Una delle mostre più complesse e interessanti nel circuito di Venezia è quella allestita presso Palazzo Grassi, intitolata “La pelle” di Luc Tuymans, curata da Caroline Bourgeois, visitabile fino al 6 Gennaio 2020.
“La pelle” è un titolo che apparentemente sembra richiamare lo strato superficiale che ricopre i tessuti interni del corpo, ma in realtà il corpo è solo un’effigie che cela il vero essere che lo contiene, divenendo a volte contenitore di esistenze dissacrate e distrutte, altre di veri distruttori privi di qualsiasi umanità.
La mostra intitolata “La Pelle” è curata da Caroline Bourgeois in collaborazione con Luc Tuymans e presenta una selezione di dipinti che vanno dal 1986 a oggi, provenienti dalla Collezione Pinault, da musei internazionali e collezioni private.
Lo stesso artista in un’intervista ha dichiarato che il nome non nasce a monte mentre l’artista dipinge, un artista produce seguendo uno spunto, un istinto, una sensazione e poi si lascia andare attraverso la tela per seguire, a mio dire, quello che Bergson chiamerebbe flusso di coscienza.
Ed ecco che entrando si trova un mosaico stupendo “Schwarzheide”, nome ripreso da un campo di lavori forzati in Germania, si tratta della riproduzione di un disegno realizzato dai prigionieri che poi veniva tagliato in strisce per nasconderlo dalla confisca.
Riprodotto nella sala d’ingresso come mosaico pavimentale in una forma monumentale, quest’opera coinvolge totalmente lo spettatore: corpo e vista; il primo camminando sopra e intorno e la seconda cerca di contenerlo ed abbracciarlo osservandolo, tuttavia la visione totale si ha solo osservando il mosaico dalla terrazza dell’ultimo piano del museo.
Ritornando al tema del corpo, inteso dall’artista come riferimento all’opera di Curzio Malaparte, iniziamo un percorso nudo e crudo verso le verità che giocano tra la pelle della tela e il nostro sguardo indagatore.
Esempio chiaro di questa chiave di lettura è “Body” un’opera che mostra olio su tela un corpo che sembra un manichino, i cui seni sono stati appena occultati, le didascalie sapientemente collocate ad accompagnare le immagini ci dicono che l’artista ha scelto una vernice che potesse deteriorarsi appositamente per simulare l’invecchiamento della pelle e del corpo.
Il corpo non presenta la testa quindi non può essere identificato, mostrandosi come un automa o un ibrido di un essere antropomorfo senza dignità.
La curatrice Caroline Bourgeois ci offre molteplici spunti di riflessione parlando di tessuto strappato come da una bambola spogliata, proponendo chiari riferimenti a traumi infantili, oppure rievocando il concetto di pelle morta, di una “inquietante estraneità” che destabilizza lo spettatore.
Nel romanzo di Malaparte le donne e gli uomini sono spogliati dei loro diritti e della loro umanità e nella mostra, in qualità di spettatori, veniamo privati dell’estatica contemplazione perché tra immagine e didascalia si crea una crasi.
Osservando l’opera “Recherches” a prima vista si vede una lampada e in seconda battuta si legge che si tratta di una scultura nazista creata con ossa di ebrei, prigionieri dei campi di concentramento.
Continua la dissacrazione dell’umanità trovandosi di fronte all’immagine riprodotta di assassini, stupratori e personaggi storici che hanno preso parte allo sterminio, come Albert Speer che appare con gli occhi serrati di chi non vuol vedere, in antitesi si ritrova il ritratto di Issei Sagawa, l’uomo che ha assassinato e cannibalizzato la sua compagna, la cui immagine è sfuocata fino a renderlo irreale, un fantasma dell’essere umano che ha perso la sua umanità.
All’artista è stato chiesto quanto fosse stato coinvolto dalle vicende storiche rappresentate e quanto se ne fosse distaccato in fase di creazione artistica, ma è chiaro che la dimensione umana e artistica non possono prescindere dalla funzione dell’arte di parlare; la condizione di spettatori di volti di bambini uccisi permette anche di poterne rievocare la memoria.
La domanda “quanto l’artista si sia lasciato condizionare dai fatti storici e quanto distaccato artisticamente” non ha avuto una reale risposta da parte dell’artista, ma la vita insegna che “scripta manent” quindi anche se a qualcuno appare freddo, crudo e difficile da accettare, la condizione di spettatori di questo teatro degli orrori ci rende anche testimoni, così da non dimenticare tali scempi e fermare emulatori.
Quello che viene proposto è un micro e macro sguardo sulle cose, a volte distaccato e asettico, altre volte costringe la riflessione e insinua il dubbio su cosa e se fosse stato possibile fare qualcosa.
L’artista si avvale di espedienti tecnici che dichiara apertamente, come l’uso dei contrasti cromatici più legati alla televisione, in particolare al tecnicolor, che alla vera pittura, ricordando la sua formazione impregnata di pittura francese, avendo studiato alla Sorbona.
Interessante la percezione della pittura che offre, poiché ad un occhio allenato alla cromia barocca salta il confronto con Caravaggio, ma Tuymans sfata questa correlazione in quanto i pittori da lui ammirati sono quelli francesi e la pittura francese parte da una visione completamente divergente, in quanto, a dire dell’artista “Caravaggio parte dal buio per porre luce” mentre la pittura del nord Europa “procede dalla luce al buio”.
Descrivere tutta la mostra è difficilissimo perché è un insieme di mondi, ma se volessi trovare un filo comune sicuramente troverei lo sguardo, lo spettatore guarda e a volte è costretto a guardare in faccia degli assassini o le conseguenze dei loro atti, altre guarda realtà sfuocate o diafane o a sua volta è guardato dall’occhio di un piccione e ancora l’occhio si trasforma in grande fratello.
La tematica dello sguardo come focalizzazione continua sui volti sfuocati, sovraesposti alla luce, nature morte giganti dentro le quali l’occhio si perde e lo spettatore entra come partecipe della scena.
In opere come “Strada serrata” che mostra visioni notturne o “Allo! I”, l’artista sceglie l’effetto di fotografare la scena che appare sullo schermo televisivo, agendo con un primo filtro fotografico che si frappone al filtro filmico aumentando il distacco tra osservatore e realtà per accentuarne lo straniamento e giocare sui contrasti.
Con questo espediente tecnico la posizione dello spettatore è complessa poiché egli assiste alla riproduzione di un fatto già accaduto e passato ma del quale non può non negare l’esistenza, a metà tra il ricordo e l’incubo, impotente nello spazio e nel tempo.
L’opera più significativa, a mio dire, che gioca sui temi principali: sguardo, spettatore, luce e contrasto è “Toter Gang” che rappresenta la porta d’acciaio che dava accesso al bunker di Hitler a Berchtesgarden, prestata allo spettatore come un elemento nero al centro, a sua volta avvolto da un alone di luce; chi guarda non può vedere l’interno, oltre la porta, ma solo immaginare.
Ed ecco che nuovamente lo spettatore rimane impotente davanti ad una realtà che storicamente è accaduta ed ha segnato l’umanità.
Dietro quella porta tutto era possibile, ma lo spettatore e l’artista stesso sono così impotenti da restarne fuori.
Ombretta Di Bella