La peste (1947) stigmatizza il “tozzo microbo della peste” e sembra specchiare lo sguardo lungo di Jaspers, filosofo cristiano che, colpevole d’essere incolpevole, paventa la “peste nazista” e se ne assume il destino di colpa (al contrario di un Heidegger favoreggiatore del nazismo, che nomina le glorie d’un torbido destino e censura opportunisticamente la colpa).
Secondo Camus, il pensiero della peste metafisica può stabilizzare una condizione reale che, come dice il deuteragonista del romanzo Tarrou al protagonista Rieux, fa soffrire della peste prima ancora di conoscerla.
“Fratelli, siete infelici, ma l’avete meritato” si predica nell’immortale romanzo camusiano…
Ed ecco che, assai più dei filosofi, a invadere la metafisica sono le letterature del mondo e gli scrittori, apprendisti pestigrafi che con Givone potrebbero dire “la peste è fra noi perché è già da sempre in noi”. Vi sono il Puškin di Festino in tempo di peste (1830); il Poe di Re Peste (1840) e La maschera della Morte Rossa (1842); Mary Shelley (L’ultimo uomo, 1826) e Kafka (Il cacciatore Gracco, 1917); García Márquez che paragona i sintomi dell’amore a quelli del colera (cfr. L’amore ai tempi del colera, 1985) e Cormac McCarthy che trae da La peste scarlatta (1912) di Jack London lo spunto del proprio romanzo La strada (2006); Artaud, per il quale la peste è un’escrezione psichica e che nelle prime pagine di Il teatro e il suo doppio (1938) teorizza e allestisce una spettacolarizzazione dell’epidemia che, nella dimensione del Theatrum veritatis, rivela ognuno a se stesso. “Il teatro nasce con la peste. A sua volta la peste ha un’autentica vocazione teatrale. […] La peste è messinscena” rileva Givone. Peste che rimane incistata in una polis decaduta e dice il non-senso della vita laddove “colpa e destino coincidono”… Dunque? “In principio dunque fu la peste”.