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MURI A SECCO, Mür a secch
Antologia poetica
a cura di Marco Bellini e Paola Loreto
Traduzione in dialetto lombardo di Piero Marelli ed Edoardo Zuccato
RP editore 2019

Il libro raccoglie una selezione di testi dei poeti ospitati dall’associazione Arte20 nel corso di serate di lettura dei loro libri, con la cura di Marco Bellini.

Si tratta di Sebastiano Aglieco, Corrado Bagnoli, Corrado Benigni, Anna Maria Farabbi, Stefano Guglielmin, Vivian Lamarque, Annalisa Manstretta, Riccardo Oliveri, Paolo Pistoletti, Francesco Tomada. Siamo di fronte a  un progetto sperimentale di traduzione che riporta l’italiano alla parlata dell’alto milanese di Edoardo Zuccato e del brianzolo di Piero Marelli.

Piú che una vera antologia, parziale spaccato della poesia contemporanea, come tengono a precisare i curatori nell’introduzione, “Muri a secco” costituisce, a mio avviso, un’iniziativa che s’innesta nella pratica della traduzione tout court, nell’ottica di considerare i dialetti, come ormai da tempo la critica concorda, non solo  espressioni di micro culture territoriali ma lingue vere e proprie.

L’operazione costituisce, dunque, uno strumento aggiornato sul rapporto tra italiano, dialetti e neodialetti; strumento attendibile in quanto i traduttori, Marelli e Zuccato, sono poeti e studiosi con una vasta esperienza sul campo.

Tralasciando considerazioni sui singoli autori,  mi preme, piuttosto, soffermarmi su alcuni risvolti che attengono la traduzione in sè: per esempio su come il dialetto utilizzato sia stato condizionato dalla matrice dei testi in italiano, laddove la resa del significato sia risultata difficile da rendere o laddove, diversamente, il dialetto abbia contribuito a “migliorare” il testo originale rendendogli sfumature e profondità di senso insospettate.

Per comprendere gli esiti, credo sia dunque  importante partire dalla matrice dei testi in italiano. Leggendoli, se ne può verificare diversità di stile e di tono: dalla pratica di una  scrittura concreta, passando per gradazioni poetiche intermedie, a una scrittura tendente all’astratto, alla riflessione filosofica.

La natura del testo in sè si fa dunque veicolo di “nicchie” semantiche che costringono il dialetto verso un parziale “arbitrio”, con incursioni nell’ “espressivo” o verso una resa formale propensa all’utilizzo di un “correlativo” elementare più in armonia con la natura di lingua concreta, piuttosto che di pensiero, del dialetto.

Ne consegue una riflessione indiretta sul significato del cosiddetto neodialetto, lingua, secondo la lezione di Brevini, svincolata sia dalla tradizione puramente vernacolare, folcloristica, sia dal dialetto

come lingua di popolo, quanto, piuttosto, lingua incline a risvolti più perso ali, e persino all’invenzione di forme nuove.

Leggendo questi testi in traduzione, sembra di assistere, appunto, alla lezione di forme legate alla sensibilità neodialettale con inclinazioni all’ideoletto, esaltate dalla necessità dei  traduttori  di rendere il clima di partenza, ora virando verso una dialettalità dal tono popolare, in rapporto con l’originale, altre volte traghettando il testo verso un clima imprevisto o imprevedibile.

Ė possibile chiedere al dialetto la capacità di adattarsi a poetiche di partenza così diverse ? Il dialetto ha tutte le parole per affrontare la traduzione? Dall’esperienza di Marelli e Zuccato parrebbe di sì. Parrebbe, inoltre, che tradurre sia un atto di cultura piuttosto che di trasposizione rigorosa. I curatori in effetti fanno espressamente riferimento a “un vero e proprio gesto creativo rinnovando il testo, calandolo pienamente nelle atmosfere linguistiche specifiche del dialetto e confermando così come l’atto del tradurre sia uno dei possibili modi di fare poesia originale”, p. 6; dichiarazione di un atto di traduzione possibile solo in quanto reinvenzione, nella misura in cui l’altra lingua, quella della traduzione, permetta il rispecchiamento o un tradimento  riflesso.

Occorre, certo, portare alcuni esempi concreti per certificare quale mutamento di clima o quale consenso si sia verificato nel passaggio da una lingua all’altra.

Primo esempio:

Nei testi del sottoscritto, il passaggio, “Che importa ai superstiti?” – domanda senza rilevazione di tono nel testo in italiano, addolcito, sincopato, piuttosto, in quanto il testo fa riferimento a un monologare interiore che non grida la propria rabbia, da qui il tono solenne di tutto il poemetto – diventa: “se ghe ne fréga / a quej che amò viven?”, dove si nota, per natura terragna del dialetto, l’utilizzo di un’espressione che spintona il ragionamento verso il grido di protesta, mentre il formale “superstiti” dell’originale è reso, più palesemente con “a quej che amò viven”,  forse per mancanza di lemma o per un procedimento poetico di vivificazione del significato sottinteso di “superstiti”.

Altro caso è la trasposizione del termine “vendetta”,  che Marelli traduce  con “rabia cativa”; ancora un chiarimento semantico, un approfondimento.

E ancora: “redenzium”per “riscatto”; il riscatto è una forma di redenzione? Così come “quaresima” è, evidentemente, “penitenza”, termine che sottolinea  il clima del poemetto, e cioè il senso di colpa profondo del soldato e il suo desiderio di riscatto attraverso una qualche forma di perdono.

Secondo esempio:

Nella trasuzione dei testi di Stefano Guglielmin, si veda ancora come Piero Marelli riconduca l’astratto poetare dell’italiano alla concretezza di un parlare in dialetto, dove è rispecchiata l’immediatezza del gesto, spesso gesto senza parole:

 

Nel parto misericordioso

la lussazione del tempo,

l’avvenire. In ogni suo

divergere, il dispositivo

risolutorio, l’assoluzione.

 

‘N del vegnì ‘l mund misericurdiùs

la sturziàda del temp,

ul duman. Denter ul sò

svirgulàss, la mecaniga

buna per semper, ul perdùn.

 

  1. 44

 

Tutti i lemmi utilizzati da Marelli costituiscono  un vademecum di una variazione di clima in cui il riflettere guardando le stelle si tramuta quasi nel gesto violento e risolutorio del contadino che sembra pregare davanti all’altare di Dio utilizzando il suo lessico crudo.

La prova è data dalla trasposizione del termine colto o di area specialistica, “dispositivo”, in “mecaniga” che ricorda l’innovazione, ma questa volta di stampo ottocentesco – meccanica, nell’esperienza del volgare, ė la macchina,

il meccanismo che trasforma l’esperienza del lavoro -.

Terzo esempio:

Nella trasposizione  di Zuccato dei testi di Corrado Benigni, il traduttore si ritrova a rincorrere la struttura ritmica dell’originale, tanto che il lavorio sulla scelta dei termini risulta del tutto naturale, quasi automatico. Nell’espressione “E ci tiene”, tradotta con  “E ca la tegu menga”, assistiamo a una capriola di bravura:

 

Ma un miraggio sigilla la visione,

questa gravità che non trattiene. E ci tiene.

 

Ma ‘n miragg al sigila sü a vision,

chela gravità chì ca la trategn menga. E ca la tegn menga.

 

  1. 30

 

Il mantenere il senso, lavorando sulla scelta dei vocaboli più appropriati, avrebbe potuto far perdere la stringatezza della struttura ritmica che invece Zuccato riesce  a preservare ma in un contesto di forma allungata.

 

L’analisi degli espedienti e delle scelge che sono, poi, dispositivi naturali scaturiti dal confronto di mondi, naturalmente potrebbe continuare anche nel caso degli altri testi. Ciò che mi premeva sottolineare, e per concludere,  è la prova che la neodialettalità è espressione di una cultura franta, dove la voce della poesia non corrisponde più alla cosa ma la interroga, e questo è il motivo per cui un grande poeta popolare – la mia voce ė il popolo, diceva – come Ignazio Buttitta, veniva escluso dalle considerazioni neodialettali di Brevini.

Tradurre in italiano la poesia dei dialetti ha, dunque, un senso, in quanto oggi il poeta è ben lungi dal provare un sentimento di appartenenza e di empatia con l’ ” altro.” Con un popolo, addirittura. In questo senso esistenzialismo e senso di perdita appartengono sia all’italiano che al dialetto e forse, se questi poeti, avessero scritto i loro testi direttamente in dialetto, li avrebbero sentiti così come li hanno sentiti Piero Marelli ed Edoardo Zuccato.

La traduzione, insomma, evidenzia una sorta di neodialettalità intrinseca, celata sotto le parole dell’italiano,  una difficoltà o uno struggente desiderio di sentirsi voce dell’altro, forse della Storia.

 

Sebastiano Aglieco