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© Chiara Pajno, Dopo l'attesa

È  mattina, arrivo in ospedale e la sala d’attesa è già strapiena; la gente è in fila per riuscire ad ottenere una visita da un “white doctor”. Ed il white doctor sarei io. La cosa mi mette non poca ansia: si aspettano di essere guariti da me, si aspettano che io capisca la loro malattia e gli prescriva una cura efficace, che possa tornare a farli lavorare come prima o che cancelli dai bambini che si portano attaccati con i teli quelle visibili deformità causate da una malattia per loro diventata quasi normale o quantomeno parte integrante della vita. Vengono da vicino, da ogni parte della città, ma anche da lontano, lontanissimo, con mezzi di fortuna, in autobus,  a piedi, o sul dorso di un mulo; alcuni sono ben vestiti, “all’occidentale”, altri scalzi. Nella sala d’attesa le panche per sedersi sono poche. Accovacciati, seduti o sdraiati per terra, mangiano, dormono, allattano i figli e aspettano, aspettano interminabili ore, pazienti per davvero, il loro turno che sanno prima o poi arriverà, prima o poi il medico bianco li guarderà, li visiterà, invariabilmente capirà e li guarirà. E loro ciecamente si fidano e confidano. Confidano nello straniero del quale non capiscono la lingua, confidano nella “sapienza” dell’occidente. Abituata alle sale d’attesa degli ospedali italiani, dove l’impazienza è palpabile, dove continuamente voci ansiose e irritate chiedono “quanto manca?” “quand’è il mio turno?”, “dov’è il dottore, a prendere il caffè?”, trovo incredibilmente strana la rumorosa e attiva calma che regna in quella stanza spoglia, affollata e quieta.
Sono circa le 8.10 del mattino, e il sole già alto riscalda e illumina tutto, illumina talmente tanto da far sembrare il paesaggio quasi bianco, quasi surreale, uniforme e difforme allo stesso tempo.

© Chiara Pajno, Dopo l'attesa

Ma loro, sono lì da ben prima che il sole sia sorto, sono lì dalla notte precedente, dopo il viaggio sono arrivati e si sono messi in fila fin dalla mezzanotte. Alle prime ore dell’alba hanno ricevuto un piccolo quadratino di carta bianca con un numero stampato, per chi sa leggerlo, che deciderà quando saranno visitati. E se saranno visitati, oggi. Oltre un certo numero dovranno tornare il giorno successivo o quello dopo ancora, rifare la fila, aspettare. Ma ne vale la pena per essere visitato dal dottore bianco si può anche aspettare una settimana, soprattutto dopo un viaggio lungo affrontato appositamente. Ne vale la pena anche perché, come in tutto il mondo, ma qui ancora di più, ammalarsi costa, devi pagare. Devi pagare il letto, devi pagare i pasti che ti portano in ospedale, devi pagare i farmaci con cui cercano di curarti, le siringhe con cui ti fanno le iniezioni e devi pagare anche i guanti che il personale indossa per visitarti. Noi cosiddetti “buoni” invece non facciamo pagare. Così aspettano anche tutto il giorno e se gli si dice di tornare domani, non protestano, non si lamentano, non battono ciglio; raccolgono il poco che si portano appresso e vanno via. Li rivedrò la mattina seguente.
Con il computer sotto braccio che uso per registrare le visite, debitamente controllato dalle guardie armate dell’ospedale all’ingresso, con un foulard colorato in testa per proteggermi dal sole, che non potrei mai utilizzare in un ambulatorio in Italia, attraverso la sala d’attesa e sento decine di occhi puntati su di me, sui miei passi: avverto il fermento di uomini e donne che si tirano su perché il dottore è arrivato, stanno per raggiungere il loro obiettivo; sento aspettative, voci, speranze,  sguardi rispettosi. Ma più di ogni cosa  sento il peso delle mie ansie, della mia paura di disilludere le loro aspettative, di non sapere cosa fare, di non capire, o ancora di più, di capire ma a volte di non poter fare nulla. Sento il peso di dover dire che per curare la loro malattia in questo paese non è disponibile il farmaco di cui avrebbero bisogno, che avrebbero bisogno di un intervento, se non in un altro paese, almeno nella capitale, per la quale non si possono pagare neanche  il viaggio di 24 ore in autobus. Sento il peso delle malattie che avevo solo visto sui libri e che tutti pensano siano scomparse. Sento il peso del chirurgo che mi dice sì, questo bambino al quale stai curando l’infezione tubercolare dell’anca potrebbe tornare a camminare con un intervento di protesi d’anca, ma non si può fare; quindi? Quindi niente.
Fortunatamente non è sempre così ma la gioia non è duratura e si ricorda difficilmente. La paura si radica e lascia un solco.
Succede che guariscano, che migliorino, che le lesioni scompaiano, che smettano di tossire, di avere la febbre, di dimagrire. Che ricomincino a mangiare e che la lebbra smetta di consumare le mani, i piedi, il naso. Succede che scoprano in tempo di avere l’HIV e si convincano che qualcosa possono fare, oltre bagnarsi nello stagno con le acque sacre, e che possono anche evitare di trasmetterlo alla moglie, al marito, a un’altra persona. Succede che il peso a volte si alleggerisca, che riesca ad addormentarmi senza pensare che durante la notte, quando restano solo gli infermieri, quella notte non ci siano pazienti gravi quindi probabilmente il giorno dopo li troverò tutti. Succede anche che gli ustionati non si infettino troppo nonostante le mosche si posino incessantemente sulle loro ferite. Sono soprattutto le donne ad ustionarsi, su gran parte del corpo, a causa di incidenti domestici mentre cucinano su traballanti fornelletti a kerosene o qualcosa di simile. Ma anche volontariamente. Volontariamente scelgono di bruciarsi vive, di darsi fuoco davanti casa, come a voler andare in fumo, come a volersi sciogliere e scorrere via. Per smettere di affrontare un marito che non c’è più, una comunità che le isola perché abbandonate, perché non hanno saputo comportarsi come una moglie dovrebbe fare. Ma incredibilmente, in un ambiente che meno asettico è difficile immaginarlo, misteriosamente per la mia esperienza e per la mia teoria, la teoria dei sacri testi di medicina, e misteriosamente anche per il mio sentire, le loro lacerazioni, del corpo e dell’anima, iniziano a chiudersi, lentamente ma progressivamente; per settimane, mesi e mesi ancora una volta pazientemente aspettano che la rigenerazione faccia il suo corso. Le infezioni non sono certo una rarità ma, meno misteriosamente, gli antibiotici funzionano, la febbre passa, i liquidi introdotti attraverso aghi nelle loro vene li tengono in vita. E loro rinascono in un altro corpo che ha cambiato forma, che ha i lineamenti distorti e si muove meno e  in modo diverso per le estese cicatrici, ma che diventa subito loro, si conforma intorno alla loro nuova vita che inizia lì in quel letto.
E io, bianca istruita, stupita e illusa ho ben poco da insegnare. L’illusione fortunatamente poco a poco svanisce e mi sembra che una parte del velo “bianco” che mi copre gli occhi inizi a dissolversi.

Chiara Pajno

Non è una scrittrice. È nata a Palermo nel 1978. Si è laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Malattie Infettive a Bologna. Dopo la specializzazione ha iniziato a lavorare a Roma per l’Istituto del Servizio Sanitario Nazionale che si occupa della salute dei migranti. Fa visite mediche nei campi nomadi, nelle stazioni ferroviarie, nei centri per richiedenti asilo. Ha lavorato come medico infettivologo in progetti di cooperazione in Africa con particolare riguardo alle tematiche della tubercolosi e dell’HIV/AIDS, nei centri di accoglienza e di identificazione ed espulsione dell’isola di Lampedusa, al molo dell’isola di Lampedusa per l’assistenza sanitaria agli sbarchi dei migranti e nei centri aperti per migranti di Malta… Gioca a mandare notizie dei suoi giri.