Fu la prima ragazza a farlo: mi bocciò per l’altezza, senza neanche conoscermi. Volendo, avrebbe potuto anche per l’età. Mi disse che ero parecchio giovine e che, a dire il vero, preferiva l’odore di vecchio. Sapeva di essere simpatica, oltre che dark e in parte punk. Ogni tanto, sempre a sua detta, riusciva ad entrare in una 42. Attirava gente mentalmente disturbata, motivo per cui le fu semplice calamitarmi.
Un’unica sera, un’unica cena, insieme. Mi fu chiaro che adorasse curare i dettagli della tavola, cucinare primi piatti elaborati e pesantissimi. Inoltre, mangiava tantissimo. Insomma, bastava questo per considerarla una donna da sposare.
Adorava la carbonara, ma l’uovo la “fastidiava”. Le chiesi di poter lavare i piatti, lo trovo davvero rilassante, un modo per far pulizia fuori e dentro. Mi impedì di farlo, perché le era necessario in quanto momento per riflettere tristemente sulla sua vita, fino a convincersi dell’inevitabilità del suicidio sull’ultima tazzina, per poi trovare del cibo in frigo che la convincesse che valesse invece la pena di vivere per ingurgitarlo. Questo e tanto altro, diceva.
Non provava disgusto per la morte, anzi, se ne circondava in maniera strana. Non avvezza all’uso delle moderne racchette da tennis elettriche, preferiva di gran lunga eliminare le zanzare, e altri sfortunati insetti, con l’ausilio di scarpe, senza in seguito rimuoverne i resti dalle pareti, che da originariamente bianche, negli anni erano diventate puntinate.
Era certa che un cancro emanasse un odore sgradevole e considerava sgradevole l’odore delle fragole. Motivo per cui, sosteneva che i due odori coincidessero.
Contai, con l’ausilio delle dita, quante “o” ci fossero nel noia più lungo di “Noia” dei CCCP, mentre l’inno diffondeva nell’aria per i suoi duecentoventisette secondi, e le dissi erano ben dodici, tant’è che suonava come “… nooooooooooooia…”, benchè si potessero considerare come un’unica vocale con note diverse legate tra di loro, e soprattutto, lo feci nonostante fossi quasi certo che le avesse già contate in passato.
All’alba, ammirando l’orizzonte, si chiedeva come l’enorme sfera di fuoco che è il sole, potesse sorgere dall’immensa distesa di acqua che è il mare. Senza spegnersi l’uno. Senza evaporare l’altra.
La sera, toccava a luna e stelle divenire il centro della sua contemplazione, il cielo era stoffa dalle cui trame, e immancabili buchi non rattoppati sparsi ovunque, emergevano infinite luci di candele.
Non amava affatto la logica delle distanze astrali, adorava invece le sovrapposizioni poetiche di ciò che vedeva, quel che si creava azzerando le conoscenze e guardando tutto con gli occhi innocenti e sorpresi di una bambina.
Camminava scalza per sentire la temperatura della vita e percepirne le irregolarità.
I suoi libri non chiedevano librerie ma, anche questi liberi, trovavano varie collocazioni, dal pavimento, ad una mensola in cucina o in bagno, al cuscino del letto. Desiderava vivessero la casa e che questa, per una sorta di osmosi, si impregnasse di loro.
Meditava da tempo un’invettiva apocalittica, perché non c’era più lustro, ma non avrebbe giocato ad improvvisarsi poetessa, perche troppo rispettosa della sacralità del verso.
Eppure, trovavo poetico il suo pensare, parlare, così come le sue movenze.
Il tempo fu avaro, mi augurò una buona domenica, durante la quale cercai di convincermi che lei non esistesse, per non farmi del male, puntini, puntini. Poiché il giudizio iniziale era stato inesorabile e insindacabile. Mi definì all’altezza, ma non di altezza. E per lei contava più del resto.
Francesco Foti