Al momento stai visualizzando In memoria di Salvatore Agati

PER “FINALMENTE A ITACA”

Agati, col suo Finalmente a Itaca, affronta l’impresa di ripensare il mito di Ulisse. Figura simbolo essenziale della cultura occidentale (forse non solo). Chi è Ulisse? Potremmo dire veramente: Ulisse «uno, nessuno e centomila». Dubbi su quale fosse: virtuoso e sapiente o ingannatore? Dubbi sulla sua fine: morto a Itaca, morto in terre lontane, ucciso dal figlio Telegono? Chi è Ulisse in Omero? È l’impatto con la vita e con la realtà. La fine della guerra di Troia (a sua volta simbolica) segna la fine del tempo degli eroi, verso la condizione finale dell’uomo. Ulisse torna uomo tra gli uomini: il ritorno alla famiglia, la pacificazione. Non a caso Omero non dà seguito alla profezia di Tiresia. Che, nell’oltretomba, aveva profetato all’eroe nuovi viaggi e nuove peripezie dopo il ritorno a Itaca, sino, dopo un secondo e ultimo ritorno nella sua isola, a una serena vecchiaia e a una dolce morte. Cconclusione questa implicita nell’unico ritorno a Itaca del poema omerico. E Ulisse è l’uomo, col suo destino di attraversamenti e di approdo ultimo.

Questo aveva capito Joyce, quando, riprendendo il mito platonico di Er, nella sua ricreazione omologica – realistico-simbolica – scriveva: «Disse infatti Er che quello spettacolo era degno d’esser visto, come le singole anime si sceglievan le vite, ché era uno spettacolo pietoso a vedersi, ridicolo e meraviglioso. Per lo più infatti sceglievano secondo l’abi­tudine della vita anteriore: l’anima di Ulisse, capitata nel sorteggio ultima fra tutte, venne a far la sua scelta, ma, guarita d’ogni ambizione pel ricordo degli antichi travagli, andò a lungo in giro cercando una vita d’uomo privato e sfaccendato, e la trovò a stento gettata lì in un canto, negletta dagli altri, ma disse al vederla che lo stesso avrebbe fatto anche se fosse sortita per prima, e se la prese tutta contenta». In armonia con il suo riconoscimento e  la sua accettazione dell’umano come fisicità.

Non amato da Virgilio, che non poteva non privilegiare l’eroe antitetico, il predestinato Enea, destinatario di una missione e fondatore di futuro. Dante rivela una verità ignota a tutti, costruendo responsabilmente e programmaticamente un mito alternativo a quelli omerici e post-omerici. Attribuisce al greco sapiente ed esperto il tentativo più ambizioso: il ritorno da vivo al Paradiso terrestre. È escluso infatti il suo ritorno a Itaca. Per Ulisse si tratta di un indomabile impulso etico-conoscitivo in un’atmosfera fatta di ferma consapevolezza di essere al termine di tutto: dell’«occidente» geografico e della vita, la «picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente» (vv. 113-5). Un atto che è insieme magnanimo e erroneamente superbo: impossibile realizzarsi come totalità senza la fede cristiana,

Tanti Ulisse quanti sono i grandi scrittori e poeti che, dopo Omero, lo hanno reinterpretato, da Dante a Joyce appunto, passando per Foscolo, Leopardi, Tennyson, D’Annunzio, Poe, Baudelaire, Rimbaud, Melville, Wagner, Nietzsche, Verne, Pascoli, Conrad (1860-1922), Gozzano, Savinio, Pound, Eliot, Saba, Kazantsakis, sino all’astronautica filmica. Dall’«eroe senza missione» del canto dantesco al grande sonetto foscoliano, A Zacinto, tutto fondato su un’opposizione: il passato e il presente, la gloria del mito e la disperazione dell’uomo d’oggi. Ma la gloria del mito vi è indiscussa e indiscutibile. Per giungere, all’opposto, a Pascoli. È mia convinzione che le sue tre interpretazioni poetiche della vicenda e della figura di Ulisse, Il sonno di Odisseo e L’ultimo viaggio, dei Poemi conviviali, del 1904 (il primo era già apparso sulla “Nuova Antologia” del 16 febbraio 1899), Il ritorno, di Odi ed Inni, siano state pensate come ripensamento e reinterpretazione in chiave moderna di quella dantesca. È messo in crisi il mito stesso attraverso l’accettazione della profezia di Tiresia. In L’ultimo viaggio Ulisse giunge finalmente a Itaca: vive la vecchiaia, al focolare, per nove anni; è preso dalla nostalgia del passato e del mare; vuol fuggire dal nulla e dalla vita-sonno; torna nei luoghi delle sue peripezie e nulla è più come nel ricordo; vane sino le promesse di conoscenza delle Sirene. Si impone la domanda: chi sia e chi sia stato. Non rimane che l’oblio, la morte e il nulla.

La riflessione poetica di Agati è frutto di una lunga, solitaria, meditazione, vissuta al riparo dal presente e dal reale quotidiano. A ripercorrere la vicenda parabolica dell’eroe greco: «solcare ho voluto /  quel mare che il poeta cieco /  ha disegnato nella mente / di chi ai suoi versi s’accosta: / seguendo lo stesso suo tragitto». Così si apre la silloge, che spiega: «Per ritrovar il senso e il valore / della vita, quegli umori ancestrali, / quelle fiabesche armonie, / quel pane saporoso di grano duro / […] / sì, per colmare quel vuoto / a quanti da anni ormai / si sono lasciati alle spalle / ciò che li legava al passato, / nella speranza di ritrovar il filo / d’Arianna a lungo intrecciato». Il poeta ripensa e rinarra a suo modo la storia che narrò Omero, ma accoglie e ripropone le vicende previste da Tiresia.

Un agire però, quello di Ulisse, quello anteriore al ritorno, colto qui non nel suo farsi quanto rammemorato nei suoi effetti, disastrosi e dolorosi: all’origine è l’accecamento del ciclope. Il momento epico del passato è spostato dall’atto alla rievocazione. E in ciò può scorgersi una riproposta dell’impostazione dantesca: il racconto fatto dallo stesso Ulisse. Più distesa è la rievocazione delle azioni compiute al momento del ritorno a Itaca, quelle appunto che debbono segnare la vittoria e la soluzione ultima. Qui il poemetto, tra l’altro, ci riconsegna, commosso, il sublime episodio del cane Argo: «Nel vedere quell’uomo di cenci vestito, / farsi avanti accanto al custode dei porci, / Argo, il fedele cane del tempo che fu,

subito dimena la coda e abbassa le orecchie: / solo questo, non altro, prima che oscura / la morte su di lui, improvvisa, scendesse; / e il padrone mesto si gira e una lacrima terge». Unico pianto di quest’uomo.

E non a caso il poeta riflette  a lungo sul passato dell’eroe, perché è qui il proprio e l’essenza del suo messaggio. Il ricordo del passato per il suo Ulisse non è motivo di esaltazione. Anzi la memoria è tormento: «sì, serbatoio dei nostri peccati, / dell’intero nostro viaggio mortale, / la memoria finisce per insediarsi, / all’insaputa, dentro ognuno di noi. / Anche all’unica di Laerte progenie, / il divino Odissèo, ritornarono in mente / i suoi tanti, innumerevoli inganni, / ad inchiodarlo, a metterlo in croce». Il passato è tutt’altro che eroico, è un cumulo di errori e, dantescamente, di «peccati». E Andromaca, consolando il suo stanco Ulisse, gli fa intendere come nella guerra troiana non sia stato nulla di grande e di eroico, e sia stata, sottintende l’autore, solo determinata da volontà di potere. Uno smascheramento dell’intellettuale d’oggi, che ormai ha vissuto e conosce tanta storia. Un riscatto è possibile solo nel futuro, però nell’invocato e auspicato agire del figlio Telemaco: «Ricordati, oh figlio, di non cadere giammai nelle trame / che mi videro a Troia, e anche dopo la sua rovinosa caduta, / costruire ingordi tranelli, per poi farmi passar per pietoso, / quando, invece, l’empietà ha la mia vita del tutto marchiato. / Ricordati di valutare, stimare e apprezzare chi accanto ti sta, / sempre, sì, come un amico, un congiunto, un tuo familiare».

Ma il ricordo della profezia di Tiresia lo riprende e parte per nuove avventure. Guerreggerà e regnerà vittorioso per nove anni e avrà finalmente il perdono di Nettuno. Ma la conclusione innesta un ulteriore significato. Ulisse muore a Itaca, ove finalmente è tornato pacificato, e viene ucciso da Telegono, il figlio avuto da Circe, che non lo riconosce. L’uccisione padri/figli è una costante nel mito e nella letteratura ed è l’eco, sappiamo ormai, degli accadimenti del profondo della psiche. Ma non sempre si è guardato alla relazione nel dare e ricevere la morte: il figlio che uccide il padre o il padre che uccide il figlio. Al di là dei significati inconsci, si configurano essenziali significati simbolici. La morte inferta al genitore segna la rottura generazionale, l’instaurarsi  di un nuovo tempo. Ma la consanguineità è segno che non è infranto radicalmente l’ordine esistenziale e culturale. Rottura per una continuità. Nelle scelte tematiche di Agati ne è rivelazione l’espressione che chiude il poemetto: la «placida morte».

Difficile e lungamente progettata e attuata la scelta linguistico-stilistica, costantemente modellata sul lessico e sulle giunture sintattiche e metriche di quella omerica. Coagulata in un ritmo, che, a un primo livello di strutturazione, vuol riprodurre quello epico e anche la tonalità riflessivo-sapienziale dei cori della tragedia greca. Ma in stile «medio», direbbe un retore tardo-latino e medievale; «sermo humilis», direbbe  il critico della Commedia dantesca. Uno stile mirato a diseroicizzare e insieme umanizzare la figura mitica. Uno stile che si consuma nel quasi prosastico di certe lasse, in cui il verso sembra raddoppiare l’endecasillabo della metrica romanza e prolungare l’esametro di quella greco-latina. Certe velocizzazioni sono solo in funzione di passaggio o di raccordo.

«Stile medio», «diseroicizzare», «umanizzare». Che vuol dire immedesimarsi e identificarsi. Ulisse si ripropone come l’«ogni uomo», tutti noi, e perciò diventa anche l’autore. Consapevolezza e memoria di un attraversamento, che è la vita, desiderio, inespresso ma implicato, di una pacificazione finale. Compimento e attesa.

Nicolò Mineo