“Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme.” Scrivere una recensione di una qualunque opera di Bukowski suona quasi blasfemo. Con quale coraggio, si pretende di eviscerare, smontare, incasellare e interpretare il suo rigurgito di parole, la sua overdose di narrazioni, quel filo sottile tra poesia e pornografia, tra misoginia e totale devozione alle donne, tra un fegato al collasso e un amore estremo per la vita? Ogni scrittore ha il suo metodo, il suo processo creativo. Charles Bukowski ogni sera si chiudeva in camera, sedeva sulla sedia, avvicinava la macchina da scrivere, lasciava suonare un Sibelius o un Mahler, stappava la prima birra e batteva a macchina poesie fino al mattino dopo. O finché era troppo ubriaco per rimanere sveglio. Il che poteva anche succedere la mattina. A trentasei anni, salvato per miracolo da un’emorragia, i medici gli hanno predetto morte certa se avesse bevuto un altro bicchiere. Appena dimesso, è entrato nel primo bar che ha trovato. Questo era Bukowski: la macchina da scrivere, la confezione di birra da sei e la ferma volontà di tenersi alla larga da ogni conformismo. “All’asilo, mi ricordo che pensavo quanto fossero strani gli altri bambini. C’era qualcosa che non andava in loro. Erano la massa. Io odio la massa.” A quarant’anni ha visto pubblicare la sua prima opera, la raccolta di poesie Flower, Fist, and Bestial Wail. Da quel momento ha potuto vivere di scrittura grazie a cento dollari al mese, a prescindere dalle pubblicazioni e per tutta la vita, pagati dalla casa editrice Black Sparrow Press. Il successo tardivo è per Bukowski una fortuna perché gli ha dato il tempo di vivere abbastanza per conoscere l’umanità vera, quella degli stenti e dei bassifondi, quella che più lo ha ispirato. Bukowski scandalizza: misantropo, pornografo, alcolizzato. Compone tra un reading, una sbronza ed un amplesso. Nelle sue opere, ad ogni riga, si respira una forte sensazione di libertà randagia, una libertà contraddittoria che trasforma i vizi in straordinarie virtù, almeno solo per il coraggio con cui gli stessi non vengono celati dietro ipocriti perbenismi. Ogni notte si fa tardi con le bottiglie di birra che si esauriscono come sigarette, con l’urgenza della scrittura che si sveglia solo con il buio e rigorosamente con l’accompagnamento di musica classica, con donne che si danno festosamente al poeta soprattutto perché impazzite per le sue poesie maledette. Bukowski era un bastardo. Uno sporcaccione, ubriacone e puttaniere. Trasgressivo al limite della pornografia. Un collezionista di maschere cattive, buone per far la linguaccia a conformisti e radical chic. Viveva di scrittura e scriveva vivendo. Infilava i piedi in un bicchiere di vino rosso e passeggiando, tra bettole e ippodromi, dava vita a un romanzo in chiaroscuro, in bilico tra la realtà e l’esagerazione, barcollando sul filo sottile dell’ironia. Se ne è andato vent’anni fa, colpito da una leucemia fulminante e a dispetto della medicina e del buon senso non per una cirrosi. Resta un mistero cosa abbiano potuto tutti quegli elettroliti d’alcol filtrati da quel corpaccione sbilenco e ammaccato. Era un irregolare puro. Non era uno che strillava contro il sistema con la speranza di essere cooptato. Anche quando diventa un vip, rimane comunque il solitario di un tempo e continua a denunciare l’ipocrisia della società letteraria, marcando la siderale distanza dai salotti che contano. Ed è una cosa rara, se non unica. Perché spesso gli irregolari sono tali solo a tempo determinato, nella misura in cui essere contro è utile per conquistare un posto al sole e godere di una rendita di posizione. Bukowski, invece, non faceva desistenze neppure con chi poteva avere i suoi stessi nemici. Non ha fatto niente che potesse facilitarlo. Ha avuto un rapporto complesso col sesso: fino quasi a cinquant’anni ha avuto pochissime relazioni sentimentali e ancora meno sessuali. Da adolescente per lui le donne erano inavvicinabili, a causa dell’acne devastante che gli aveva sfigurato il volto. Essere povero e di origini tedesche, inoltre, non erano esattamente qualità seducenti. Le prime donne arriveranno con la popolarità di poeta underground, anche se ai suoi reading si presentano donne che, in larga parte, come ammette lui stesso, sono “donnacce e alcolizzate”. Così, dopo anni di repressione sessuale, a quel punto ci prova con tutte quelle che gli capitano a tiro e diventa un avventuriero seriale. Ma per quanto possa manifestare un approccio spregiudicato, si innamora e soffre. La sua è una scrittura cruda, feroce, acre che non accoglie il lettore in modo rassicurante ma lo trafigge con un mondo dalle tinte forti, dai toni scabrosi e a tratti rivoltanti. Bisogna avvicinarsi ai suoi libri in punta di piedi, con la volontà di andare oltre il primo impatto emotivo e lasciarsi trascinare da sensazioni forti. In Storie di ordinaria follia troviamo 62 racconti intrisi di dolore, rassegnazione e crudeltà. Leggerli permette di immergersi in una dimensione feroce della realtà americana, una dimensione in cui lo squallore della miseria quotidiana si fonde con lo squallore delle piccolezze umane. L’alcol è l’unico vero compagno di vita dei personaggi maschili, alter ego dell’autore. E’ un alcol che annega il dolore, che rende più disinibiti, un alcol che riempie la pancia facendo dimenticare fame e miseria: “la vita mi faceva semplicemente orrore; ero terrorizzato da quello che bisognava fare solo per mangiare, dormire e mettersi addosso qualche straccio. Così restavo a letto a bere. Quando bevi, il mondo è sempre lì fuori che ti aspetta ma per un po’ almeno non ti prende alla gola.” L’amore, per l’autore, è spesso una piaga inevitabile e incurabile, una contesa continua fra uomo e donna, per questo “se ci fossero discariche di rottami all’inferno, l’amore sarebbe il cane che ne sorveglia i cancelli, perché l’amore è un cane dall’inferno.” Per la sua opera ha sempre rifiutato con sdegno le etichette che gli venivano assegnate o ha sempre schivato il tentativo della critica di inquadrarlo all’interno di un determinato movimento letterario, anche se per il suo modus operandi è molto vicino al dirty realism, al realismo sporco. Si tratta di una varietà del minimalismo letterario, caratterizzato da un’economia di parole e stile. Infatti tipica del realismo sporco di Charles Bukowski è la disgregazione del reale e la frammentazione della quotidianità e dell’esistenza umana. Forse un genio, forse un barbone.
Rosa Paola Maiolo