L’idea che il nostro attuale Presidente del Consiglio (tecnicamente imposto) sia in realtà un grande dantista, è balenata nella mia mente confusa qualche tempo fa. Sì, perché Monti altri non è se non un grande conoscitore del Sommo e uno strenuo difensore delle sue avanguardistiche teorie politico-economico-sociali. Tra banchieri e poeti è sempre incorso buon sangue, è cosa nota e giusta.
Nella tradizione medievale, la gerarchia dei vizi capitali segue la formula mnemonica (autorevolmente sanzionata da Gregorio Magno) SIIAAGL, cioè “superbia, invidia, iracondia, accidia, avarizia, gola, lussuria”. È proprio a tale ordine che Dante si attiene nell’assegnazione delle pene del Purgatorio, aderendo fedelmente sia alle teorizzazioni medievali sia alle posizioni tomistiche, espresse attraverso la voce di Virgilio. “Superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville ch’anno i cuori accesi” afferma Ciacco, le tre colpe più pesanti di cui si è macchiata l’umanità, poiché causarono la cacciata dell’uomo dall’Eden. L’invidia è un tratto distintivo del serpente, la superbia viene attribuita ad Adamo e l’ingordigia a Eva, malaccorta gustatrice di mele sapienti. Apparentemente il Nostro assegnerebbe il gradino gerarchicamente più alto, e mefistofelicamente più fetido, alla superbia, la convinzione, meglio il convincimento, di essere al di sopra di qualcosa o qualcuno, atto solitamente accompagnato da un sontuoso e altero disprezzo. Scavando nelle peregrinazioni della Commedia, tuttavia, si può appurare che ciò che si palesa ai nostri occhi, non corrisponde pienamente al vero. Dante condivideva in toto le teorie di coloro i quali vedevano nei peccati di incontinenza le colpe più gravi di cui un individuo (Dante avrebbe usato cristiano, ma noi siamo politically correct) avrebbe potuto macchiarsi; infatti, mentre la lussuria potrebbe definirsi un “vizio privato”, i peccati di incontinenza, quali l’invidia, la superbia e l’avarizia, sarebbero pericolosi peccati sociali, o anti-sociali. Tuttavia, per Dante, il peccato di incontinenza per eccellenza non è la luciferina superbia, ma la cupiditas, quella bramosia insaziabile in cui ci imbattiamo immediatamente, prima ancora di caricare la saccoccia in spalla, sotto forma di una lupa corruttrice carica di viscerale rapacità. Spaventevole nemica della charitas, è la radice di ogni male, poiché da essa nascono, e da essa sono alimentate, la frode, l’inganno, lo spergiuro, l’inimicizia, e tanti altri peccati e peccatucoli degni di nota. L’immagine della Lupa, che riapparirà nel XX Canto del Purgatorio (“Maledetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!”), non è una novità dantesca, ma era già apparsa, senza voler andare ancora addietro, in un altro best-seller (ante-litteram), il Roman de la Rose, in cui personifica la meretrice bramosia di denaro. Avarizia dunque, o meglio, cupidigia, lessema chiave del mondo idelogico-politico (ed etico) dantesco. “Radix omnium malorum” la definisce San Paolo, e San Tommaso gli fa eco definendola “inordinatum appetitum cuiuscumque boni temporalis”. Basterebbero già le loro parole per capire che la cupidigia non è proprio tra i peccati che i medievali, e Dante in primis, guardavano con condiscendenza. La cupiditas è fatale. Lo sa bene il nostro “homo viator”, che affronta l’argomento anche in una delle opere cardine dell’enciclopedismo medievale, il Convivio. La cupiditate, appetito inarrestabile di beni terreni, è da condannare non tanto in quanto desiderio dei beni di per sé, poiché le “cose” della Terra, in quanto creazioni riconducibili a Dio, non sono da biasimare nella loro essenza (lo affermava già Aristotele), ma è da condannare il desiderio smodato di un bene, poiché l’uomo, fallibile, è portato a bramare costantemente nuove e sempre maggiori ricchezze, in un crescendo d’intensità che lo conduce all’arida (perché è una sete che non può essere mai sedata) spirale dell’accumulazione di beni e ricchezze: la famelica cupidigia. L’uomo cupido è antisociale, poiché nella febbre dell’accumulazione calpesta l’altro uomo. Questo movimento avvitatorio si ripete su grande scala, cosicché una comunità tende a prevaricare un’altra comunità e uno Stato un altro Stato, in un crescendo di nefasta antisocialità. Come rimediare? Il Poeta nel quarto trattato del Convivio ci viene in aiuto, spiegando che l’unico modo per bloccare questo vortice in espansione è la creazione dell’Impero Universale, poiché solo l’Imperatore, che possiede tutto ed è al di sopra di tutti (e quindi è esente da cupidigia), può garantire quella Pace Universale ripristinatrice di ordine. Tale teoria, nel momento stesso in cui è risultata manifesta ai miei occhi, ha richiamato alla mente un altro termine, abusato, sbeffeggiato, ma quanto mai attuale. Globalizzazione? Purtroppo no, anche se alcuni preferiscono chiamarla così. Io preferisco massoneria. La creazione di una società universale “guidata” da mani assennate. Al di là dei facili sensazionalismi, dei documentari che dissertano su complottismi vari, l’impressione che accompagna ogni click del mio telecomando è che, realmente, ci sia un progetto per creare una nuova Pangea politico-economico-culturale, un tentativo di livellamento delle estraneità e di espulsione di quei corpi che appaiono disgiunti dal connettivo social-intercontinentale. Un paio di monete uniche in vista di una moneta mondiale? Una omogeneizzazione (appiattimento?) delle diversità? E qui torniamo a Monti, o meglio, a Dante. Perché Dante sarebbe stato contento di vedere come le sue teorizzazioni non fossero poi così distanti dalla realtà attuale… Assistiamo ad una crescente presa ufficiale di potere da parte delle alte sfere del sistema bancario internazionale che, fino a questo momento, avevano agito dietro le quinte della politica accreditata. Dante è incorso in un solo errore di valutazione: affinché l’uomo possa vivere libero dalla fame della cupidigia non è necessario un Imperatore Universale, ma un Banchiere Universale, e in questo Monti si dimostra un grande estimatore del Sommo Poeta. Questi Signori agiscono per il raggiungimento del bene comune. Ora che lo sa, l’umanità rasserenata potrà finalmente vivere una quieta schiavitù.