«Nel pomeriggio verrà quella signora che vuol vedere l’appartamento al pianterreno» disse Rita alle due figlie. «Mettiamolo in ordine.»
Intorno alle quattro, infatti, sarebbe venuta Ersilia, una signora di Milano, desiderosa di passare l’estate in Val d’Intelvi, lontano dalla calura della città. Grazie al passaparola di alcuni conoscenti che in quel borgo venivano abitualmente in villeggiatura – e ne decantavano il fresco clima montano e l’incantevole paesaggio digradante fra il Lario e il Ceresio – Ersilia era arrivata fino a Rita.
La casa di Rita era stata ricavata, con notevoli spese e grande passione, da una vecchia cascina appartenuta a un anziano cugino. Un rudere vero e proprio che Rita, dopo l’improvvisa morte del marito, si era decisa ad acquistare per le figlie e per investire il denaro ricavato dalla vendita della latteria alla quale il defunto aveva sacrificato un’intera vita. Non ci aveva messo troppo tempo a trasformare quel rudere in una piccola reggia: abbattuti i muri interni non portanti e ridisegnata la planimetria, aveva ricavato, l’uno sopra l’altro, due appartamenti e un sottotetto mansardato.
Un gran portone in legno di quercia, vecchissimo ma ancora solido, immetteva in un cortile interno che da una parte dava sui campi e dall’altra costeggiava il muro di cinta del giardinetto dei vicini, godendo di una certa riservatezza e di una bella vista perché, di là dai campi, si spiegava il rigoglioso panorama della valle, fitto di robinie, pini, abeti e castagni.
Già dall’appartamento del pianterreno si notava la cura con cui Rita e le figlie avevano provveduto a far risistemare ogni cosa con originalità e grazia tipicamente femminili. Il risultato era davvero felice. Rita ne andava orgogliosa: sentiva la casa come una propria creatura e non l’avrebbe mai non solo venduta ma neppure data in affitto. Tuttavia, il continuo aumentare delle spese per tasse e periodici interventi di manutenzione e il pensiero che avrebbe potuto guadagnarci qualcosa dandola, con ogni cautela, in locazione per brevi periodi l’anno la convinsero a cedere l’appartamento del pianoterra per i soli mesi estivi.
Rita, originaria di Belluno, aveva conosciuto il suo Mario quando questi prestava servizio militare in Veneto. Subito dopo il congedo, decisero di sposarsi, e lei, per risparmiare, aveva pensato bene di rivolgersi a un restauratore di mobili antichi, amico di famiglia, per acquistare a buon mercato i mobili della stanza da letto. Mobili che avrebbero poi fatto sistemare in un appartamento preso in affitto, almeno per i primi tempi del matrimonio, proprio lì, in Val d’Intelvi, al paese dello sposo.
«C’è qualcosa che fa per voi» aveva detto il mobiliere ai giovani fidanzati. «Giusto in questi giorni una signora di Vicenza mi ha proposto di rilevare la sua bellissima stanza da letto, tutti mobili in ottimo stato, autentico stile liberty, a un prezzo convenientissimo. Data l’amicizia con la famiglia di Rita, non voglio guadagnarci nulla. Ve la do al prezzo al quale la pago io e, se ci aggiungete le spese di trasporto, la consegno e la monto io stesso in Val d’Intelvi.»
Si era alla fine degli anni Sessanta: per una camera simile, in originale stile d’epoca, avrebbero dovuto sborsare anche un paio di milioni, invece la pagarono solo seicentomila lire, trasporto da Belluno compreso.
La camera era composta di letto, armadio, comò, comodini e poltroncine. Era in radica di noce lavorata con venature e striature accostate in modo da produrre disegni fantastici, giochi di chiaroscuro, sfumature di colore, passaggi impercettibili da una tinta all’altra. Bella era tutta: l’armadio imponente senza essere pesante, i comodini piccoli e aggraziati, le poltrone ricoperte di cretonne a fiori stampati, il comò sormontato da una specchiera a tre luci inserite in una cornice dalle linee dolcemente sinuose, tipiche del disegno liberty.
Ma ciò che attirava di più l’attenzione era il letto.
Alto, enorme, imponente, era proprio un portento, con la testiera adorna di volute floreali e le sponde tirate a lucido. Tra l’altro, c’era un particolare che incuriosiva chiunque vi avesse per caso gettato sopra lo sguardo. Gli strani giochi che facevano le venature della radica sulla testiera suggerivano sagome di animali mai veduti: uccelli-serpenti che si tramutavano in teste di gatto o di cane o di leone o di drago, a seconda della fantasia. Ma sembravano teste del tutto sprovviste di occhi: occhi che, però, era impossibile non figurarsi in determinati punti del disegno. Ebbene, in due di questi punti, nella zona destra della testiera a guardarla dalla parte dei piedi, qualcuno aveva inciso con qualcosa di appuntito ‒ rovinando leggermente la superficie liscia della radica ‒ due piccoli occhi immaginari. Ti guardavano da una profondità appena accennata e tuttavia evidentissima. A nulla erano valsi gli interventi del restauratore: gli occhi erano rimasti lì come un segno indelebile, un involontario marchio di fabbrica.
La vastità del letto costrinse Rita a far confezionare apposta i materassi: due grandi materassi che andarono a incasellarsi alla perfezione nel loro alloggiamento. Le reti di allora, lavorate a fitte maglie di acciaio, dopo trent’anni erano ancora rigide e forti.
Rivestito della necessaria biancheria e ricoperto di un drappo di raso azzurro damascato, con i cuscini ben rilevati al loro posto, riempiva di sé gran parte della camera facendo una figura straordinaria.
«È un letto da regina!» fu il commento di Mario al vederlo montato e rassettato a dovere.
«Se io sono la regina, tu sei il re!» aveva risposto con uno scoppio d’ilarità Rita, innamorata com’era del suo sposo.
E da allora furono anni intensi d’amore. Tanto più intensi quanto più inconsciamente vissuti, forse, con la paura di un improvviso distacco, quasi il presentimento della prematura scomparsa di uno dei due.
Quando il triste presentimento si avverò con la morte di Mario per quel suo cuore malato, Rita non volle più dormire in quel lettone al quale era legata da tanti dolcissimi ricordi. Pian piano se ne disamorò e finì con l’odiarlo.
Un giorno, spinta da un impulso doloroso e irrefrenabile, aveva fatto smontare l’intera mobilia e l’aveva collocata in una specie di garage-cantina con le masserizie da sbratto. Da quel momento Rita, rinnovata la camera, aveva voluto dormire in un letto a una piazza: un lettino da ragazza, come quelli delle sue figlie ancora signorine.
Il gran letto liberty era rimasto, così, a lungo dimenticato nel locale da sbratto, finché, acquistata e ristrutturata la vecchia cascina, non era occorso arredare nel modo più conveniente le nuove stanze.
Nel frattempo nel cuore di Rita si era rimarginata la ferita provocata dalla morte del marito e l’acuto dolore di una volta si era tramutato nella dolce nostalgia di lui e dei bei tempi trascorsi insieme. Perciò, quasi a voler onorare la memoria di Mario, si era lasciata andare a uno di quegli impulsi del cuore che all’apparenza non hanno alcun senso: aveva voluto far risistemare la loro stanza da letto, quella dei bei tempi di una volta. In questo modo, il gran letto era stato rimesso a lucido insieme con l’altro mobilio e trasportato nell’appartamento del pianterreno.
Era questo l’appartamento che Rita, adesso, avrebbe potuto affittare alla signora di Milano.
Ersilia era una donna anziana, sui settant’anni ben portati. Un po’ corpulenta ma abbastanza alta di statura, si presentava come un donnone florido ma non goffo. Aveva modi cortesi ma decisi. Spesso nel parlare si abbandonava a improvvise risate che ne svelavano il carattere affabile e spontaneo. Ma duravano poco: un velo di tristezza non tardava a scendere sul suo volto come a coprire chissà che dolorosi ricordi. Era venuta al paese, come convenuto, quella domenica di maggio, per prendere accordi in vista dell’imminente estate. Si era fatta accompagnare in automobile dalla figlia Mercedes, che era una bella donna sui quarant’anni, sposata con un bancario e madre di due ragazzi, rimasti quel giorno a Milano col padre, anche loro desiderosi di quella villeggiatura – come andava spiegando Ersilia – per fare delle belle escursioni in mezzo ai boschi alle pendici della Sighignola. E diceva che, quanto a lei, sarebbe stata felice di trascorrere i mesi di luglio e agosto in Val d’Intelvi poiché non sopportava l’afa asfissiante della città. Inoltre, da qualche tempo non stava bene di cuore e il medico le aveva consigliato l’aria fresca di mezza montagna anziché la calura dei posti di mare.
Insieme con loro c’era Clelia, sorella maggiore di Ersilia, ma con un aspetto più giovanile in virtù della figura slanciata e minuta. Parlava poco e se ne stava assorta come in perpetua meditazione. Ersilia parlava per tutte, benché ogni tanto intervenisse nel discorso anche Mercedes con qualche battuta allegra, evidentemente detta per accattivarsi le simpatie della padrona di casa.
Rita non ebbe alcuna esitazione: capì che si trovava di fronte a persone perbene e certo in grado di sostenere il costo dell’affitto che, su in Valle, nei mesi estivi, raggiungeva cifre considerevoli per l’elevato numero delle richieste. Acconsentì quindi a guidare subito la piccola comitiva alla scoperta dell’appartamento.
Con ogni evidenza le ospiti trovavano precisamente ciò che cercavano. E guardandosi intorno ripetevano: «È proprio bello! Ci piacerebbe prenderlo!».
Erano passate da una stanza all’altra a cominciare dal soggiorno, ammirando la bellezza dei pavimenti, la funzionalità della cucina, l’eleganza dei mobili, il candore della sala da bagno e nello stesso tempo avvertendo il senso di calore domestico che proveniva da ogni particolare, da ogni rifinitura. Ma quando giunsero nella prima delle tre stanze da letto ‒ la più grande e la più confortevole, quella in cui avevano preso posto i mobili liberty ‒ accadde qualcosa che nessuno di loro si aspettava.
Clelia si stava lasciando incantare dal parquet lucidato a cera, Mercedes si rifletteva nello specchio del comò ‒ e ne approfittava per un rapido tocco ai capelli ‒ ed entrambe esprimevano in coro la loro incondizionata approvazione. Solo Ersilia era rimasta come imbambolata davanti al gran letto di radica, bello e maestoso come un monumento. Se ne stava immobile, pallida in volto e senza fiato, tanto da destare immediate preoccupazioni nella figlia e nella sorella. Poi, come se si riprendesse dall’improvvisa vista di un fantasma, cominciò a farfugliare:
«Ma… ma… ma…».
«Cosa c’è, mamma, per l’amor di Dio… Che succede? Che hai?… È il cuore?…» incalzava Mercedes.
«Ersilia, Ersilia!…» ripeteva spaventata Clelia.
«Si sieda, signora, si metta comoda» suggeriva Rita, preoccupata anche lei, spingendo avanti una delle due poltroncine.
«Ma… ma… ma non noti niente qui, Mercedes?» disse finalmente Ersilia, riprendendo fiato e colore, agitandosi tutta e rifiutando di sedersi.
«Cosa, mamma, cosa devo notare?»
«La camera, figlia mia, i mobili… E questo letto… Guardalo bene, questo letto…»
Anche Mercedes a queste parole rimase interdetta. Sgranò gli occhi come davanti a una visione soprannaturale e cominciò a girargli intorno ripetendo: «Eh già!… Eh già!… Eh già!…» e poi subito esclamando: «Guarda, mamma, guarda! Ci sono ancora gli occhi del drago…», mentre Clelia, che non riusciva a raccapezzarsi, andava strillando: «Ma insomma, volete spiegarmi di che si tratta?».
«Ma sì, di che si tratta?» le faceva eco Rita, sorridendo adesso come un’ebete e non sapendo che altro dire davanti a quella scena che la incuriosiva oltre misura.
«Ora vi dico… Vi racconto tutto subito…» volle tranquillizzarle Ersilia, sedendosi sul letto con grande naturalezza, senza chiedere permesso a nessuno, mentre anche la figlia la raggiungeva da un lato con altrettanta disinvoltura. E a Clelia e a Rita non restava che prender posto sulle poltroncine…
Era proprio uno strano disegno, quello della sua vita ‒ raccontava Ersilia. Strano come quello che l’aveva condotta a ritrovare, dopo un’infinità di traversie quello che, per ben tredici anni, era stato il suo letto. Sì, il suo letto. Il letto che aveva acquistato d’occasione, assieme agli altri mobili della camera, nell’ormai lontano 1956 ‒ una data che non avrebbe mai scordato, così diceva ‒ subito dopo la separazione dal marito.
Sposata con un principe del foro di Venezia ‒ proseguiva Ersilia dando una certa enfasi alle sue parole ‒ se ne era ben presto disamorata a causa della sua totale inettitudine alla vita familiare: la trascurava in tutti i sensi, la bistrattava in ogni occasione, mancava ai suoi doveri coniugali e non voleva nemmeno sentir parlare di mettere al mondo dei figli. Sui trent’anni lei aveva conosciuto un medico un po’ più giovane e aveva intrecciato con costui una relazione clandestina. Era rimasta incinta di Mercedes e la cosa aveva suscitato un certo scandalo nell’ambito familiare e forense, anche perché l’amante era a sua volta sposato bene e non aveva alcuna intenzione di abbandonare la moglie. Per togliersi dalle chiacchiere della gente, che pure in un mondo tollerante come quello veneziano non le risparmiava occhiate e commenti maliziosi, e soprattutto per far nascere Mercedes in un ambiente sereno, decise di trasferirsi a Vicenza, dove aveva ereditato una piccola casa e dove avrebbe potuto vivere tranquilla con la figlia. Qui aveva arredato al meglio la casetta, sistemandovi anche i mobili della famosa camera liberty. Era stato un giovane mobiliere di Belluno a proporgliene l’acquisto ‒ e a questo punto Rita capì subito che si trattava della medesima persona che aveva venduto a lei e a Mario quegli stessi mobili.
Venuta al mondo la figlia Mercedes, il padre naturale se ne era disinteressato del tutto e la madre non aveva fatto altro che passare giorni e notti amare pensando alle tristi vicende della sua vita. Il letto, quel letto, era stato il muto testimone dei suoi pianti e della sua disperazione quando non sapeva come sfamare la figlia e, andando in cerca di un’occupazione qualsiasi, riceveva rifiuti su rifiuti. Ci dormiva insieme alla bambina, ogni sera la addormentava accarezzandola e raccontandole fiabe di maghi e fate e principi e draghi. Una volta la figlia, eludendo la sorveglianza della madre, aveva rovinato la testiera del letto incidendo gli occhi a qualcosa che le appariva come un drago.
«Era un drago, sì, era un drago!» s’era inserita prontamente nel discorso Mercedes, confermando la versione della madre.
Dopo qualche anno, però, quando la figlia aveva imparato a dormire da sola nella sua cameretta e a non aver più paura del buio, quel medesimo letto si mutò per Ersilia in un confortevole rifugio.
Non ricordava più come fosse accaduto: una volta era andata a trovarla quel mobiliere di Belluno, l’aveva vista in lacrime, ne aveva provato compassione e le aveva offerto di lavorare per lui. Non fu difficile per lei innamorarsi di quell’uomo che, pur avendo moglie e figli a Belluno, non passava settimana senza che la venisse a trovare a Vicenza. Restò ancora in quella città fino al compimento del tredicesimo anno della figlia, poi sbaraccò tutto e, per badare al negozio che il mobiliere nel frattempo era riuscito ad aprire là, si trasferì a Milano.
Dopo il matrimonio di Mercedes, la sorella Clelia, rimasta da sola a Venezia, aveva preferito passare la vecchiaia con lei a Milano, anche perché da qualche anno il vecchio mobiliere era venuto a mancare.
«E così eccoci qui davanti a questo letto» concluse Ersilia.
«Un bellissimo letto liberty!» commentò Mercedes scoprendone adesso il valore non solo affettivo.
Erano tutte commosse: sia le donne protagoniste della storia, sia Rita e Clelia che l’apprendevano adesso.
Già quel letto, pensò Rita, chissà di quante altre storie di amore e dolore era stato testimone! Storie di donne appassionate, coraggiose e sole, che non si erano lasciate abbattere dalle avversità della vita.
L’affare dell’affitto fu naturalmente concluso con la promessa reciproca di rivedersi all’inizio di luglio.
«Mi basterà dormirci ancora quest’estate» disse Ersilia con gli occhi lucidi congedandosi da Rita. «La ringrazio per questa incredibile opportunità.»
«Sono io che devo ringraziare lei. Abbiamo legato i nostri più cari ricordi allo stesso letto» le rispose Rita. «Il suo racconto mi ha fatto ritrovare qualcosa che pensavo di avere perduto per sempre e che mi mancava terribilmente. Tra donne ci si capisce subito. Anzi, tra donne sole ci si capisce meglio. Non è così?»
Partite le tre ospiti per Milano, Rita ritornò in quella camera, si sedette sul letto come avevano fatto prima Ersilia e Mercedes e stette lì quieta, immersa nei suoi pensieri.
Più tardi venne a riscuoterla la figlia minore:
«Che fai lì, mamma?».
«Niente, niente…» rispose Rita. «Stavo solo provando il letto. A luglio verranno quelle persone da Milano…».
Riassettò la coperta con delicatezza, quasi accarezzandola, e uscì in fretta dalla camera.
Angelo Maugeri