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Ultima fermata Astàpovo

Eppure una soluzione ci sarà, che io lo voglia o no, e sarà sempre diversa da quella prevista. Sì, sì, pensa solamente a non peccare. Poi sarà quel che sarà. Trovare soluzioni non è affar mio.

Alle ore 6 del 28-10-1910 il conte Lev Nikolàevich era pronto. Il proposito che lo martellava dalla sera prima, e che lo aveva portato a riesumare il vecchio bagaglio, ora continuava a scavare approfondendo l’alveo di quella fuga, continuamente evocata e mai portata a termine. E affrettava l’attesa, con la passione di sempre. La moglie dormiva ed era meglio che continuasse a dormire, anche se era d’obbligo tremare al pensiero che la stessa intuisse l’inquietudine del marito e venisse fuori con una delle solite scenate. Ma la nera notte che lo accompagnava non gli era favorevole e, uscendo nel buio, Lev Nikolàevich finì per pungersi nel folto dei cespugli. Tolstoj continuò a tremare fino all’arrivo della figlia Sasa, accompagnata da Dusàn Makovickij e dalla copista Varvara. La partenza venne decisa in direzione di Jasènki-Scokino.

Il viaggio, da Jasnaja Poljana alla stazione ferroviaria di Jasènki-Scokino, era di sei chilometri e per tutto il tempo Lev Nikolàevich restò muto. Fuggiva da casa con lo stesso rimorso di un ragazzo che l’abbia combinata grossa. Ma sulla sua carrozza sentiva strettamente annodati i temi della sua vita di scrittore: le mete di felicità come gli oscuri drammi dei viaggi in treno. Dove si potrebbe andare per essere lontani? Correva verso il sud per essere felice, in realtà si portava dentro il dramma della sonata a Kreutzer.

Il suo mondo era una prigione e Lev Nikolàevich fuggiva da questa prigione. Fuggiva da sé stesso, pur sapendo che era impossibile fuggire da sé stessi, perché era improbabile fuggire dal passato pensando solo al futuro. Prima delle sette del mattino arrivarono alla stazione di Jasènki-Scokino e scesero dalla carrozza portandosi dietro tutti i bagagli. Bisognava a questo punto decidere quale direzione avrebbe preso la fuga. E da Scokino si potevano intraprendere tutte le direzioni: prendere un treno per Tula e raggiungere Mosca, per andarsene all’estero, oppure scendere al sud verso Kharkove e da qui proseguire verso Sebastopoli e la Crimea, avamposti della sua giovinezza, oppure andare verso ovest per raggiungere sua sorella Marija. Avrebbe anche potuto raggiungere l’isba di un qualsiasi contadino, facendo perdere le sue tracce al mondo che lo inseguiva.

Mi è divenuta insopportabile la mia situazione, quella di un uomo che ha coscienza di quanto gli pesi la vita [dei ricchi tra i miserabili].

Solo che ora riprendere le solite contraddizioni gli era naturale, perché fuggendo ritornava al suo punto di partenza, al suo arrendersi e alla rivolta di scegliere il successivo itinerario. Il biglietto infine venne fatto per Gorbacevo-Kozel´sk, via Bel´ov. Verso l’ovest dunque. Un viaggio per andare lontano e per restare vicino. Alle 7,55 era sul treno, isolato in un vagone di seconda classe. Partiva con una compassione strana che lo soffocava. Per Sof´ja naturalmente, ma non dubitava di essere piegato solo alla propria volontà. Cosa farà adesso Sof´ja Andréevna? Alla stazione di Gorbacevo, Tolstoj scese dal treno per prendere la coincidenza Suchinici-Kozel´sk via Bel´ov. Ma sarebbe stato un viaggio in piedi se non avessero aggiunto un’altra carrozza… Makovickij, il medico che controllava la salute di Tolstoj durante la fuga, andò ad informarsi. Ma nessuna nuova carrozza venne aggiunta. Il treno partì e Tolstoj sentì caldo, si tolse il pastrano, poi andò sulla piattaforma posteriore. Trovò cinque persone e si fumava. Nemmeno sulla piattaforma anteriore si trovò a suo agio. C’era vento e Makovickij insisteva perché rientrasse nel vagone. Restare nel vento comunque gli piaceva, perché trovava nel vento quel gusto particolare che completava la sua fuga. Anche se un lieve gelo lo scuoteva e lo portava a rivedere il suo piano per una fuga illimitata. Presago forse dei suoi limiti. Poi sul treno salirono nuovi passeggeri, molti lo riconobbero e risvegliarono la sua fede e la discussione diventò a più voci. Tolstoj affrontò il tema scienza e conoscenza e c’era pure chi cantava o suonava la fisarmonica. Alla stazione di Bel´ov il treno fece tappa e Tolstoj scese per fare colazione.  La porta del buffet era una porta di latta e mandava colpi terribili ogni volta che la sbattevano, facendolo gemere come se ricevesse un pugno. Ormai aveva scelto la destinazione del viaggio. Chiese a un contadino la distanza fino a Optino e a Samordino. -Ti fermi a Optino? gli chiese il contadino… – Resta al monastero, vecchio… Poi continuò con un invito: salva l’anima.

 

Faccio soltanto quello che fanno di solito i vecchi, migliaia di vecchi, gente prossima alla morte… e me ne vado. Quasi sempre essi vanno nei conventi, e anch’io ci andrei se credessi in ciò in cui si crede nei monasteri. Ma non credendoci me ne vado in solitudine.

Il tema della fuga come salvezza dell’anima in quest’ultimo viaggio ha perciò pretese inconciliabili. Ma in fondo continua ad abitare la stessa dimora, come continua a contrastare la stabile decisione che lo aveva indirizzato ad interrompere l’assedio possessivo della moglie Sof´ja, ricuperando nell’avventura la rinnovata scoperta del mondo. Il tema della fuga è anche il senso di quei diari, ai quali ci siamo riferiti nella stesura di questa nostra nota e ai quali tutti sottostavano in casa Tolstoj, vivendo rassegnati in una ragnatela di confessioni che forse, più che a chiarire, servivano a ferirsi. Alle quattro e cinquanta il treno si fermò alla stazione di Kozel´sk e Tolstoj scese per primo. Poi la scelta del pellegrinaggio a Optino, l’alloggio presso la foresteria dell’eremo di Padre Michail. Alla fine si proseguì per l’eremo di Samordino, dove era ospitata la sorella. Suor Marija aveva ottant’anni ed era stata anche sposata. Dai due suoi matrimoni erano nati cinque figli. Sapeva tutto della vita e di questo fratello che aveva amato le donne, il denaro, la guerra, il gioco… che faceva l’amore con la moglie ma poi se ne allontanava, che amava i figli ma a debita distanza, che odiava il sesso ma gli era sempre piaciuto intrattenere relazioni extraconiugali con le contadine, che voleva la povertà ma viveva nella comodità dei ricchi, che voleva fuggire da casa ma non poteva vivere senza la moglie alla quale in fondo era sottomesso, trovandola disponibile e premurosa. Quella moglie che lo inseguiva anche con fitte acute di gelosia, rappresentandosi sotto nuovi aspetti, antiche fantasie. Nelle stesse coinvolgendo perfino il rapporto del marito con Certkòv, collaboratore ed amico, rinnovando così certe confessioni giovanili del marito stesso circa il suo amore per gli uomini. Appunti che la moglie, di tanto in tanto, riprendeva e che Tolstoj classificava come infamie di una demente.

Mi è indispensabile essere solo. Ti prego non cercarmi, non venire da me se saprai dove sono. Il tuo arrivo non farebbe che rendere più penosa la tua condizione e la mia.

Dopo Samordino un nuovo viaggio in carrozza verso la stazione di Kozel´sk… Il treno correva verso la vallata del Don e a Tolstoj questo piaceva, nonostante spesso nelle sue pagine gli stessi luoghi lo inseguissero come simboli lugubri e neri della disperazione. Anche ora gli rinnovano gli oscuri presentimenti di Anna Karenina. Lo scompartimento di legno verniciato però lo rilassava, facendogli ritrovare le partenze di un tempo alle quali lo ricollegavano quel valigione di cuoio pesante, che gli era già servito per i suoi viaggi in Francia Romania e Inghilterra, e che s’era portato dietro pure ora. Valigia comprata a Sebastopoli, quando era soldato, e che poteva contenere appena l’essenziale necessario per vivere: qualche libro, sapone, carta da scrivere, un cappotto confortevole per l’inverno, camicie leggere per le giornate più tiepide. Riassumeva in fondo la casa che aveva sempre desiderato: piccola, essenziale, utile e mobile. Proprio come non era Jasnaja Poljana. Alle cinque fu scosso da brividi e la febbre era a quaranta. Il dott. Makovickij, gli propose di scendere per riposare. Ma Tolstoj rifiutò perché sentiva ancora di essere sostenuto da una strana forza. Alle cinque e trenta il sottufficiale della stazione di Dankov lo scorse nello scompartimento e telegrafò alla gendarmeria la notizia che Tolstoj stava viaggiando sul treno numero 12. Intanto cominciò a nevicare e nel nevischio la febbre saliva. Tolstoj continuava con tutte le sue forze a proseguire la fuga, ma nelle ore successive Makovickij notò che tremava, che respirava a fatica. Le condizioni peggiorarono tanto da rendere urgente interrompere il viaggio. Il vecchio scrittore era sfinito ma rifiutò di scendere alla prossima stazione. Alle sei e trentacinque del 31 ottobre il treno si fermò in una piccola stazione. Sotto la pensilina una lampada rischiarava una scritta: Astàpovo.

Lo sconforto per la fine del grande scrittore, ha continuato tuttavia a tramandarci l’impegno per una eredità condivisa. Mentre altre considerazioni, anche se definiscono i dubbi del momento, continuano ad abitare la nuova casa, che non è solo nostra ma dell’umanità intera. Continueremo pertanto su quello che vogliamo indagare e soprattutto ascoltare. La fuga di Tolstoj era durata dalla sera del 27-28 ottobre alla sera del 31 dello stesso mese. Lo scrittore aveva 82 anni. Per sei giorni restò poi in agonia nella piccola stazione. La mattina del 7 novembre vennero tutti a vederlo morire. Vennero i figli, gli inviati del governo, i pope per conciliarlo con la chiesa e poi i giornalisti, i mugiki che per vegliarlo illuminarono le colline con le luci dei loro falò. Venne pure Sof´ja a vederlo, ma la famiglia decise che non vedesse il marito per consiglio dei medici. Così la donna rimase per tutta l’agonia del marito sul treno fermo, in mezzo ai binari, prigioniera di quella fuga abortita… Ma la fuga di Tolstoj nel frattempo era diventata qualcosa di diverso. E Jasnaja Poljana non c’entrava più, perché era un mondo che sopravviveva a lui, ma senza il suo consenso.  Mentre per Tolstoj il tempo presentava un paesaggio in movimento e solo l’interessava la continuazione di quella fuga, diventata viaggio senza fine e libera corsa nelle contrade del mondo. La sua avventura perciò non cessava, nonostante la vecchiaia e la morte… Proseguire nonostante tutto e andare in qualche posto, mormorava di tanto in tanto nella sua incoscienza… che nessuno me lo impedisca, lasciatemi in pace.

La filosofia tolstoiana mi ha toccato

Altro momento di questa fuga lo considereremo preparatorio. E lo leggeremmo nel sodalizio Tolstoj-Cechov, perché in questo caso la vita sembra affrettare il caso letterario, ma con le dovute cautele. Si tratta infatti di ammirazione e di riverenza ma anche di una maturata libertà critica, da parte di Cechov, che non cerca dimissioni perentorie. Da parte sua anche Tolstoj non affretta conclusioni, personalmente dispiaciuto di interrompere una fruizione letteraria o forse per non risolvere l’incontro in una protezione di gregge, come avviene in certi circoli moderni, dove la fama arriva per “accumulazioni di giudizi”. In questo caso il soccorso che chiediamo è un altro, ha deduzioni solo apparentemente marginali mentre le conclusioni letterarie incantano e i suggerimenti di certi incontri favoriscono versatili opposizioni. Nel caso della letteratura russa, il filo che si svolge da Gogol a Turgenev o da Dostoevskij a Tolstoj, non è lo stesso di quello che risolve Cechov in una sostanziale verità, esplicita e mai alterata da interpretazioni romantiche religiose o politiche. Ecco allora un piano di incontro tra i due artisti, che ricaviamo da una lettera di Cechov a Suvorin (1889)… Per chi scrivo? Per il pubblico? Non lo vedo e credo in lui ancor meno che nel domovoi.   E’ ignorante, maleducato, e i suoi migliori elementi mancano di coscienza e di sincerità verso di me… Scrivere per denaro? Non ho mai denaro e per mancanza d’abitudine mi è del tutto indifferente. Scrivere per gli elogi? Non fanno che irritarmi. Mentre in un’altra lettera allo stesso ammette che la sua aspirazione più vera è quella di nascondersi in qualche luogo, per dedicarsi a un lavoro “serio e minuzioso”. E scrivere, non cinque pagine al mese ma una pagina ogni cinque mesi. Certo Cechov è lontano dall’ipnosi tolstoiana, anche se l’artista legge e rilegge “Guerra e pace”, avvertendo la sua distanza da quella letteratura ma accarezzando la riprovazione del vecchio saggio, ormai ostaggio d’una diversa umanità. Un esempio fra tutti la scienza come simbologia di progresso, tema sul quale Tolstoj non ha dubbi. Nel nostro caso parla per bocca di Andréj Jefimic’ Raghin, medico di quel reparto n.6 e disciplinato discepolo di Tolstoj.

Perché impedire agli uomini di morire dato che la morte è la fine normale di tutti? Che cosa si otterrà se un bottegaio o un funzionario avesse la vita prolungata di cinque, di dieci anni? E se lo scopo della medicina è nel fatto che i rimedi diminuiscono le sofferenze, involontariamente ci si chiede: è necessario diminuirle? Primo, le sofferenze conducono l’uomo alla perfezione; secondo, se l’umanità impara a diminuire le sofferenze con pillole e gocce, trascurerà la religione e la filosofia in cui fino ad oggi aveva trovato non soltanto un conforto a tutti i mali, ma anche la felicità. Puskin prima di morire ha sofferto atrocemente, Heine è stato parecchi anni paralizzato.

Il dottor Raghin, filosofo discepolo di Tolstoj, ha le idee molto chiare…

Servo una causa nefasta e sono pagato da gente che inganno, dunque non sono un uomo onesto. Ma io non sono nulla, sono soltanto una particella di un male sociale inevitabile: tutti i funzionari del distretto sono nocivi e sono pagati per non fare nulla. Non sono io responsabile della mia disonestà ma l’epoca in cui vivo.

Cechov non si dà pace, ma si allontana da filosofie e dogmi che rendono prigionieri di speranze, innocue fino a un certo punto. Da questa convinzione poi ne segue un rapporto filtrato con le autorità, perché è convinto che gli artisti devono occuparsi di politica quando devono difendersene. E se in Tolstoj critica il filosofo e ne ammira il genio letterario, riesce anche a vederne chiaramente tutti i difetti. L’ipnosi, come la ripulsa tolstoiana scompaiono sotto l’influenza diretta della realtà. Distanze comunque accorciate su un piano umano, se lo stesso Tolstoj ammette di trovarsi davanti a un uomo meraviglioso…” modesto, silenzioso come una ragazza” come dirà a Gorkij. Mentre da parte sua Cechov non tarda a cedere al fascino del vecchio mago, subendone l’ascendente moralista, tanto che le sue opere degli anni ’80 ne saranno profondamente segnate. Teme la morte di Tolstoj, perché ammette che nella sua vita si aprirebbe un gran vuoto. E’sicuro che, quando nel mondo delle lettere esiste un Tolstoj, diventa facile e piacevole essere letterati. Perché anche se si ha la consapevolezza di non aver fatto e di non fare nulla, non è terribile, in fondo, visto che c’è Tolstoj a fare per tutti.

 

Lear, Tolstoj ed il Matto

Forse però una lettura a distanza della “fuga” di Tolstoj, risolta nella teatralità dei consueti approcci investigativi, avrebbe un senso ma ne perderebbe altri. Una particolare lente di ingrandimento ci porterebbe invece a rinnovare alternative e significati, perché servirebbe a non arrendersi alle evidenze che, nel caso dello scrittore russo, potremmo brevemente riassumere e forse contenere in riferimenti anarchici ed eretici, rafforzati da un inconscio e meditato individualismo. Il messaggio sottinteso comunque arriva ai nostri giorni, riferendosi ad un particolare umanesimo che lo stesso Orwell, nel suo “Lear, Tolstoj ed il Matto”, cerca di decifrare attraverso Shakespeare. Nei confronti del quale le antipatie dello scrittore russo non godono di ripensamenti, mentre le fughe di quest’ultimo sono ritrattate in quell’appuntamento con la morte e da quelle poche ore di viaggio e di libertà. Una corsa finale verso la salvezza che già si era mimetizzata nelle sue opere, nelle stesse non sempre risolta in improvvise resurrezioni. Ma tale da proiettare fino ai nostri giorni un significato diverso della vita dell’uomo e dell’artista, facendo risaltare non più per tentativi le proprie icone meditative. In questo caso la fuga dalle proprie conquiste diventa un ritorno alla propria normalità nell’armonia dell’Universo. Nell’accorgersene, lo stesso Leonardo Sciascia si convince a definire la vita di Tolstoj sotto il segno zodiacale della fuga. Mai realizzata veramente, se non negli ultimi anni della propria vita e proprio all’ultimo in coincidenza con la morte. Fuga dal suo destino di scrittore e da sé stesso, non solo dalla vita. Ma pure una fuga era stato il suo matrimonio con Sof´ja, mentre forse amava Liza, la sorella di lei. Una fuga, quella di Tolstoj, paragonata da Orwell a quella del re Lear e che Sciascia interpreta con le ultime parole di Tolstoj, registrate dal medico che lo assiste nella stazione di Astàpovo: “Me ne vado da qualche parte, così nessuno mi troverà… Lasciatemi in pace”. E non si tratta solo di pace ma di estraneità, secondo Sciascia, perché solo da questa sua estraneità ha potuto vedere limpidamente la vita, ricalcandola nelle sue pagine con meticolosa accoglienza. Ma per riallacciarci ad Orwell, diremo che l’opposizione di Tolstoj al Lear shakespeariano viveva anche di presupposti inconsci, prefigurando in modo inquietante il suo destino e la sua fine tempestosa (G. Steiner, Una lettura contro Shakespeare, in Nessuna passione spenta, Milano 1996). Lo stesso assillo tra i due porta alla tempesta che reciteremo perciò nella nostra coscienza, vivendo l’onnipotenza nel delirio di Lear il quale, dividendo il suo regno tra le tre figlie, esigerebbe in cambio un atto di ammirazione. Corrispondono al desiderio del padre le figlie Goneril e Regan, mentre Cordelia si apparta, perché non vuole svendere il suo cuore. Ma di lì a poco gli eventi precipitano e Lear è scacciato dalle figlie beneficate, mentre Cordelia sposa il re di Francia. Lear, ormai fuori di sé, vaga in una violenta tempesta ma si riconcilia con la figlia diseredata, sbarcata col marito in Inghilterra. I francesi alla fine vengono sconfitti, Cordelia è impiccata e Lear muore di dolore. Anche tenendo conto che la critica può scaturire da un debito d’amore ma anche di odio, nel saggio Shakespeare e il dramma pubblicato nel novembre 1906 sulla rivista “La parola russa”, Tolstoj si sofferma sulla rappresentatività dell’arte nella società odierna, dove una minoranza controlla i gusti di una maggioranza, sfruttando mode e incanti della società contemporanea. Poi soffermandosi sulla fama di Shakespeare lo scrittore russo ammette che quella stessa fama è immeritata. Innanzi tutto perché tutti i personaggi di Shakespeare non parlano una loro individuale lingua ma sempre lo stesso lessico shakespeariano cioè un linguaggio lambiccato e innaturale, che non solamente non avrebbero potuto usare i personaggi raffigurati, ma per nulla al mondo e in nessun luogo una persona reale avrebbe potuto usare”. Inoltre gli stessi personaggi soffrono di una generale incontinenza e logorrea: amanti, combattenti e agonizzanti parlano con esagerata abbondanza, inaspettatamente e senza nessun nesso con l’oggetto dell’azione, lasciandosi guidare più dal gusto di consonanze verbali e di calembours che non dal senso. Lo stesso Sciascia inoltre, allargando poi il suo discorso su Tolstoj e consapevole dell’astio di Tolstoj per Shakespeare, ci suggerisce le pagine di Orwell sulla fuga di Lear, come lenitivo o come lente di deformazione alla nostra intelligenza. Un invito forse ragionato ad allargare la nostra visione del mondo. La ripulsa di Tolstoj per Shakespeare, secondo Harold Bloom, nasceva però dalla sua consapevolezza, avvertendo il suo genio che non era possibile andare oltre Shakespeare: una sensazione che si mischiava ad una ribellione irrazionale, forse perché il poeta inglese lo aveva preceduto in quanto a nascita. Ammettendo i connotati psicologici della rivolta antishakespeariana di Tolstoj, Orwell infine si chiede come mai lo scrittore russo non riesca a sopportare il suo identificasi con Lear, tutto sommato una figura nobile che rinuncia a tutto e che si aspetta, come ricompensa per il suo magnanimo gesto, il rispetto e l’ammirazione di coloro che lo circondano. Alla fine c’è proprio questo, che Lear non riceve quello che si aspettava mentre Tolstoj non riesce ad accettare un finale così tragico. Forse perché la visione anarchica di Tolstoj si basa su quella che definisce una “sensibilità autoritaria, una sensibilità che non riesce a provare interesse se non per quello che lo riguarda”. Secondo Orwell però la distinzione non è tanto tra violenza e non violenza. Ci sono persone che sono convinte della malvagità degli eserciti e delle forze di polizia ma che sono, ciò nondimeno, molto più intolleranti e inquisitori della persona normale la quale crede che, talvolta, sia necessario usare la violenza. Non diranno a qualcuno “Fai questo, quello o quell’altro altrimenti andrai in prigione” ma, se potranno, si insinueranno nel suo cervello e manovreranno i suoi pensieri fin nei più piccoli particolari. Principi come il pacifismo e l’anarchia, che sembrano superficialmente implicare una completa rinuncia al potere, incoraggiano piuttosto questo atteggiamento mentale (da “Lear, Tolstoj ed il Matto”).

 

Prove di regia e di rivoluzione

Al punto in cui siamo arrivati la nostra fuga, attraverso Tolstoj col suo alter ego Lear, non può tralasciare riconoscimenti e travestimenti successivi, tenendo conto che lo scrittore svolge le sue intuizioni da filosofo, nella consapevolezza che gli uomini collegati l’un l’altro dall’inganno si raccolgono fra loro come in una massa compatta. Ed è sicuro che la compattezza di questa massa è il male del mondo e che tutta l’attività razionale dell’umanità è diretta a infrangere questa coesione dell’inganno. Ha chiaro anche il destino della sua rivoluzione, perché tutte le rivoluzioni sono tentativi di frantumazione violenta di questa massa… mentre solo le opere di verità, portando la luce nella coscienza di ciascun uomo, frantumano la coesione dell’inganno, staccano uno dopo l’altro gli uomini dalla massa resa compatta dalla coesione dell’inganno” (Lev N. Tolstoj, La mia fede).

Le nuove piste, tra regie e rivoluzione, completano forse questo discorso e si muovono anche con un’onestà intellettuale di scoperta. Così il Collettivo di Parma ha allestito nel 1988 il dramma di Gaston Salvatore che, nel titolo dell’Unità di quel periodo, recita “Stalin come il Re Lear Solitudine di un tiranno”. Lo spettacolo in realtà avrebbe usufruito di tre allestimenti teatrali in quell’anno: in giugno a Vienna, in novembre a Parma e infine a Roma con l’edizione del Teatro di Sardegna. Ed è uno Stalin vecchio e malato, sospettoso ed insonne quello che ci propone Salvatore. Una figura spettrale che ricorda l’infelice tiranno di Siracusa, descritto da Cicerone. Ed è appena il caso di ricordare, dalla famosa descrizione, come il tiranno Dioniso, allontanati gli amici, affidasse la sua vita a robusti servi barbari. Mentre aveva insegnato alle sue figlie a radere e tuttavia, quando queste crebbero, non affidò più alle loro mani il rasoio, preferendo che gli bruciassero la barba e i capelli con gusci di noci roventi. Abbiamo perciò in mano la solitudine del Tiranno che traduciamo nella disperazione di Lear, per il quale “Folle è chi si fida della docilità del lupo,/ della salute di un cavallo,/ dell’amore di un ragazzo,/ del giuramento di una puttana”. Nel caso di Stalin, per non aggiungere altro, ci riferiremo invece ad una poesia di Anna Achmatova…

Una voce mi chiamava confortevole,
Dicendo: vieni qui, lascia
Il tuo paese peccaminoso e sordo,
Lascia la Russia per sempre.
(da “Piantaggine”, 1921)

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre inoltre le nuove istanze rivoluzionarie, scontrandosi con la generosità dell’arte, avevano messo fine alle aspettative della cultura yiddish. I segnali partivano dalle stanze del potere in maniera ambigua, ma non impossibile da decifrare. Chi non riusciva a fuggire, aveva il destino segnato. Il tutto si svolgeva nel riserbo più assoluto e nessuno poteva penetrare in quel mistero, che poteva arrivare alla fucilazione e al campo di concentramento. Il caso Michoels era stato diverso perché l’attore era una figura nazionale, conosciuta e non in rotta con il regime, anzi messa alla testa del Teatro Ebraico di Mosca. E’ del 1935 la sua interpretazione del Re Lear, presso lo stesso teatro, per la regia di Sergej Radlov. Interpretazione diversa quella di Michoels, che segna una svolta rispetto alla tragicità del passato, pur continuando a mantenere le attese di un re onnipotente, che mantiene la propria imponenza nella povertà, nella pazzia e nella sofferenza. Modernità la sua anche nel riproporre in chiave antisovietica un messaggio yiddish, in un testo peraltro che aveva ottenuto il lasciapassare dell’apparato burocratico del regime. Nei suoi appunti sullo spettacolo inoltre Michoels rivive in Lear la “fuga” di Tolstoj, insistendo sulla analisi di una messinscena, che avrebbe scatenato di lì a poco la reazione stalinista. Un racconto il suo che parte dalla provocazione di Lear alle proprie figlie, convocate dal padre che ha rinunciato al suo potere. Una rinuncia o forse una intenzione premeditata, nata da una diversa maturazione della vita. Perché il potere in fondo è niente rispetto a quello che il re Lear sa, cioè sulla propria superiorità, per cui può decidere di mettere sé stesso contro il mondo intero. Sarà generoso verso le sue figlie, ma lo sarà di più con quella che lo ama di più. La sua verità vive solo della sua saggezza e solo la sua persona ha valore. Nel proprio nichilismo Lear arriva a rinnegare tutto tranne la propria individualità, convinto com’è di avere trovato nel suo io la profonda motivazione del suo essere al mondo. Come Tolstoj, in fondo ammette Michoels, il personaggio di Shakespeare trova veri valori nel suo mondo interiore, anche se disconosce l’aspirazione ad un autoperfezionamento, all’umiltà e non riconosce l’amore verso il prossimo, perché il suo io mantiene caratteristiche feudali: è una forma di saggezza senza essere eroica, si tratta di egocentrismo trasformato in principio. Così di seguito arriveremo a considerare con lo stesso Michoels che…

Lear ama Cordelia a modo suo, ma non vuole prendere in considerazione la sua libertà, i suoi desideri, non vuole accettare il suo diritto a pensare e sognare. La contrapposizione al suo potere lo indigna. Pur amandola, la allontana.

E partendo da questa constatazione, non è difficile secondo Michoels arrivare a definire la tragedia di Shakespeare come la bancarotta della saggezza di Lear. Si tratta di una “tragedia della conoscenza” in quanto riconosce che bisogna passare attraverso una tempesta, attraverso dure prove interiori per tornare alla conoscenza “delle basi della natura oggettiva”. L’analogia con Tolstoj pertanto poteva anche nascere da questo abbandono del potere del re Lear, perché lo stesso scrittore aveva abbandonato Jasnaja Poljana, tralasciando casa ricchezza e vita agiata, per salire su un vagone di terza classe e rompere per sempre con il proprio passato. Il futuro spettacolo pertanto, sul quale rifletteva Michoels, doveva presentarci un uomo sazio della vita e del potere che lancia una sfida al mondo intero. Un mondo avvertito come lontano rispetto alla propria personalità, mentre dalle vette della propria saggezza canuta gli ideali del bene e del male appaiono miserabili. Ma la tragedia di Lear non consiste nelle sofferenze, inflittegli da Goneril e Regan quando lo cacciano, nell’accorgersi invece di essersi sbagliato sull’interpretazione delle figlie. Quando poi si convince della giusta e coraggiosa visione del mondo di Cordelia, l’ha già persa. Per questo già nel primo atto la tragedia traspare, quando Lear allontana Cordelia, e non quando Lear è cacciato da Goneril. Poi nella scena della tempesta assistiamo al rivolgimento del personaggio, fiducioso di trovare nel caos nuove idee di vita. E la fortuna è aiutata dalla disgrazia, perché senza questa follia non ci sarebbe stata l’autentica saggezza di Lear nel finale della tragedia: il riconoscere che la verità dell’uomo è unica, né dipende solo dal baco per la seta, né da qualche bestia per pelliccia o dalla pecora per la lana.

La notte del 13 gennaio 1948 Solomon Michoels, direttore del Teatro Ebraico di Mosca, fu ucciso in un incidente d’auto a Minsk e l’incidente-omicidio doveva risolvere una volta per sempre le “poetiche opzioni estetiche” di quell’attore. Quella voce doveva essere spenta, perché andava oltre e non si trattava solo di contenuti censurabili. Nei due anni successivi alla morte dell’attore, il successore Zuskin venne arrestato, torturato e condannato alla fucilazione nel 1952, i teatri yiddish furono chiusi e i giornali yiddish cessarono le pubblicazioni. E’del 1953 “la Congiura dei camici bianchi” e l’opinione pubblica venne informata che un gruppo di medici aveva tentato di avvelenare le autorità del Cremlino. Un gruppo di dieci medici, di cui sei ebrei e tra questi c’era il prof. Miron Vovsi, cugino di Michoels. Per Solomon Michoels non ci fu neppure l’autopsia, per accertare l’ora e le cause del decesso. E poiché si trattava ufficialmente di un incidente, come documenta Attisani nel suo “Solomon Michoels e Veniamin Zuskin”, si allestì lo spettacolo di un cordoglio unanime.

Me ne vado da qualche parte, così nessuno mi troverà…

Il nodo alla fine è venuto pure al pettine. E buon per noi se l’evento è stato improvviso e inaspettato: una tempesta, come sembra prediligere Shakespeare, o un incubo notturno partecipato a Scrooge dal fantasma degli anni a venire, oppure un Natale che ha raggiunto l’orlo del suo precipizio, diventando una commedia brillante dal libro di Grisham.  Preferiamo però incrociare le pagine di Tolstoj con i saggi di Orwell, che ancora oggi resistono, forse più dei suoi romanzi, nel concedere il beneficio del dubbio alla realtà. Un invito alle curiosità del mondo, senza però demagogie o retoriche non verificabili sui fatti. Mentre qualcuno potrebbe riconoscere che “il linguaggio politico è congegnato affinché la bugia sembri verità e il delitto una cosa onesta, e per far apparire solido anche il vento.” Il “lasciatemi in pace” di Tolstoj sul letto di morte invece, anche se non è una fuga, rappresenta però un segno di estraneità, come ammette Sciascia nel suo Nero su nero  (Einaudi 1979). Finora lo scrittore russo aveva solo programmato una impossibile fuga, alla fine realizzandola in una piccola stazione e nella casa di un capostazione. Vivendo aveva solo pensato a fuggire dalla vita, arrivando per tale via ad acuire la propria interpretazione del mondo. Forse perché le cose si vedono veramente nel momento in cui decidi di perderle, e il mondo si conquista uscendo dal mondo. Negli ultimi anni s’era dedicato alla saggistica, con la convinzione che con quella sua estraneità aveva scontentato tutti: liberali e radicali che lo appellavano “chiacchierone misticheggiante”, mentre per il governo era da considerare un pericoloso rivoluzionario e per la chiesa “il diavolo in persona”. In realtà il suo umanesimo anarchico la sapeva lunga, intuendo che per raggiungere i vertici della società all’individuo si richiedesse astuzia e grossi trucchi, arrivando perciò a riconoscere che spesso la gente peggiore si impadronisce del mondo.  A questo malessere, in fondo, si ricollega la biografia su Tolstoj di Pavel Basinskij (Castelvecchi, 2014) che infatti, in “Fuga dal Paradiso”, fa i conti col diavolo della gloria nella vita terrena, riconducendo le peripezie di Tolstoj a “quel sentimento di amore-odio troppo esasperato che nutrivano nei suoi confronti le persone, da cui desiderava liberarsi…” Ma se ne sarebbe liberato, trasformandosi in un qualunque vecchietto? In questo caso la solitudine dell’artista potrebbe nascere da un atto di superbia, mentre rappresenta in realtà la fuga da una tentazione. Ed è fuga pertanto quella di Anna Karenina, prima tra le braccia di Vronskij e poi sotto un treno. Fugge il Principe Andrej, per rifugiarsi nel nichilismo. Mentre Tolstoj ha dovuto aspettare fino alla morte per fuggire. E questa sua fuga, estraneità secondo Sciascia, gli è servita a vedere meglio la vita. Un bilancio della sua vita lo scrittore lo aveva già tentato a 55 anni, quando criticandosi aveva ammesso che ove si escludano i 14 o 15 anni dell’infanzia, ne ho vissuti 35 da nichilista nel significato autentico del termine, vale a dire non da socialista e rivoluzionario, come viene inteso abitualmente, ma da nichilista nel senso di mancante di ogni fede. Poi all’improvviso la sua vita mutò. Aveva decifrato tutto con occhi diversi e non volle più quello che voleva prima o come specifica meglio lo stesso: quello che prima gli sembrava buono gli apparve cattivo, mentre quello che prima gli sembrava cattivo gli apparve buono. La traduzione di questa filosofia in azione politica non sempre venne costantemente adottata, anche se Gandhi definiva Tolstoj “il maggiore apostolo della non violenza”. Inoltre dalle sue pagine sembra uscita la marcia in America di Martin Luther King, che portò all’acquisizione di nuovi diritti civili, per la gente di colore. Ma tutto secondo lo scrittore russo deriva dall’avere capito in modo diverso la dottrina di Cristo.

 

L’altro nostro punto di vista potrebbe invece essere una variazione sul tema letteratura o un processo economico, finanziato per perdere la parola. Forse perché al giorno d’oggi vedremmo meglio il sommo Tolstoj propagandato su una bottiglia di vodka, accompagnato da esortazioni in versi dell’intramontabile Lermontov su più nuovi e irregolari alcolici, anche se gli oggetti commemorativi, dedicati a Puskin, continuerebbero ad andare per la maggiore. Una alternativa? Forse ci resterebbe quella di non cercare la popolarità, la cultura dell’imbroglio, l’affare letterario cucinato nelle proposte di cuochi famosi, calciatori strapagati, giornalisti assoldati dal potere mediatico che impone i consumi e le mode… Il tutto per essere avviati su canali di vendita obbligati da grandi editrici megastore. Mentre in realtà manca la parola, quella che salva e che rincorriamo per tutta la vita. La parola che per essere ascoltata deve essere proposta con parsimonia, mai svenduta o propagandata. Ritorniamo perciò a preferire la fuga, dalla fama e dalle lusinghe di un set pieno di luci. Fuga nel silenzio dalle consuetudini. Fuga dalle attese fabbricate dalla propria scrittura, seguendo le ultime incoerenze, ma con l’intenzione di scoprirne di nuove. Essere lasciato in pace. Tolstoj lo chiede da artista e da uomo. Perché l’artista vive traendo fuoco dal nulla e la sua felicità è perdersi, farsi ascoltare, commuoversi e liberarsi dalle proprie incontinenze. Mentre da uomo vive sinceramente la propria povertà, preferisce voltare le spalle, non vuole cercare ma gli basta perdersi nell’indifferenza, fermando le proprie ambizioni.  Così Eliot ha creduto di risolvere la propria posizione nel mondo rifugiandosi nei valori che la crisi mette più in discussione, ammettendo che le sue opere sono più individuali e vive pur non conformandosi. Su questa macchina, per un passaggio, il nostro poeta vuole perciò scendere per continuare le nuove strade che ha in mente. Vuole perdersi a piedi, provare il destino che lo conduce a risolvere le tenebre o la polvere di quella che è la strada di tutti.  Gli basta solo la stanchezza di trovarsi liberamente disteso nel suo sconforto e nei suoi anni. E non ci meravigliamo dunque se, dopo che abbiamo frenato, in fretta ha aperto lo sportello. Sparito del tutto alla fermata!

S.re Bommarito