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Arsenico e nuovi versetti
di Gabriella Montanari (La Vita Felice)

 

arsenico e nuovi versetti copertina“Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente. L’espulsione catartica, l’eruzione che riscalda. L’orgoglio di far spiccare il volo a particelle di sé, di lasciarle andare per il mondo. Poi, dopo l’impatto col muro del vento, ritrovarsele sparpagliate sul viso, dalla fronte al mento. Accoglierne il tanfo stomachevole, il sapore rancido, l’alone giallastro. Riceverle come colpi inferti che tornano indietro, senza sorprendere, ferendo appena e temprando. Getto dopo getto, arrivare alla conclusione che forse, da piccoli, due sberle in più non avrebbero fatto male”. Questa è la prima delle tre prose che introducono le altrettante sezioni poetiche del libro di Gabriella Montanari. Una dichiarazione di stile che si sposa con un punto di vista mai scisso dalla vita. Comincia così il suo oltraggio all’ipocrisia (titolo del precedente lavoro), facendo a fette la grossolanità e la pochezza del genere umano (e in particolar modo maschile), senza risparmiare se stessa, nello specchio del controvento dunoso. L’immagine evacuativa (dai conati ai coiti, dall’urina alle feci) ritorna in molti testi, come segno di igiene, di catarsi fisica prima che spirituale (entrambe strettamente correlate), di scavo reale nelle viscere dell’esistenza, rompendo il patto, omertoso talvolta, da postulanti, dei canoni: “i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, / sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore” (enten-eller, pag.21). La poesia della Montanari sembra il frutto limpido, puro (proprio perché non cela le varie impurità) di chi ha affrontato il proprio processo di individuazione, definito così da Jung: «L’individuazione è un compito eroico o tragico, in ogni caso difficilissimo, perché implica un patire, una passione dell’Io, cioè dell’uomo empirico, comune, quale è stato finora, a cui accade di essere accolto in una più vasta sfera, e di spogliarsi di quell’ostinata autonomia che si crede libera. Egli patisce, per così dire, la violenza del Sé». Un percorso doloroso che  ha come meta l’autenticità, un rapporto totale con il proprio Sé. Questi versi sono, di fatto, sorprendenti dalla prima all’ultima riga, per varietà tematica e dirottamenti di pensiero e stile, fluidi,  robusti, leggeri e disperati (mai scontati), pregni dell’esperienza “bifronte” di una sognatrice e disillusa, realista che macina chilometri su aerei suppostoni nell’azzurro plurisfregiato e mari con cui fare pace, mari vecchi di bellezza, con gabbiani che abbaiano. Anche l’aspetto esistenziale saturnino viene messo a fuoco con un pragmatismo mescolato a una fantasia urbana fervida di metafore: “le parole son dette / per scalfire i silenzi / delle solitudini umane e bestiali / e per espandere l’eco / delle voci dei moribondi // l’ora che precede il tramonto / è quella giusta per morire / e per strappare il testimone al giorno / prima che tagli il traguardo, / complice la notte // non c’è via d’uscita / da questa coda interminabile / alla cassa della vita / con i buoni sconto in tasca / e un buco nel sacco della spesa // sugli scaffali del tempo / gli anni scadono / come scatolette di tonno / sostituiti da vuoti a rendere / in cambio di spiccioli / senza più potere d’acquisto / il coraggio è di chi fa incetta / scavalca la fila / non salda il conto / fa sgolare l’allarme / poi corre / corre / corre / inciampa / e torna indietro per rendere la monetina al carrello” (al ladro, al ladro!, pag.53, e la struggente, splendida poesia “tutti bravi, tutti buoni”, pag.38, in cui la memoria volteggia sulle fotografie del passato fino all’interrogativo disarmante e stupefatto: perché – nessuno – conta – i – morti.). Il collage che campeggia in copertina, – sospeso tra il mito biblico e fiabesco in versione pop – anch’esso realizzato dalla Montanari, dà l’idea di questo Cappuccetto Rosso moderno che deve difendersi da vili padri-padroni (papi-papà) e uomini amati o più scritti che amati, in stanze, piani da lavoro, che si confondono con tavoli d’obitorio (cronaca di una cast(r)’azione, pag.107), amplessi che lasciano spazio al desiderio tossico di cibi da supermercato, seduzioni mediocri o mancate in una rivisitazione sarcastica del binomio romantico di Amore e Morte: “giocando ai piccoli chirurghi”. Un cammino in versi inesauribile, zeppo di cadute, miraggi, attimi d’estasi e un monito ricorrente: “inseguire il profumo / che ha l’amore // di biancheria // fresca di bucato”.