Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana
A nessuno può pace. Devono sbatterci la testa le donnine, su Aida, sull’uomo che l’ha messa incinta, il rivoluzionario di chissà che rivoluzione, ci sbattono la testa come su una poesia che non capisci, che leggi e rileggi strofa per strofa e le parole non escono fuori. Devi dircelo vecchia, e senza imbrogliare come fai sempre, così dicono le donne del quartiere, che parlottano dalle finestre tra un lavoro e l’altro.
La vecchia serva pensa che il suo mestiere è la serva, e perciò l’imbroglio. Io non imbroglio, dice, e non ho mai imbrogliato i miei padroni.
Alcune cose non è necessario capirle per amarle, come succede per una poesia, e non è necessario neppure siano vere. Lei s’è fatta ingravidare? pensano le donne. Eppure conosceva gli uomini! Nudi li conosceva, come vengono dal ventre d’una madre, come tornano nella terra che è ventre d’amore e tomba d’amore. Nudi come sono, come ognuno si scorda d’essere sotto i vestiti d’ogni giorno. Noi donne conosciamo gli uomini, più nudi.
Ha sbagliato, la mia padrona, con quell’uomo. E’ così facile sbagliare!
E’ così dolce, pensano le donne tra un’occupazione e l’altra.
Non doveva farlo.
No, scuotono la testa tra un lavoro e l’altro.
La vecchia serva fa un tiro di sigaro in un angolo di labbra, non doveva farlo, però il cuore sbaglia, sbaglia sempre. Avete presente il gioco delle tre carte al mercato? La carta non esce mai, perché sennò che ci guadagna chi ha impiantato il gioco, e i suoi compari? Si insegue una carta, e quella non spunta mai. Perché c’è chi gioca di mestiere, e non ci si vince mai contro di quello. Lo sapeva Aida, e puntava lo stesso, caparbia. Perché lo era, caparbia. Vera padrona. Così inseguì la carta impossibile, e la tentò con l’uomo impossibile. Che pensava? Di fargli scordare le bombe da gettare ai padroni? I padroni sono caparbi, non cambia nulla. Anche Aida lo era, caparbia e padrona. Lascialo perdere, le dicevo, quel genere d’uomo non è uomo per donne.
S’è fatta ingravidare proprio da quello!
La serva scuote la testa, non capisco, non so. Neanche una serva sa tutto. Ci pensate? divaga. Ci passa tutto addosso, i giorni, i fatti, gli uomini, sopra di noi donne, e non rimane niente, una donna, una vecchia, e una serva, se ne accorge. Ci pensate? Non so, non so perché Aida ha sbagliato. Ma l’avete mai sentita la vita passare addosso? Io sono vecchia, la sento. Però anche Aida deve averla sentita, passarle addosso con la pelle di quel giovane, e sfuggire, chissà. Chissà, ha tentato d’afferrarla. Povera Aida, non si afferra la vita! Neppure una padrona caparbia ce la fa. Poteva avere denari e brillanti, e invece sceglie le bombe. Avete mai visto un brillante?
Certo!
Dico, da vicino, poveracce che siete, maledizione alla miseria delle poveracce!
A noi non manca niente! Non siamo poveracce, e non ci manca niente, s’offendono.
Vi manca di capire di lei e di lui.
Lei s’è sbagliata, l’abbiamo capito, dicono le donne ancora più piccate, e lui?
Lui, lui, quel tipo, rimugina la vecchia.
Aida è puttana, lui lo sapeva.
La mia padrona… rimugina la donna, lui… Un brillante – l’avete visto? – cento facce, e ognuna non vede l’altra, inutili. Siamo tutti così. Dov’è l’altra faccia tagliata vicino? Lui, lei… erano così, quei due non vedevano neppure la loro stessa faccia.
Così….?
Non volevo, non avrei voluto stare appresso ai loro guai, ma questo tocca ai servi e ai vecchi, riparare! Sbagliano, e sbagliamo con loro, maledizione, ripariamo per loro! Forse ci piace, che ne so? Non sa tutto una serva. Una parolaccia tra il sigaro e le labbra.
Com’è stato tra loro?
Lei ci pensa, ricorda solo un sentore di gallo nella loro stanza, quello è il ricordo più vivido, e doloroso. Lei l’annusava mentre rifaceva il letto, annusava avida le loro lenzuola. Vestitevi e andate da un’altra parte, voi due, si lamentava la serva, lo volete rifatto il letto? I due ridevano nudi. Ce ne andiamo, lui prendeva la pistola, lei apriva la finestra all’aria aperta, respirava a seno nudo al sole del giorno. Lui le si metteva al fianco, rideva, anche lei rideva. Questo ricorda la vecchia, l’odore di gallo nella stanza, che le diventava senza scampo nel petto, ricorda le risate d’un uomo e una donna, risata in due da spedire all’aria e al sole della finestra. Sono libero, scherzava lui affacciato alla finestra. Da che? scherzava lei. Io esisto, tu esisti, lo sguardo di quel farabutto rideva, poi era serio come nei momenti in cui parlava di popolo e d’oppressione, disperato come nei momenti in cui parlava di rivoluzione, poi quello sguardo rideva un’altra volta, voglio essere pazzo. Sei già pazzo, diceva lei arruffandogli i capelli. Sono già libero! E io solo pazza, diceva lei. Sono pazzo, ho una pistola, non hai paura? Non sai nemmeno a chi sparare. Lo so, lui faceva il gesto di sparare, al tetto, al muro, dalla finestra, per strada, devo sparare a tutto, a tutto quello che voglio bene, e voglio bene tutto! Sei pazzo. Sì, rideva, era serio. Sei confuso, ecco! A questo lui non ribatteva. Sono pazzo, sì, ma non voglio mai pensare come i savi, pensare a metà, rischiare a metà. Sei confuso. Lui negava con il capo. Su di me sei confuso? Lui negava un’altra volta con il capo, più piano, più ironico. Voglio che butti via la pistola, tutti i marchingegni che tieni per costruire le tue bombe e diavolerie. La bomba è un’idea, recitava lui roboante, scoppiava a ridere, è un amore, Aida! Tu vuoi che io pensi a metà, che senta a metà, Aida mia! Lei vuole che campi come tutti i cristiani! sbottavo io sfaccendando. Campo come la tua Aida, cara la serva di padroni, rideva lui, campo come te, un pidocchio, campo di rivoluzione, soldi di compagni, compagni del porto, e contadini delle campagne dove comanda la mafia e i brigadieri, mi danno da mangiare i lavoratori delle città dove i ricchi li spolpano, e i politicanti e sindacalisti li ammansiscono, mi dai da mangiare tu, mia cara, qualcuno mi dà da mangiare, mi dà un letto, qualcuno mi passa la polvere da sparo per la mia bomba, la annuso ogni mattina quando mi alzo, questo è l’odore della rivoluzione mi dico, l’odore della giustizia, non ce n’è altri.
Io sentivo solo sentore di gallo, mormora adesso la vecchia serva. Ci gioco con la mia bomba, diceva lui. Ci giocava come un bambino. E tu, che dai loro in cambio, a chi ti campa? chiedeva Aida, solleticandogli l’orecchio con un labbro. Nulla, per te il mondo va soltanto in un modo, non do niente, non ho niente da dare, questo corpo, questa faccia, questa idea, me stesso, come te, siamo uguali, Aida. Lui diventa serio, forse pensa che non ha niente da dare neppure a lei. Non sei uguale a me, grazie a Dio, l’abbraccia Aida. Insomma ho finito, sbraito, e siete rimasti qui a tenermi il filo! Lasciaci, mi sussurra Aida prendendomi il braccio. Quanto tempo abbiamo? chiede a lui. Non lo so, risponde quello. Non lo so, dice lei e piglia a baciarlo. Me ne vado, dico io, ho capito, me ne vado. Però me ne andavo a fatica dalla loro stanza, odore di gallo nel pollaio, e mi veniva di piangere sulla scala, senza ragione. Ma le serve non piangono.
Che è stato di lui? chiedono le donne. Ogni storia deve avere una fine.
La vecchia guarda il nespolo del cortile, è seccato lì in mezzo, tra una pozza di terra ammuffita, è nato per caso, non piantato da nessuno, è cresciuto e seccato. Le serve non piangono. E’ finita male, avevo ragione io, le serve hanno sempre ragione. Un giorno lui arriva con le penne di gallo arruffate, mi cercano, mi cercano, nascondimi! Aida l’avrebbe nascosto nella sua pancia, e non sapeva che già ce l’aveva, quello lì, nella pancia. Sì, sì, dice lei senza senno. La radio straparla, notizie, una bomba. Lui la spegne. Dio mio, mormoro io. Le serve hanno più testa dei padroni, lascialo perdere, Aida. Nascondimi! Sì, sì, già lei dice sì, e lo abbraccia, lo nasconde dentro la vestaglia, stupida, come una madre nasconde un bambino spaventato. No, c’è la polizia, dico io, le sirene, vengono qui! Scappa, scappa! Scappo, ci vediamo, ci vediamo, dice lui. E s’attarda, continua a restarle abbracciato. Scappa! lo spinge lei. Scappo, lui si stacca. Le sirene sono più vicine. Lui scappa, e le lascia una macchia di rosso sulla vestaglia, una rosa che perde i petali, rosa d’amore. Dio mio, dico io. Aida si tocca quel rosso, se lo passa sulla faccia, se lo ripassa sulla faccia. Dio mio, dico.
Morto, vero? tremano le donne.
Stramorto! Non so se gli è scoppiata la bomba mentre la preparava, come una beffa – ci scherzava, no? – o mentre la tirava addosso al suo nemico come un eroe – che eroe? – oppure l’hanno ammazzato i carabinieri e la polizia, o i compagni traditori, o i compari di mafia come un topo qual’era. Quelli finiscono in questo modo, e non importa chi l’ammazza. Ho visto una foto di lui, morto stecchito, sul giornale, le braccia larghe, e il suo rosso nel petto. Rosa rossa, rosa d’amore. Aida non doveva vederla, e non l’ha mai vista, quella foto, non l’ho permesso. Tocca ai vecchi e ai servi riparare, maledizione. Mi ricordo, quella foto, lui non aveva l’espressione dei morti, quella malvagia che hanno, semmai la stessa allegria e la stessa confusione di bambino, la stessa gioia maledetta di quand’era vivo. O forse ricordo male. E’ così difficile ricordare. Ho chiuso il giornale, e l’ho bruciato.
E lei?
Quando gliel’hanno detto, e non sono stata io a dirglielo, maledizione, quando gliel’hanno detto, mi è rimasta quieta, come non parlassero a lei, come non parlassero di lui. Scaccerà via sempre chi gli dirà è morto, è morto, chi si gusta certe parole. Finalmente quieta la mia padrona. Però, si teneva il ventre, come dovesse perdere anche quello, libero e pazzo per il mondo. Così sarà, di sua figlia, la perderà, la figlia di quell’uomo, non poteva essere diveramente. Lei se lo teneva, il suo amore, e pensava, niente si perde nel mondo, forse ci credeva a chiudere gli occhi. I padroni non hanno testa. E ogni tanto si toccava la faccia quasi a passarsi ancora addosso quel rosso di rosa sfiorita.
L’ha vegliato morto tutta una notte, dicono. Aida l’ha composto su un tavolo d’osteria, l’uomo ammazzato a coltello, e l’ha vegliato tutta la notte. Nonostante non fosse il suo uomo. O lo era? Il cantastorie non c’è e qualcuno inventa al posto suo.
Non cambiare la storia, anche tu!
Il morto era steso su un tavolo d’osteria, ma lei lo compone, come si apparecchia la notte di natale, per la festa dell’anno. Però le gambe del morto non entrano nel tavolo, e lei le piega fuori, la testa cade indietro, e lei la raddrizza. Inutile puntellargli le gambe a una sedia. Si piegano, rigide come legno, morte e disumane, si piegano un’altra volta come fossero vive e dispettose. Inutile metterle dritte. Inutile raddrizzargli la testa, reclina un’altra volta. Aida accomoda il morto, ancora. Veglia, e pensa. Ne aggiusta ancora la morte, almeno, e intanto pensa, o piuttosto sogna, uno di quei dormiveglia a metà tra il pensiero e il sogno, tra la coscienza e no, tra l’amore e il dolore, come a dire tra mare e terra, come a dire una barca in mare, con quella stanchezza che non fa riposare. Ha stranezze in testa, come voli di gabbiani. Fossi dio, se io non fossi Aida, ecco sei vivo, direi, ecco, alzati, sei vivo, un dio deve farlo il suo mestiere, come un uomo deve guadagnarsi il pane, e sbranarselo se ha fame. Ma un dio non deve aver fame, come ce l’ha un uomo, alzati. Alzati, queste gambe, questa testa, magari mi dici, che ci faccio su un tavolo? Che gioco è? E tu, tu chi sei, tu? Sono Aida, cioè no, sono… Sei dio. Sono dio che non ha fame. Sei dio, mi dici, che mi respirerà sempre accanto quando dormo, e mi toccherà le gambe con le sue calde di sonno, e vi s’attaccherà con i suoi piedini d’edera, mi accarezzerà la testa nel sonno. Aida aggiusta ancora la morte, la testa e le gambe del morto. Se fossi dio, pensa, io e te dio, tu e io uomo e donna.
La cambi! protestano gli altri tra i tavoli e il vino. Però, quello non lo fa di professione, raccontare storie! C’è chi racconta che è stato l’assassino a vegliarlo, l’uomo ammazzato di coltello, proprio lui l’assassino. Sei morto, gli diceva l’assassino, sei davvero morto, ci sono riuscito. Aveva di nuovo il suo coltello in mano, e lo ripassava sulle ferite, lo intingeva nelle ferite ancora fresche di sangue. Come scivola! Come una barca al vento, è come filare in mare a vele gonfie, un piacere di vento. Se fossi dio… io lo sono… se potessi farti sentire ancora questa lama nella carne, farti sentire il sangue che ti sbotta, se tu potessi farmi sentire il sangue che annega il mio coltello, la mia mano. Come filare al vento, alla corrente che porta. Vorrei accarezzarti con questo coltello, e ferirti, lavarmi al tuo sangue, ancora… sono dio. Invece, sei morto, maledezione, sei un trancio di pesce al banco. Maledizione! Che dio sono se non posso ammazzarti due, tre volte, mille, farti male, ma dolce, sentire il vento sulla mia faccia! Così dicono nell’osteria. E il sussurro di chi beve riprende un pensiero, quanti ce ne sono morti in groppa alla terra, li tiene la terra, o li fluttua il mare annegati, incagliati, come relitti, quanti ne abbiamo, morti, in groppa alla schiena, o fluttuanti nel mare, nostro mare. Qualcuno si gira a guardarseli sulle spalle, a cercarli nell’acqua, ma non li riconosce, e questo è male. Il mormorio di chi beve e ascolta ha la parola del vento di mare in alto mare, è fruscio di lenzuola di sposi una notte di quiete.
Arrivano nuvole di zanzare nell’aria, e sale marino dal porto, fin dentro l’osteria. Io li ho sentiti, i morti, soffia d’un tratto l’ubriaco che racconta le storie per non ricordare le proprie.
Hai visto gli spiriti?
Vorrebbe dire di sì, si guadagnerebbe pane e vino come un cantastorie. Già li gusta tra lingua e palato. Dovrebbe inventare, e bere e mangiare a sbafo. Invece è sincero, non racconta per professione o per piacere, non li ho visti, però li ho sentiti, i morti, questo sì. Non è una frottola, bisogna avere orecchie per sentirli. Io li ho sentiti, una notte, tra lo scirocco che viene da mondi lontani, e quella voce era canzone e tristezza. E io vi dico che quello scirocco non veniva d’Africa o da mari lontani, ma direttamente dal cuore della terra come il soffio d’un vulcano, direttamente dai morti sotterra, scheletri e cenere, terra come la terra, cuore di terra che non muore, e vuol cantare. Dio me ne scampi, m’è venuta voglia di cantare con loro, di articolare la mia gola con loro come fosse morta e sepolta come loro. C’è pane, vino? L’uomo rigira il fondo dell’ultimo vino che è riuscito a pagare, e le melanconie svaporano dal bicchiere. Ma il vino resta attaccato alla parete, vino rosso, e quel vino invischia il cervello ubriaco. Voleva ammazzarsi Aida, mormora l’ubriaco nell’oscurità d’osteria, dicono che voleva ammazzarsi. Voi lo sapete? C’è caldo e le zanzare appiccicano. Voleva ammazzarsi Aida quella notte di veglia. Se non sono dio, voglio essere la morte.
No, schiamazzano gli altri, piuttosto ha fatto festa in osteria.
Con il morto steso sul tavolo? biascica l’ubriaco.
Piuttosto ha litigato a pugni quella notte, e ha fatto mattino in spiaggia, ha fatto l’alba con un ragazzo che suona e che balla, con un uomo che mormora alle orecchie di donna. Ha cantato tra la luna e il mare, ma non erano canzoni di spiriti. Ha ballato. Danze di zingari e ladri di bambini. Ha aspettato il sole che sorge come un giorno arrivò la cometa di Dio. E ha fatto l’amore con l’uomo o il ragazzo, con tutti e due insieme, all’alba del nuovo giorno.
No, voleva ammazzarsi, biascica ancora l’ubriaco dell’ultimo vino. Segarsi un polso, polso di latte, gettarsi da un molo, mare ruggente d’inverno, sentire il sangue andar via come il vino che scende nel vuoto del corpo, sentire il mare coprire come il vuoto del giorno. C’era un futuro in lei, di qualcuno. Se non sono dio, sono la morte! Ma la vita non ce la fa a morire, non ce l’ha fatta, la vita è pietra, e una pietra non sa né vivere né morire.
Lei era già incinta, dicono in un pensiero incosciente.
L’ubriaco poggia i gomiti e si tiene il mento – ci si sporca la giacca sul legno del tavolo, perché il vino nei tempi l’ha inzuppato, e l’ha reso tenero e zuppo come appena tagliato da un albero vivo – Si caccia una zanzara dalla faccia con un gesto impigrito. Una donna è terra d’orto, gravida, per un istante, una beffa ordita apposta, e alla fine è pietra come ogni vita. Scoglio in mezzo al mare per affondare una barca.
Una donna è orto buono, e pietra quando vuole, questa è la verità, recita la vecchia serva di Aida sgusciando inavvertita tra gli uomini dell’osteria. Continua un discorso fatto chissà quando, chissà con chi. Qualcuno si tocca la tempia con un dito indicando con gli occhi la vecchia, l’ubriaco. Una pancia di donna è terra fertile, e che terra, dice la serva, dovreste saperlo, dove siete nati?
Nessuno t’ha mai messo incinta, che ne sai tu? ridono sgangherati.
Se una pancia di donna fosse pietra non ci sarebbe nessuno di voi a spendere qui i vostri soldi e arricchire muso di porco, ride anche la vecchia. Pietra e campo, tante volte, campo arato, campo da arare, e masso che non si sposta, enorme come nessun masso.
Ridono. Tranne l’uomo dell’ultimo vino, dell’ultima storia, ha avuto un dolorino al fianco l’altro giorno ed è stato dal dottore, poi da un altro, da un altro ancora, ci si perde con troppi dottori.
Così è stato per Aida, dice la vecchia.
Così, se lo dici tu! Si toccano con un dito la fronte.
Che fai tu? l’uomo dell’ultimo vino. Ce l’hai con me? Io sono pazzo? Ti spacco la faccia!
Certo, certo!
Ti spacco la faccia!
Vola una bottiglia. Maledizione! Ne vola un’altra. Maledizione! Scoppiano i vetri. Muso di porco piega il labbro animale, maledizione, è appoggiato al bancone, maledizione, resta fermo con i due gatti, ancora attorcigliati al collo per un momento. Maledizione, muso di porco bestemmia nella mente, è immobile, ma è pronto a ripararsi, ad afferrare una bottiglia se c’è il caso di difendersi. I gatti invece balzano via, furbi e allenati. Già qualcuno ha rovesciato un tavolo, un altro s’è lanciato, qualcuno è scappato. Una sedia per aria, un grido, altre grida, un’imprecazione. Un istante, e nessuno sa perché è cominciato, nessuno sa con chi ce l’ha, pugni e calci, ruzzoloni d’ubriachi. Nessuno sa perché s’incarognisce, è inevitabile, le mani si chiudono da sole a pugni, per rompere le ossa, i calci mirano dove fa male, i denti mordono dove è più morbido, si rovina in terra senza equilibrio. Ruzzolano in due gli ubriachi, abbracciati come a fare l’amore. Un collo di bottiglia, un segno di sangue, un urlo, un lamento, un calpestio, adesso gli uomini sono un viluppo indistinguibile.
La vecchia serva ne è fuori, lei è vecchia, e furba come i gatti, lei s’è seduta e fuma tranquilla il suo sigaro. Nel fumo di quel sigaro c’è Aida, l’hanno ricordata anche a lei, Aida e il suo pancione gravido. Aida se lo culla, gli parla, s’alza la gonna su quel pancione e ne fa una palla rosea per il sole del cortile. Ho voglia di gelsi, dice. Cercami i gelsi. Non se ne trovano, Aida. Ho voglia di gelsi, e di sole, sono felice. Hai un bel pancione, padrona mia. Trovami i gelsi neri, voglio macchiarmi le mani e le labbra. Non li trovo di sicuro. Nascerà con la voglia. Gliela faremo cancellare dalla maga, padrona mia. Aida sorride, non crede alle magie, hai ragione, dice, esiste una magia. Aida parlotta al suo pancione al sole. E’ la filastrocca che t’ho insegnata da bambina, s’accorge la serva. Vammi i prendere gelsi neri. Gelsi di sangue coagulato, macchia di gelsi neri per un bambino che non dovrebbe mai nascere, pensa la serva. Ci vado, ci vado, Aida, digli quella filastrocca, fagli compagnia, fallo ridere, quel bambino, i gelsi sì, torno subito. Cos’è subito per una serva? La vecchia aspira più profondo il suo sigaro, dentro i polmoni. Se ci fosse Aida, se Aida fosse lì, ritta come una vela al vento, si butterebbe nella rissa come nel mare in tempesta, per misurare le onde, per battere i remi, e la prua, e puntare grondante dal gorgo il lampo della tempesta. Mi piacerebbe, anche a me, se non fossi nata vecchia e furba.
D’un tratto com’era cominciato s’acquieta. Si trovano tutti per terra, gambe larghe. Cos’è stato? Finisce a lite quando si parla di Aida? C’è silenzio, e nel silenzio un gatto si lamenta.
Maledizione agli ubriachi, mastica muso di porco, chi rimette a posto? Chiama i suoi gatti con un sibilo.
Ma che aveva di speciale una puttana? sbigottisce nel silenzio il più giovane, il meno ammaccato dalla baruffa. Aida è morta, è un tempo distante, tempo inesistente, come tutti i tempi passati anche solo da un’ora, passati e incomprensibili, inesistenti. Eppure si litiga parlando di lei, d’una puttana.
Qualcuno scuote la testa, toccandosi dov’è più malconcio.
Al diavolo, rimbambiti che siete! il giovane si massaggia una mano.
Gli altri si mettono in piedi a fatica, ancora senza equilibrio. Chi è rimbambito? Ma sono stanchi per ricominciare a menare le mani. Adesso non lo sanno davvero, che avesse di speciale Aida. Forse non vale neppure la pena di capire, forse è un’invenzione Aida, un pretesto, oppure è morta da così tanto, in un tempo inesistente, che è proprio questo a renderla speciale. Sono stanchi. Ma poi le zanzare della notte sono nuvole appiccicose nell’osteria, e fuori i randagi latrano, e girano a vuoto attorno alla notte di scirocco. Ma poi si suda, di più con il vino, di più a litigare. Non resta che accordarsi al latrare d’altri animali, e latrare al sudore della notte.
Lo faceva bene, l’amore, almeno quello? sghignazza il giovane che non l’ha conosciuta, accarazzandosi le nocche. Vino, muso di porco!
Sì, le voglie d’amore, le indovinava, le anticipava, farfugliano tutti illuminati come abbiano risolto ogni problema. Le esaltava, e le bruciava. Come i soldi che le davamo, stirati con una mano più volte e posati sull’altare del suo comodino. Già magia e cenere sul suo comodino, nelle sue mani. C’era sempre un bicchiere con i gelsomini sopra quel comodino – ricordate? – là, nella sua stanza sopra il tetto.
Faceva la finta come tutte le puttane! sghignazza ancora il giovane.
Gli altri scuotono la testa, non sanno più, sono stanchi, ammaccati. Veramente, lei non gridava o sospirava come le altre, ricordano. E non metteva fretta come le altre, a nessuno, non buttava fuori dalla sua stanza dopo aver finito. Aspettava che gli uomini si staccassero da soli dal suo letto, dal suo profumo di gelsomino. A riuscirci! E se non ci riuscivano lei non mandava via nessuno, accarezzava tutti come bambini, perché lo erano bambini, li accarezzava come uomini, perché lo erano, uomini. Finché allora scappavano davvero via. Forse tu lo sai che aveva Aida di speciale, vecchia, tu eri la sua serva!
Ma la vecchia serva continua a guardare il fumo del suo sigaro senza intelletto.
Avremmo dato la vita per lei, dicono.
Ma certo! il giovane. E’ il vino che fa parlare. Vino!
L’avremmo difesa!
Certo! il giovane. Non la gonfiavano di botte i suoi padroni? Non le avevano tolto la figlia? Chi l’ha difesa? Dicono che stava ore con la faccia tra le braccia e gli occhi vuoti.
Pagheremmo per sapere che passava nei suoi occhi, biascicano senza intelletto gli ubriachi. Forse era pianto? Un pianto che non scioglie. Non l’abbiamo mai sentita piangere. Pagheremmo per il suo pianto. Qualcuno racconta di averlo sentito ora che è morta. Un pianto, di notte, lontano, d’anima del purgatorio.
La canzone triste degli spiriti, mormora l’uomo dell’ultimo vino. Miagolano i gatti nel silenzio che dura.
M’hanno detto che mordeva certe parti, certe volte, per rabbia, ghigna d’un tratto il giovane contro il silenzio. Magari credevate fosse amore, voi rimbambiti, vi diceva ch’era amore?
Gli altri rabbrividiscono. L’abbiamo difesa? si confondono. O le abbiamo fatto male, più di chi la picchiava senza segni, senza rovinare la merce?
Una puttana! taglia il giovane. Non ha mai neppure pensato a sua figlia.
S’è venduta i capelli per sua figlia, per pagare le guardiane del riformatorio, mormora la serva tra il fumo di sigaro.
La picchiavano, e non l’abbiamo difesa, tu non esisti le dicevano, ma noi non l’abbiamo difesa. Picchiavano duro, Dio mio, la picchiavano, ripeti, sono niente, io sono niente, io non esisto. E noi a guardare.
Chissà se l’ha mai detto, io non esisto, pensa l’uomo dell’ultimo vino, chissà se è pietra, dio, o veramente uomo e donna. L’uomo rimescola il fondo vischioso del suo vino, un rimasuglio che macchia come sangue, macchia anche il vetro che non si macchia. L’uomo ha parlato con troppi dottori, pensa fissando l’ultimo vino. E il doloretto è rimasto, tale e quale come lo scherzo d’una donna gravida, o la pietruzza nella pietra. Anche dopo una rissa da ubriachi. Parole di dottori, opinioni, e una canzone di spiriti tra il sudore dello scirocco. Forse Aida è una canzone di spiriti che vorrebbero vivere la terra che non hanno vissuto.
Una puttana non esiste, ridacchia il giovane, Aida non esiste.
Si suda stanotte, pensano nell’osteria. Si suda a litigare. Qualcuno guarda dalla porta. Arriva l’alba fuori, adesso le zanzare scompaiono, e il sudore buio e maledetto della notte diventa il caldo e lo splendore del giorno d’estate. Qualcuno lo dice come un annuncio, è giorno, è estate.
E’ estate, guardano dalla porta. A volte non c’è bisogno di vino per le tristezze, e a volte non c’è bisogno di vino per ridere senza ragione. A volte l’estate è così gonfia di sole che non c’è bisogno d’altro. Magari non succede ogni giorno d’estate, e magari non si capisce quando succede. Però a volte il sole fa scoppiare la pelle, fa brillare la pelle degli uomini come pesci nell’acqua. Come brillano un’erba o una pianta, una lucertola sul muro, i pesci rondine a pelo d’acqua. Allora anche un pensiero è pesce in volo, brillio al sole, anche un ricordo prende ali di farfalla, ali di plastica, iridescenti. Sono tutti amici gli uomini in quel momento, anche se si sono picchiati un attimo prima. Non ha mai detto di no Aida. Sul suo letto, o sulla spiaggia. Andiamo tutti in spiaggia! Tra sabbia e cespugli spelati, è mattino adesso, mattino d’estate, aria salata, e sole che scoppia dentro la pelle. Non ci si ripara dal sole. Certe mattine si deve arrostire e scoppiare come una salsiccia al fuoco, per essere felici. Andiamo a fare il bagno! Come allora. Lo facevamo con lei, con Aida. Andiamo, andiamo! Lo facevamo nudi, e Aida correva tra noi, più nuda di noi, più brillante di noi. Era la prima. Come il primo raggio di sole che sfila alle nuvole, e trova sempre spiraglio, la via, il suo palcoscenico da teatro. L’estate non si ferma. Nudi, lo facciamo nudi! Come allora. Nudi, senza vestiti. Nudi, senza pensieri. Sì, anche se adesso non c’è più Aida, e abbiamo una pelle che non riusciamo a toglierci di dosso. Anche se abbiamo peli bianchi come i vecchi e pelle rugosa come i neonati. Ci vergogniamo? Buttiamo via i vestiti! Come allora, inutili e pesanti, leggeri. Anche se adesso le camicie sono piombo, e dobbiamo ripiegarle, le pieghiamo per il loro verso impossibile, le posiamo dove non si sporcano di pece. Andiamo, andiamo! Mammelle avvizzite, fianchi sfiancati, e genitali sgonfi. Non importa. Oggi guardiamo le vele partire senza di noi al mattino, e sparire all’orizzonte. Le restavano nelle pupille, ricordate? Non aveva gli occhi vuoti Aida. Andiamo! Lei, non era mai triste, vi ricordate? Felice come non sono mai le puttane. Come sono solo le puttane. Si rotolava con noi nella sabbia, come non fanno le puttane. Lei aveva tempo. Non era come le puttane che non hanno mai tempo. Noi invece non abbiamo più tempo. Da quando lei non c’è più.
Anche l’uomo dell’ultimo vino è venuto sulla spiaggia, trascinato, anche lui è nudo, e s’è fermato a riva tra un’onda morente ed una che arriva, su di un limite senza senno. E’ venuto anche il più giovane, andiamo, andiamo, in acqua!
La storia è cominciata su questa spiaggia, Aida è cominciata qui, dicono girando al sole. Dev’essere ancora qui, pensano, è qui tra la sabbia e l’acqua di mare, tra i gusci di cozze, le alghe, e i pesci del mare, tra la sabbia e l’acqua, tra il cielo e le nuvole, tra la luce del sole d’estate. Meravigliosa estate! Lei non ci ha mai detto di no. Lei non ha mai detto di no.
Rispondono i cespugli piegati dallo scirocco, bruciati dallo scirocco.
A pensarci è finita così come la notte di veglia alla morte, sangue e lite la sera, e mattino sulla spiaggia, uguale tranne l’amore.
(Continua…)