Andrea era in grado di parlarmi di ricerca come pochi sanno fare. Era un giovane antropologo ma già molto apprezzato. Ha vinto un assegno di ricerca all’Università di Catania e, già durante il suo dottorato, aveva pubblicato un paper dopo averne ricevuto vari riconoscimenti. Abbiamo collaborato insieme da quando iniziai ad interessarmi ad un filone sociologico negli studi di contabilità. Fu riguardo all’articolo dal titolo “Contabilità e ordine” che avemmo una intensa esperienza di collaborazione. In quello studio, la contabilità veniva intesa come un rito nel quale una organizzazione fa ordine sia nello spazio che nel tempo. Nello spazio, la contabilità crea ordine nella distribuzione delle risorse e dei premi ai responsabili delle varie aree; nel tempo distribuisce i guadagni e le perdite tra i vari periodi di attività. Andrea mi ha aiutato molto sulla funzione di rito della contabilità, regalandomi un libro che racconta le pratiche contabili al tempo degli antichi Egizi, che utilizzavano delle iscrizioni murali, sulle pareti del tempio, per documentare la regolarità delle offerte presentate alle divinità da cui avrebbero ricevuto protezione contro le leggi del caos.
L’articolo che decidemmo di scrivere insieme si basava su ampie ricerche storiche, ricavabili da documentazioni di archivio, in merito alla attitudine della contabilità a funzionare come un rito ordinatore. Mentre la documentazione sugli antichi Egizi evidenziava l’uso delle iscrizioni murali per rassicurare le divinità sulla regolarità delle offerte, quelle medievali e rinascimentali riportavano pratiche contabili interne agli ordini religiosi, come nel caso della Compagnia di Gesù, dove si leggeva addirittura di una contabilità dei peccati, durante gli esercizi spirituali. Davvero una diversa visione del tempo, rispetto a quella di oggi. Oggi, infatti, al tempo diamo un ruolo molto pressante – pensavo, mentre leggevo i dati di quegli archivi. Andrea, da buon antropologo, mi spiegava che una società, in quanto comunità umana, si distingue proprio per la visione che ha del tempo. E mi diceva: “E’ proprio dalle nostre visioni e dalle pratiche sociali che possiamo comprendere meglio le nostre emozioni e come percepiamo noi stessi”.
Ci mettemmo a tavolino a programmare il nostro timeline. I tempi erano molto stretti. Una volta scritto, avremmo dovuto revisionare l’articolo in dieci giorni per inviarlo puntualmente alla rivista. Prima, però, bisognava verificare la validità dei documenti, ottenere le autorizzazioni dagli archivi storici, inviando ai responsabili di ciascun archivio le bozze sulle descrizioni delle varie pratiche rilevate nelle comunità osservate. Ma Andrea era un ricercatore ormai esperto e mi aveva inviato la sua parte ancor prima che io finissi la mia. Eravamo a due mesi dal termine di scadenza ed ero io ad essere in ritardo. Altro che visione del tempo! Quella dei ricercatori è talmente stressante che ci vuole poco a capire quanto i dipartimenti universitari somiglino a delle pentole a pressione, prossime allo scoppio. Andrea, però, riusciva nei tempi meglio di chiunque altro. Forse perché dedicava quasi tutta la sua vita alla ricerca. Spesso gli rimproveravo che avrebbe dovuto concedersi più distrazioni, vivere di più le relazioni sociali, ma lui sembrava soddisfatto così. Quando lo avevo conosciuto, un paio di anni prima di questa collaborazione, lo avevo invitato ad Acireale. Fu lì che scopri le sue doti letterarie. Era un poeta di fine levatura. Dopo aver passeggiato insieme in Piazza Duomo, mi disse che rimase colpito dalle due chiese, la chiesa madre, dedicata a S. Maria Annunziata, e la basilica minore, consacrata ai SS. Pietro e Paolo. Le due chiese contornano la piazza del Duomo, la cui recente pavimentazione disegna una cupola rovesciata, rendendovi un arredo misto tra lo stile barocco della Basilica minore e quello gotico e rinascimentale, della chiesa madre. Lo colpì in particolare la presenza di un solo campanile nella basilica minore: un secondo avrebbe ostruito l’ingresso dei raggi solari in un foro posto sulla cupola centrale della chiesa madre al cui interno fu realizzata una preziosa meridiana da un artista danese. La fantasia di Andrea si divertì in un omaggio alle due chiese e alla piazza, omaggio che Andrea stesso ebbe piacere di inviarmi via email la sera stessa del suo rientro a Catania. Con interesse e stupore lo lessi:
“Salde su una cupola a rovescio, due Donne d’altri tempi con, nel ventre, la preghiera. La prima è la Madre, Minore la seconda. Entrambe al ciel protese con gotico slancio. Nel ventre della Madre è l’incontro con la Madonna Annunziata; nella Minore quello con Pietro e Paolo, i Santi. Due Donne d’Aci che si abbracciano senza possedersi, con la Minore con a braccio il cielo e la sua luce. Infatti il Duomo è tutto il loro abbraccio, mai asfittico, se monca è la Minore. Un solo braccio di campane ha questa, sulla destra di chi guarda. L’altro suo fianco è ceduto al cielo. I raggi del sole nel libero cielo misurano il tempo nel ventre della Madre. Un orologio solare ad arte costruito scandisce la preghiera ed il lavoro. La cupola a rovescio è lo spazio aperto dall’abbraccio loro. L’incontro coi fratelli di città, nei mercati e nelle feste, avviene all’aperto, oltre quell’abbraccio. La piazza è quello spazio, e posa su una cupola a rovescio, a ricordar che ogni incontro tra fratelli non è velato agli occhi del cielo. Fu in quest’abbraccio, invito d’ogni incontro, e nella rosa del suo spazio aperto, che ritrovai in unica preghiera mia madre e la minore: la mia sposa”.
Il mio stupore non fu rivolto all’armonia di questa prosa ma al suo evidente contenuto autobiografico. Così lo chiamai l’indomani per averne una conferma. Quello che mi raccontò mi lascio esterrefatto: “Rimproveravo sempre a mia madre di stare troppo tempo nelle chiese. Spesso visitavo la biblioteca Zelantea di Acireale, per dei documenti che mi servivano durante la scrittura della mia tesi di dottorato. Approfittavo allora per lasciare mia madre nella Cattedrale di Acireale, dove era stata battezzata, per poi riprenderla alla fine delle mie ricerche. La aspettavo sempre d’avanti ad un chiosco che si trova all’angolo della piazza, approfittando per bere un selz al limone. Spesso le attese erano lunghe e la cosa mi irritava. Però fu in quelle attese che conobbi Nella, una ragazza bellissima per la sua semplicità, e la sposai dopo dieci giorni di fidanzamento”.
Appresi allora molto di più della vita di Andrea. Il giorno dopo quella conversazione al telefono, ci ritrovammo in un bar di Piazza Università, a Catania, e intorno a due tazze di caffè mi raccontò la sua storia in poche parole ma con grande trasporto, come solo lui sapeva fare: “Sembravamo una coppia felice. Nella veniva con me ai convegni e ai viaggi di studio. Ma anche se insieme, io ero molto preso dalle mie ricerche e, dopo pochi mesi di matrimonio, lei trovò chi seppe soddisfare il suo bisogno di attenzione. Mi accorsi che mi tradiva solo per caso, da un sms letto per errore sul suo smartphone. Fu allora che compresi davvero le parole di mia madre, quando mi diceva che il tempo dedicato alla preghiera non è mai perso. Dopo la separazione da Nella, continuai ad andare ad Acireale per le mie ricerche accompagnando mia madre in cattedrale ma, quando passavo a prenderla, invece di aspettarla fuori, al chiosco, entravo anch’io in chiesa e stavo lì con lei un po’ di tempo. Pregammo insieme ma non riuscivo a trovare un senso per quella relazione. Fu quando smisi di chiedermi il perché che mi fu regalata una illuminazione. La visione della meridiana fu davvero eloquente, e ancor di più lo furono le parole di un sacerdote: – La preghiera libera il tempo della nostra vita, così come questa meridiana è resa libera di ricevere i raggi del sole dalla basilica minore, che ha rinunciato ad un campanile per lasciare che la luce del sole facesse il suo lavoro -. Compresi di aver inteso il tempo del mio fidanzamento allo stesso modo del tempo che impiego nel mio lavoro. È la preghiera che mi ha fatto capire che c’è un tempo per ogni cosa”.
Eravamo a soli dieci giorni dalla scadenza assegnata al nostro articolo, quando un incidente di macchina si portò via Andrea. Fu allora che imparai a rivedere la mia percezione del tempo e della preghiera. La preghiera sarebbe diventata il tempo del mio incontro con Andrea, l’unico tempo possibile per stare ancora ad ascoltarlo. L’articolo non fu mai pubblicato su quella rivista ma divenne parte di una pubblicazione non più internazionale, scritta in lingua italiana. Ne feci omaggio alla madre di Andrea. Fu un regalo assai gradito dalla cara signora e le insegnò molte cose sugli interessi del figlio e sulla sua passione per l’antropologia. Ogni tanto ci diamo appuntamento in Piazza Duomo, ad Acireale, e le leggo qualche brano di quell’articolo, che lei porta di proposito con sé. Quello è il tempo in cui Andrea ci parla ancora.
Antonio Leotta