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Passione per la Classicità

Opere di Pino Caminiti (1948-2018)

   “Il poeta è un irregolare. […] Il poeta è la summa delle diverse ‘esperienze’ dell’uomo del suo tempo, ha un linguaggio che non è più quello delle avanguardie, ma concreto nel senso dei classici” (dal Discorso dell’11 dicembre 1959 di Salvatore Quasimodo, insignito del Premio Nobel “per la sua poesia lirica che con fuoco classico esprime l’esperienza tragica nella vita dei nostri tempi”).

“Iam iam non domus accipiet te laeta neque uxor / optima, nec dulces occurrent oscula nati / praeripere et tacita pectus dulcedine tangent. / Non poteris factis florentibus esse tuisque / praesidium. Misero misere” aiunt “omnia ademit / una dies infesta tibi tot praemia vitae”. / Illud in his rebus non addunt “nec tibi earum / iam desiderium rerum super insidet una”

Queste parole del Libro III del De rerum natura, poema filosofico-enciclopedico del I secolo a.C. dell’epicureo Lucrezio (Titus Lucretius Caro), Pino Caminiti le traduce/traspone in tensione analogica, interpretandole con empatia e filosofico accordo a significare che vana è la paura della morte, questo sonno senza pensieri né sogni: “Ecco, ormai / nulla più tu godrai / della casa ricolma di gioia / e dell’ottima, amata tua donna. / I tuoi bimbi, oramai / non potranno più correrti incontro / a baciarti e ricevere baci / e a toccarti, nel cuore / di segreta, infinita dolcezza. / Non avrai / più l’ebbrezza d’un fato / benigno, non sarai / più la forza dei tuoi. / Un sol giorno, funesto / ti ha reciso le gioie della vita. / Questo dicono, stolti / e non sanno / che ormai / più di nulla ti sfiora il rimpianto” (Leptalée [1997, 2003], 2014)… È palese l’effetto dei versi lucreziani su quelli, autoreferenziali, composti dall’imperatore Adriano (Publius Aelius Traianus Hadrianus) negli ultimi giorni di vita (anno 138 d. C.): “Animula vagula, blandula, / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in loca / pallidula, rigida, nudula, / nec, ut soles, dabis iocos” (Aa. Vv., Historia Augusta. Adriano, IV sec.). [“Piccola anima smarrita e dolce, / compagna e ospite del corpo, / ora t’appresti a scendere in luoghi / scialbi, impervi e vuoti, / ove non avrai più le gioie consuete”].

Indicativa degli orientamenti letterari di Caminiti – della sua passione per il latino pari all’amore per la lingua italiana – è, nell’edizione 2014 di Leptalée (con “cinque  poesie e quattordici interpretazioni di celebri brani classici”), la chiosa dove, contro i modelli di una società dello spettacolo senza memoria storica, citando Thomas Stearns Eliot si chiarisce che “tutta la letteratura europea, da Omero in avanti, […] ha un’esistenza simultanea e si struttura su un ordine simultaneo” nel quale la stessa poesia degli antichi ha a che fare con la nostra contemporaneità. “Tutte le età sono contemporanee” teorizza Ezra Pound citato da Caminiti. “I classici antichi e moderni” aggiunge il poeta dei Cantos (1925) “sono esattamente gli acidi coi quali corrodere i lacci e le cinghie con cui ci hanno legato i nostri maestri di scuola” (Homage to Sextus Propertius, 1934).

Al di là d’una vulgata che limiterebbe il carattere lirico della poesia lucreziana entro didascalico-naturalistiche rappresentazioni, il traduttore interpreta Lucrezio, poeta del conflitto tra passione e ragione, accordandogli un’inusitata leggerezza nonché la sottigliezza e l’epigrafica concisione suggerite dal canone della moûsa leptaléa: la musa tenuis di Callimaco, filologo e letterato greco (III sec. a. C.) avverso alle verbosità del poema epico.

Nel suo approccio in funzione poetica al trasgressivo Lucrezio dedito ai filtri d’amore (pocula amatoria) elargitigli dalla strega Canidia, Caminiti interagisce con l’Italo Calvino che nelle testamentarie Lezioni americane (1988), comparatistico ebdomadario delle “connessioni invisibili” tra tutte le cose, considera il De rerum natura “la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. […] La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci”.

È una logica, stilizzata leggerezza integrante significato e ritmo espressivo ciò che Caminiti, cultore dei classici ancora giganteggianti sulla nostra convulsa modernità, vuol mettere in poesia saggiando ancora le implicazioni morfologico-eufoniche del De rerum natura (Libro II): “Ed è incanto, più dolce / abitare / e volare / nel cielo sereno / dei saggi. / E guardare, sereno / da quel cielo l’erranza / degli altri, dispersi / e affannati / a cercare la via della vita”.

Felicemente laborioso è il processo traslativo del simpatetico lettore/traduttore che trasfonde gli esametri lucreziani in un’armonica scansione ipotattica: “Ma se l’uomo sapesse / donde arrivi / e il perché, di quel peso che incombe / sul cuore, se il perché conoscesse / di quel masso, di pena / che immenso s’abbatte / sul cuore, altra vita farebbe. / E invece non sa / cosa vuole, e che fare: / cambia solo i suoi luoghi / quasi possa adagiarvi il suo peso” (De rer. nat., III). Se nessuna traduzione può sostituire il testo originale, Caminiti non esclude che un arrangiamento inedito, dinamico e perfettibile, un tradurre/ricreare trasvalutando passive o cristallizzate letture, senza stabilire distanze possa confrontarsi o compararsi col testo di base e, somigliandogli, farlo perdurare rigenerato e pienamente comunicativo. È in nome della comunicazione che, malgrado l’infausta Torre di Babele, tutte le lingue del mondo divengono reciprocamente immedesimabili.

 

Se ardua impresa sembrerebbe trasferire dei versi da una lingua all’altra; se, andando ad fontes, tradurre passivamente parola per parola potrebbe risultare un meccanico ricalco che di solito non perviene a convincenti rese artistiche, ai fini di una migliore fruizione della traductio potrebbe essere più proficuo… ‘stra/durre’ (che non è lo stra/fare); ovvero, andando oltre la letterale, intirizzita traduzione, interpretare: non rinunciando alla cura delle corrispondenze o reciprocità e dei punti di contatto testuali. Quanto fa Caminiti interpretando i versi originali latini nella sua poesia vissuta come un’emozione personale ‘ricreata’.

Bilanciando la complessione semiologica del latino di partenza con la lingua italiana d’arrivo, il poeta perviene alla sostanza classica di una parola esatta, specifica e immediata che se non appare prona al servizio dei testi antichi non rinuncia a valorizzarne l’intimità proiettando su essi, in luminosa figura di stile, il proprio gusto. Un gusto che, ai fini d’una godibilità estetica, predilige limpide sintesi e chirurgica brevitas: schivando il culto della ciceroniana concinnitas/prolixitas, occasione di meri esercizi mnemonico-grammaticali con coniugazioni perifrastiche attive e passive intraducibili alla lettera.

Della traduzione dei suoi classici l’interprete favorisce, insomma, non tanto una pedestre copia quanto la leggibile comprensione disponendoli in un’inedita testualità da cui resta comunque esclusa ogni licenza di senso. Avviene così l’incontro in poesia di due lingue il cui privilegiato denominatore comune non è il significante ma il significato.

Mentre Caminiti, sensibile all’influenza dell’Ermetismo primonovecentesco, prendendo atto di come risulti una vana forzatura ricercare per i testi da tradurre dei termini reciprocamente conformi, si cura di traferire nella propria versificazione la poesia antica: una poesia riscritta riscoprendo, movimentando, reinventando con tutta naturalezza le polimorfiche possibilità della lingua italiana mai rescissa dai propri gangli latini. Un’attitudine, questa, esemplarmente valorizzata da Quasimodo, poeta ermetico d’ispirazione classica, traduttore di poeti greci e latini (cfr. Canti di Catullo, 1955) modernamente rinnovati nella convinzione che, alfine, non a filologi e pedanti debba competere il tradurre la poesia, ma ai poeti.

Soltanto i poeti sanno tradurre gli altri poeti – sostiene Quasimodo confortato da Luciano Anceschi che, introducendo i quasimodiani Lirici greci (1940), ne denota la “libera fedeltà” alle versioni classiche. Con Quasimodo, accade che la traduzione degli antichi istituisca un genere letterario inedito e autonomo cui Caminiti si sente di aderire da latinista en poète che compendia le sue ammodernate riscritture in sei brani compresi nel libretto Classici (2001) accogliente, in un personale opificio linguistico, voci atemporali eppure astanti.

Per il resto, chi mai potrebbe francamente supporre che il latino sia una ‘lingua morta’, inservibile o addirittura da abrogare se i suoi stessi fondamenti grammaticali e sintattici restano la base da cui nascono l’italiano e i dialetti, derivati dal latino insieme alle lingue del medesimo ceppo (francese e provenzale, spagnolo e portoghese, rumeno e ladino)?

Non si può ignorare il retaggio della romanità classica e non può ritenersi estinto, col sermo litterarius, il sermo vulgaris con le sue varietà parlate e ancora oggi diffuse, in modi tutt’altro che carsici, non soltanto in Europa dove assumono un’energetica funzione espressivo-comunicativa non asservita al pervasivo inglese della globalizzazione coatta. Peraltro – avverte Antonio Gramsci nel Quaderno 4 [XIII], voce 55, dei postumi Quaderni del carcere (1948-’51) –, praticare il latino serve anche per apprendere un efficace metodo di studio… E Calvino, intrigato dalla classicità quantunque alieno da imbalsamati filoclassicismi che rifiuterebbero di riconoscere il moderno e il contemporaneo: “Non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore” (Perché leggere i classici, 1991).

 

Intriga Caminiti, applicato alle ricorrenze della classicità, l’“Eterno ritorno” (Theorie der ewigen Wiederkehr), complessa meditazione di Friedrich W. Nietzsche relativa al tempo infinito e circolare svolta nella Gaia scienza (1882) e nello Zarathustra (1883) che, nella “volontà di potenza”, non declinano la brama di dominio bensì l’attività creativa o poiesis, per Erodoto la ‘creazione poetica’.

Stando a l’immedesimato poeta/traduttore/interprete, il ritorno dei/ai classici concepito come nóstos non è ‘ripetizione’, ma vuol essere rinnovata insorgenza di opere non rinserrabili in prestabilite conformità e delle quali sia valorizzata la felicitas stilistica.

‘Ritorneranno’, allora, gli Scriptores? Pleonastica domanda, ché essi non se ne sono mai andati: Hic manebimus optime – possono ripetere col centurione romano citato da Tito Livio in Ab Urbe condita (27 – 14 a. C.). Né appaiono anacronistiche le numerose parole latine usate correntemente, per svariate circostanze, in tutto il mondo. Quali, citabili qui a caso con effetti d’identificazione tra lontananza e presenza: monitor, virus, vulnus, sponsor, relata refero, quorum, bis, rebus, audio, referendum, curriculum, vademecum, memorandum, ultimatum, lapsus, raptus, sine die, duplex, reprimenda, sui generis, factotum, una tantum, libido, facsimile, ergo, idem, ratio, carpe diem, medium, ante litteram, a priori, excursus, repulisti, in fieri, tabula rasa, imprimatur, horror, forma mentis, in loco, gratis, propaganda, ad personam, ad maiora, ad libitum, memento, obtorto collo, in nuce, busillis, brevi manu, de cuius, de gustibus, de visu, ex aequo, modus vivendi, more uxorio, pro tempore, post scriptum, ipse dixit, idem, verba volant/scripta manent, absit iniuria verbo, qui pro quo, sic transit gloria mundi… ecc. ecc.

Contemporaneo di Lucrezio e, più tardi, referente del Nietzsche dionisiaco, è, abilmente interpretato da Caminiti, Catullo (Gaius Valerius Catullus): l’ammaliante, elegantissimus poetarum (cfr. Aulo Gellio) di versiculi mondani, giambi triviali e poesie obscenae giocate sull’allusione, degli impegnati carmina docta ispirati a moduli greci, della passione d’amore sofferta e delusa.

Conscio della complessità espressiva di Catullo, il suo interprete non ne riproduce letteralmente i versi, ma, rispettandone le simmetrie strutturali, concede il necessario margine a una registrazione non condizionata da strettoie filologiche o gravosi eruditismi.

A Catullo, che brucia la propria esistenza nell’arco di trent’anni, Caminiti fa seguire Orazio (Quintus Horatius Flaccus), poeta dell’inquieta indipendenza dal potere, della disciplina interiore, del carpe diem o ‘attimo fuggente’. Raffinato maestro di stile, democriteo-epicureo e stoico – che, insieme a Eraclito, è venerato da un filosofo della libertà qual è il cinquecentesco Montaigne –, Orazio, con Ovidio e Virgilio, costituisce un’eccellenza letteraria del periodo augusteo (31 a. C. – 14 d. C.). Autore bonariamente arguto, lirico (Odi o Carmina, 24 a. C.), a volte discorsivo (pedestris) e altre soavemente melancholicus, egli è un pensoso teorico dell’ataraxia (distacco dalle passioni), dell’autárkeia o autonomia di giudizio, d’una morale della moderazione (aurea mediocritas), dell’equilibrio (aequam mentem), della ‘giusta misura’ (metriótes), dell’imperturbabilità (nihil admirari), della libertà pagata con la separatezza e la solitudo. Sono temi cari a Caminiti che, nello scritto in prosa unito al citato Leptalée, spaziando tra poeti antichi e nuovi rivendica di volersi occupare dei veri poeti e “non di semplici autori di versi” o degli imitatores stigmatizzati da Orazio… “Prima di tutto” scrive perlappunto Orazio che negli Epodi (30 a. C.) esecra la strega Canidia corruttrice di Lucrezio “io mi toglierò dal numero di coloro cui concederei il titolo di poeti […]. Chi abbia il genio, una mente ispirata e una voce capace di elevarsi a grandi altezze, a lui puoi dare il privilegio di tale titolo” (Satire o Sermones, 35 a. C.). La poesia – riflette Caminiti nella sua dichiarazione di poetica – assume valore nel felice “incontro di logos e melos” e nella bellezza dei versi che, nondimeno dotati d’“intrinseca valenza civile”, puntino a indurre il piacere sempre dirimente della lettura.

 

“Malattia rovinosa, e torpore / questo amore / ha percorso le membra, penetrando / e inchiodandosi dentro / e strappando, dal petto / ogni gioia” traspone il poeta, infine co-autore, da laceranti versi catulliani; oppure interpretando a suo talento, senza fiscalità filologiche o, al contrario, banali semplificazioni, bensì instaurando un rapporto di reciprocità con le proprie parole, fa tralucere alcuni lieti versi dei Carmina di Orazio evidenziandone la qualità letteraria: “Lì vicino, nell’antro gradito / c’è un ragazzo / che in mezzo alle rose / t’incalza, scintillante / di unguenti odorosi. / È per lui / dimmi, o Pirra / che ti annodi i capelli dorati / e risplendi, più dolce / e più bella che mai?”. Ovvero compita fervidamente segmenti delle Epistole, esortativi: “E per te, se mai un dio / vorrà darti un istante felice / senza indugi tu afferralo, grato: / potrai dire / che ovunque, comunque / la vita ha sorriso”; o riflessivi: “Non perché la salute mi manchi / o vi sia qualche danno ai miei beni / (agli ulivi alla vigna al bestiame) / ma perché sento un male / di vivere, acuto / che sovrasta ogni male del corpo”. O, traslati ancora dalle Odi, gli epicurei, percussivi moniti oraziani: “Del domani / non chiedere, e il giorno / ogni giorno che agli altri s’aggiunge / tu ritienilo / in più, come fosse un regalo. / […] / Ora è il tempo / dei dolci sussurri / e sommessi, al calar della notte. / Ora un riso, gioioso / di fanciulla appartata in un canto / la tradisce: ella finge, gioiosa / di resistere a te, che le strappi / (dal braccio, o dal dito) / il suo pegno / d’amore infinito”. Con le parole tradotte/riscritte rispettandone il pregio sonoro e nelle quali Caminiti, ricorrendo all’ordine secco del verso breve, fa echeggiare una nuova, palpitante musicalità.

Così nelle strofe autoriali di Leptalée, termine-chiave di una costante poetica che ripone il proprio principio di leggerezza nella brevità/essenzialità (leptón) e nell’oraziano labor limae (rifinitura), i versi, rivolti a un tu affettivo, richiamano nella loro foggia scalena una cosmica vastità di “spazi stupiti”, di “flussi ineguali / del tempo”, d’una voce meditante che fa dettare al poeta: “Poca cosa / … / è sfiorare la vita: / voglio averla, e felice / seguitare / a bruciarmi / nei tramonti che svelano Iddio / o tuffarmi / in un’alba infinita”. E, accorato, disponendo tra i piani delle parole suoni, immagini che si concentrano in lampeggi visionari, invoca: “Parla ancora, rispondo: / la tua voce, di figlia / è lo scroscio di un’acqua / che vive / fra i silenzi di stelle vicine”… Nel caso agisce, accostabile all’alchimia d’un tradurre ingegnoso e personale, la temperante versificazione del poeta che se ‘modernizza’ i suoi maestri di poesia ne storna il climax dal nostro tempo “neobarocco”, dominato dall’entropia di moduli standardizzati, omogeneizzati e invasi da stranierismi e tecnicismi informatici. Per l’autore, precipuo esempio della disposizione a creare un codice personale resta Dante che, muovendo dall’inalienato referente latino, con le scolpite terzine a rima alternata della sua Commedia (del 1321 la prima edizione originale) edifica una lingua nuova e varia, l’italiano colto e letterario, parlato e quotidiano: a fondare un apparato linguistico-lessicale stabile, polimorfico e ricco di similitudini.

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   L’ultima pubblicazione di Caminiti, diseguale ancorché rivelatrice di un’attenzione per le congiunture della contemporaneità, è Partoriranno le montagne (e nascerà un topolino). Riflessioni e letture (2015): antologica scelta di prose su svariati argomenti nonché cahier de doléances di laconica ironia seguita da esplicite, puntute polemiche letterarie o battaglie ideali garantite – scrive l’autore – dalla scorta dei “‘saperi forti’, individuati nel latino e nel greco”, poli di un classicismo che salva dal provincialismo.

   In questo libro che compendia i dissensi e gli orientamenti umani, sociali, letterari dell’autore, viene tra l’altro ricordato Fortunato Seminara, sembrerebbe l’unico tra i romanzieri calabresi a rappresentare con impietoso realismo “il villaggio come essenzialmente è, vale a dire come ricettacolo di ‘rancori, gelosie e malevolenze’” magari non troppo differente dai concentrazionari condomìni metropolitani… Tale richiamo allo scrittore di Maropati, contrada d’origine greca in provincia di Reggio Calabria, è anticipato dagli assunti di Seminara rivisitato (1983), primo e approfondito progetto critico dell’autore: una monografia necessaria per la conoscenza di un romanziere peculiare della stagione del Neorealismo e la cui narrativa, caratterizzata da una scrittura scabra, austera e senza superflui registri lirici, appare alonata da reminescenze di tragedia antica.

Quella di Seminara – scrive infatti Caminiti – è un’opera “dalla sostanza tragica” e che “non soltanto appare isolata rispetto a quella contemporanea, ma rappresenta addirittura un unicum nella nostra letteratura”. Dopo ciò, viene sviluppata un’acuta analisi dei personaggi delle narrazioni seminariane concentrate in un tempo storico che va dal tardo Primonovecento in poi: personaggi esclusi dalla società, sospesi tra fato e follia, immersi in paesaggi aspri e campi arsi, isolamento e infima povertà; esistenze precarie di un universo crudele interpretate da braccianti, bifolchi, briganti, pastori, barrocciai, signorotti feudali e contadini in lotta contro il feudo, piccoli borghesi e donne oppresse da un patriarcato ottuso, giovani disperati in fuga, diseredati e derelitti senza speranza, suicidi: soggetti tra i quali, a differenza dei ‘vinti’ di Verga incapaci di ribellarsi al destino, c’è invece chi anela a una coscienza di classe da cui restano esclusi i miti consolatori ricorrenti presso altri scrittori meridionali… Per Seminara e il suo esegeta, il Sud, plaga di contraddizioni, non è mai l’Eden liliale immaginato dai laudatores temporis acti.

Tra le tesi di Caminiti a sostegno del suo studio per più aspetti innovatore, in contrasto con le opinioni di altri critici s’avanza l’intuizione che non il verista Verga bensì il Tolstoj della grande narrativa russa e fenomenologo delle ingiustizie patite dal mondo contadino sia il più attendibile precursore di Seminara, narratore presente a buon diritto nella storia della letteratura italiana novecentesca con una produzione da riscoprire a cominciare dal romanzo d’esordio Le baracche (1942). Seguono Il vento nell’oliveto (1951), La masseria (1952), Disgrazia in casa Amato (1954), La fidanzata impiccata (1956), Il mio paese del Sud (1957) […]; fino ai postumi La dittatura (2000) e Terra amara (2005). In aggiunta, è suggerito che le vicende inscenate da Seminara, “immerse in una atmosfera di ineluttabile, quasi faulkneriana violenza”, per le loro asprezze appaiono comparabili coi romanzi d’ambiente rurale di William Faulkner, strenuo cantore d’un profondo Sud americano umiliato dal nordismo dell’industria e del profitto allo stesso modo del Meridione d’Italia dopo la proclamazione dell’Unità (1861).

In Partoriranno le montagne, tra diversi argomenti che spaziano dall’antichità al Novecento, risaltano, indicative d’una mai troppo attingibile filosofia della serenità asceticamente perseguita dallo stesso Caminiti, le pagine incentrate su Seneca, il filosofo costretto al suicidio stoico dal quinto imperatore romano Nerone, matricida e luttuoso Nero Caesar consegnato alla damnatio memoriae dai suoi terrorizzati contemporanei.

In Seneca, l’autore riconosce uno dei principali pensatori laici del mondo classico e, quasi ad assumerne il lascito buono per i posteri di sano intelletto, ne accoglie la scelta di separazione dalla moltitudo, intesa l’acefala massa, e il distacco da “ogni faziosità, […] ogni ideologia precostituita, […] ogni dogmatismo”… La discriminante “aristocraticità” senechiana? Nella sua sostanza – scrive l’autore –, essa non è altro che “sensibilità genuina, profondità di coscienza, attitudine alla compassione nel senso più alto del termine, orrore per la volgarità, soprattutto per la demagogia”.

Fedele al motto epicureo láthe biósas, quietamente appartato nel suo osservatorio-buen retiro di Fuscaldo (Fons calidus), piccolo centro calabro dai retaggi bizantini, Caminiti si richiama allo stoicismo di Seneca con un garbato atteggiamento di resistenza intellettuale nei confronti del sistema di cose. Anche un modo, questo, per acconsentire all’opus senechiano forse più armonioso, il dialogo De tranquillitate animi (50 d. C. ca) elogiante l’apatheia identificabile non con l’accidiosa e asociale apatia, ma con l’olimpica imperturbabilità che impone di restare impassibili di fronte agli eventi e alla sorte… Secondo il vero stoico, distaccarsi dalle contingenze, siano pure le soperchierie, è scampare al loro arbitrio.

Resta da notare che il titolo Partoriranno le montagne riprende il verso 139 dell’Ars poetica (13 a. C.) di Orazio (Parturient montes, nascetur ridiculus mus) che, tra l’altro, spiega di non approvare le traduzioni letterali, fatalmente destinate a far nascere “dal parto di una montagna un topolino”. Allo stesso modo Caminiti, refrattario al genere del fidus interpres, ribadisce la sua idea-guida della traduzione: la quale, specie “se effettuata da un poeta, non può che essere ‘artistica’, cioè non può che essere interpretazione, e dunque creatura rinnovata, rispetto all’originale”. Per lui, tradurre i testi di Lucrezio, Catullo, Orazio non è un rigido riprodurre, ma, generando una lingua da un’altra secondo sensibilità poetica e criterio estetico, un ‘far somigliare intendendo’: perché – insiste (repetita iuvant) – lo scrupolo richiesto a chi traduce ha da essere principalmente interpretativo. La sua Musa classicista, quieta ispiratrice dell’arte del ‘togliere’ o della sintesi (multa paucis), della chiarezza e dell’equilibrio, appare sorella della “divinità personale, la Semplicità”, che Charles Bukowski afferma di adottare per il proprio “tirocinio di base”. Scrivendo nel modo “più conciso e più breve possibile” spiega Bukovski con maieutica socratica “avevi meno possibilità d’incappare nell’errore e nella menzogna. La genialità stava anche nel saper esprimere concetti profondi in modo semplice” (in “Portfolio”, gennaio 1991, e in Portions from a wine-stained notebook, 2008). Lo stesso scrittore, in Burning in Water Drowning in Flame. Selected Poems 1955-1973 (1978), ispira una propria poesia ai versi del carme 42 di Catullo: Adeste, hendecasyllabi, quot estis omnes… (“Accorrete, endecasillabi, quanti voi siete…”).

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Partoriranno le montagne, che si svolge all’insegna della simplicitas-brevitas in capitoli legati insieme da spunti aforistici, è una fusione tra icasticità sintattica, riflessioni filosofico-spirituali e critica militante: dove la militanza, giammai ideologica, resta fedele alla letteratura… Quanto alla poesia, questa si professa in un movimento esperienziale cadenzato in ‘passaggi’ che, nella successione tra l’ieri e l’oggi – tra il classico e una modernità che dal classico attinge le prerogative qualitative e il rigore –, implicano un’esigenza rinnovatrice. In tal modo il volumetto Passaggi (1987), che segna l’esordio di Caminiti poeta in proprio, designa rinnovati transiti verso un italiano variante tra parole sceltamente sommesse e pause alludenti con pudore all’impossibilità di poter dire ‘tutto’: tutto il nascosto metafisico e l’ineffabile indicibile; tutto quell’empito mistico vagheggiato dal filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein nella proposizione conclusiva del suo Tractatus logico-philosophicus (1921) dal titolo omaggiante il Tractatus theologico-politicus (1670) redatto in latino dal filosofo preilluminista Baruch Spinoza… “Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” ammonisce Wittgenstein. Allora, per discrezione o understatement, si taccia su un divino forse buono indulgente caritatevole, o forse no – ma chi può capire Dio –, che rischierebbe di essere nominato invano.

 

Tra i versi sciolti di Caminiti, monodicamente intonati e compatti, senza profluvi verbali né stretti vincoli metrici bensì tersi e concisi per sottrazione o condensazione, “occhieggiano” scrive nell’attenta nota introduttiva lo studioso Raffaele Sirri “un Vero, una Luce, un Infinito, una Croce, senza parlare di Dio, tutti distinti dalla iniziale maiuscola, a significarne il valore generale e simbolico”.

È una condizione velatamente drammatica, quella del poeta che, con le benevoli deitas del giorno, scruta nei baratri del divino, annidato nel suo esilio d’incubi e fantasime, il dolente Saturnus romanus affine all’orfico Kronos greco.

Curando l’ufficio referenziale-persuasivo del proprio verso, il poeta guarda intento “un silenzio / d’abissi” stellari dov’“è inchiodata la Croce” da cui si sente guardato e non può raggiungere malgrado la fede che lo anima. Coglie un tralucente “raggio di Vero”, un carezzevole barbaglio che per un momento schiude “la porta di Dio” aperta al miracolo dell’amore, a ricordi d’infanzia, agli affetti familiari, a “un canto di bimbe”, alla madre e al padre nella luce dei Campi Elisi… Dimessa e scevra di cerebrali alterigie è la spiritualità del poeta, persuaso che si è credenti o meno sempre ‘grazie a Dio’: un Dio che, cristianamente identificabile, se si vuole, nel nostro prossimo, sembra non possa fare a meno di lasciare le umane faccende sine cura deum.

 

Il senso del tempo fuggitivo sfiora ogni cosa con le oscure parvenze traccianti una linea tra ciò che è stato ed è, e ciò che sarà… “Sì, si va avanti. E anche il tempo va avanti, finché scorgiamo dinanzi a noi una linea d’ombra la quale ci avverte che dobbiamo lasciarci alle spalle la regione della prima giovinezza. […]. L’acerba malinconia della tarda giovinezza scese su di me e mi portò via” racconta Joseph Conrad in La linea d’ombra (The Shadow-Line, 1917); “Non sarò più giovane” sospira Daphne du Maurier nell’omonimo romanzo (I’ll never be young again, 1932); e un malinconico Enzo Biagi: “Mi pare sia un classico del mondo latino, forse Orazio, che ha detto che gli anni che passano si portano via una cosa dopo l’altra: l’innocenza, la voglia di illudersi (o di sperare), un certo abbandono alla rassegnazione o alla fatalità” (Cose loro & fatti nostri, 2002)… Umbratile Orazio, fraternamente tradotto da Caminiti: “Poi è di nuovo / l’inverno, ed è inerzia / di brume improvvise; / ma già in cielo la luna / si fa grande: è guarita / dai mali che il cielo produce. / Mentre noi, quando morti / cadiamo dove è Enea / dove stanno il ricchissimo Tullo / e Anco Marzio, ombra e polvere / siamo”.

Si esce dallo stato d’incantamento e ansiosa letizia della gioventù varcando una ‘linea d’ombra’ che segna il confine tra i vagheggiamenti giovanili e l’inizio dell’adultità viatico dell’età matura. Ombra d’una dantesca ‘selva oscura’ da cui si dipartono, in fili sottili, altre linee: problematiche, incerte, dilemmatiche. “Forse è grigio, ogni tanto / il mio cielo” canta Caminiti in Linee d’ombra (1991), schiera di tredici essenziali poesie dove, tra indugi di silenzio e intermittenti dissonanze del cuore, si opera un’accurata distillazione del verso che ritorna spezzato e risignificato in nitide sequenze coordinative (“Sale, lieto ogni tanto / un gabbiano / al mio cielo. / Vi trasporta / gli azzurri silenzi / del mare / e una danza d’ignoto / e d’antico”). Prevale, lucida e tenace, la caratteristica forma breve concentrata in versi esenti da corrispondenze sonore, trasmutati e contigui al tema dell’Ombra immagine dell’‘altro se stesso’: danzante figura dell’inquietudine sciolta ora in un mistico canto a voce sola (“Anche il verso / è preghiera, se sboccia / da rare cascate / di stelle / e dagli echi / di un’arpa lontana”), ora in redenta visionarietà (“Ha un ‘calore di fiamma / lontana’ / il mio cielo discreto”); e specchiata in abbandonate contemplazioni del divino: “E ancora mi guardi / dai silenzi di un Golgota / amaro”… Accennati motivi religiosi, immersioni nei lati oscuri dell’Io con l’indizio d’un pensoso profilo autobiografico (“Io mi fermo, stordito / a cercare ragioni supreme”) preso in intrecci psichici e nomi dell’inconscio custode d’una malinconia presto alleviata dalla dominante levità della scansione che, nella scorrevolezza dei versi, ancor più ricerca l’equilibrio.

Stampato a distanza di circa due decenni da Passaggi e Linee d’ombra, l’eterogeneo Partoriranno le montagne s’armonizza con l’opera in versi di Caminiti chiarendone la poetica e l’estetica, percepite come un’espressione di aristocrazie spirituali necessariamente discosta dai canoni correnti dell’industria mercantile della cultura divulgate da ineffabili maîtres à penser che le promuovono svagandosi “a dispensare verità oracolari nelle quali sono i primi a non credere”. Indi, stigmatizzando gli integralismi, l’autore torna a richiamarsi al maggiore dei pensatori latini, Seneca; e affermando il principio secondo cui un intellettuale ha sempre “l’obbligo d’impegnarsi comunque, indipendentemente dalle condizioni della società in cui opera”… L’impegno dell’antico filosofo contro il potere è dichiarato nella sua satira Apokolokyntosis (54 d. C. [traducibile come ‘zucchificazione’]) dedicata al quarto imperatore romano Claudio (Tiberius Claudius Caesar Augustus Germanicus), inopinata ‘zucca vuota’.

   Ideale antefatto di Partoriranno le montagne è Le nobiltà incontaminate. Foscolo Manzoni Leopardi (2011), libro ancor più rivelatore del talento critico di Caminiti: un’opera rigorosa, progettata in forma dialogica con un interlocutore sine nomine e, tra domande e risposte, scandita in tre capitoli dedicati a una terna di autori dell’anima: a ulteriore conferma che, differentemente dalle accademie o dai filosofi dispensatori di opinioni e domande rituali, le risposte cogenti giungono anzitutto dalla letteratura… “Nulla di e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende” scrive Leonardo Sciascia in La strega e il capitano (1987).

Ed ecco, a mo’ di incipit, il déraciné Ugo Foscolo nato nella greca Zante, morto a Turnham Green-Londra, sepolto nella basilica di Santa Croce a Firenze; oltre a essere ‘incantesimato’ ammiratore di Napoleone al pari del suo pressoché contemporaneo Stendhal. All’autobiografico Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), un’apologia delle ‘illusioni’ confrontata da Caminiti col preromanticismo, Foscolo fa seguire i meditativi Sepolcri (1807) dedicati alle tombe degli illustri e le intimistiche Grazie (1827), incompiuto poemetto consacrato al mito. Interpretando e trasvalutando la crisi dell’Illuminismo, Foscolo si volge a una classicità che lo approssima a Catullo e, nella sua epoca, lo accomuna al “neoclassicismo dei maggiori poeti europei: Keats, Hölderlin”. C’è in lui un tale anelito all’assoluta Bellezza che – commenta Caminiti – “la formula ‘neoclassicismo romantico’ […] è ben più di un semplice ossimoro […:] è indispensabile tenerla presente, se si vuole comprendere Foscolo”.

Dopo le innovazioni linguistiche dei poeti della Scuola siciliana, degli Stilnovisti fiorentini e di Dante, con Alessandro Manzoni, a proposito del quale Caminiti sembra prediligere il giudizio goethiano (“Cattolico senza bigotteria”) rispetto alle opinioni diversamente edificanti di Benedetto Croce, si è in presenza d’un nuovo padre della lingua italiana perfezionata nell’alacre capolavoro dei Promessi sposi (1827, 1840, 1842).

Con Manzoni, innovatore anche in poesia (l’ode storica Cinque maggio, dedicata a Napoleone sconfitto, è la celebrazione di una leggenda fallimentare) e principale protagonista del Romanticismo italiano, si determina un fecondo nesso tra gli ideali illuministici di libertà e giustizia e i valori cattolici ispirati dal giansenismo di Pascal che ripone ogni causa di salvezza nella grazia concessa dal cielo.

Conciliando in Manzoni il romantico esprit de finesse con l’illuministico esprit de géometrie, Caminiti osserva che lo scrittore “possedette entrambe queste doti e seppe utilizzarle già nell’approccio alla religione, coniugando perfettamente ragione e sentimento e persuadendosi che ‘tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo’”.

All’obiezione portata da Gramsci sull’assenza di “medesimezza” dei Promessi sposi nella descrizione degli umili, si ribatte che il pensatore marxista non terrebbe abbastanza conto, da una parte scartando l’alto valore letterario del romanzo (secondo Caminiti, Manzoni riesce a fare “con la prosa ciò che Petrarca fa con la poesia”), dell’intento fedelmente realistico di Manzoni e della sua volontà di non idealizzare i propri personaggi. Piuttosto, nel romanzo manzoniano sono certamente “gli umili i protagonisti della storia, laddove i potenti hanno una funzione subordinata fino a sembrare macchiette insignificanti o caricaturali”. Senza mai negligere, tra le principali qualità dei Promessi sposi, il linguaggio (il fiorentino che colma il divario tra lingua scritta e parlato) e lo stile “sostenuto da un’esigenza d’armonia che dobbiamo considerare ‘classica’”.

 

Il capitolo su Giacomo Leopardi, che con Manzoni segna un rinnovamento della letteratura italiana, completa il volume sull’aurea triade ottocentesca… Straordinaria vicenda è quella del “giovane favoloso” – messo in scena in un film del 2014 – che, autodidatta formatosi nel “natio borgo selvaggio” di Recanati, è considerato uno dei maggiori poeti d’ogni tempo. Il suo etichettato pessimismo? Se non un risaputo schema scolastico, una categoria critica monocorde o un luogo comune, più che altro un fatto – osserva Caminiti – “di natura essenzialmente affettiva”, causato dalle patologie affliggenti il recanatese fin dall’adolescenza.

Perciò, superando lo schema di Croce su Leopardi o del pessimismo, più volentieri Caminiti solidarizza con l’ironico disincanto leopardiano variamente diffuso nelle Operette morali (1827, 1834, 1835) a contrasto dell’universale dolore. In tal senso, “Leopardi non fu per nulla nichilista, né predicò l’inerzia. La sua apertura al consorzio civile è testimoniata già dalle prime Canzoni [1824] e troverà nella Ginestra [1845] un suggello altissimo”. Tale orientamento di pensiero, che rientra in un’illuministica gnoseologia, è anticipato dalla “cordialità speciale” circolante nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832) da cui Caminiti trasceglie uno spunto sull’esistenza e annota: “Soffermiamoci su questa frase: ‘Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura’. [… La] frase citata non consente equivoci: malgrado tutto, la vita può essere bella, o almeno si può ipotizzare una proiezione della bellezza nel futuro”. Qui emerge, in abbozzo, quella filosofia del ‘prospettivismo’ interpretata più tardi da Nietzsche, estimatore dell’opera leopardiana: filosofia dalle sorprendenti assonanze con il Dialogo di un venditore e il Dialogo della natura e di un islandese inclusi nelle Operette morali… È siffatta coscienza della natura, insensibile ai desideri umani, “matrigna” e “nemica mortale”, a far “accettare la parte di pena che è intrinseca al destino dell’uomo, il fardello di dolore che ciascuno di noi, per necessità, porta su di sé” riepiloga, con fermo incedere analitico, Caminiti; che, pensando allo spirito lucreziano pervadente i leopardiani Canto del pastore errante (1831) e La ginestra (1845), vuole “accostare Leopardi a Lucrezio […:] perché anche il De rerum natura è animato dalla fede nella ragione, dalla tenace ricerca della verità, dalla vibrante protesta contro ogni forma di oscurantismo”, dal desiderio di liberare gli individui dalle superstizioni usate dal potere come strumenti repressivi.

Foscolo Manzoni Leopardi, veri optimates: un neoclassicista ellenistico; un romantico cristiano capostipite del romanzo italiano moderno; un poeta senza pari e filosofo della conoscenza che, in nome del sentimento e della fantasia, va oltre il classicismo, l’illuminismo e il personale animus romantico… Tre geni letterari, “nobiltà incontaminate” tenute insieme da un ritornante sentimento della malinconia, l’altro nome dell’“ombra” che lambisce i poeti ed è simboleggiata in Linee d’ombra.

Sentimento silenzioso e schivo, la malinconia…: non l’atra bilis, la plumbea bruma proiettata sul ‘pensiero poetante’, ma l’ospite discreto dell’umana gentilezza di Pino Caminiti, antidoto di un ‘uomo antico’ contro egoismo, cattiveria, stupidità e le follie dell’epoca nostra… Allorché, perfino rasserenanti nella traduzione caminitiana, ritornano (ancora “l’Eterno ritorno”) le parole dell’immenso Lucrezio secondo cui “noi tutti veniamo da un seme celeste”: “Un sol giorno, funesto / ti ha reciso le gioie della vita. / Questo dicono, stolti / e non sanno / che ormai / più di nulla ti sfiora il rimpianto”.

Stefano Lanuzza

Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.