L’apprendimento elementare
di Fabrizio Bernini (Mondadori)
“Quale può essere la poesia del nostro tempo? Non può esservi nel nostro tempo altra poesia che quella atroce degli abissi in cui continuamente scendiamo e viviamo; solo gli abissi, il senso della perdizione, dell’angoscia senza limiti, che trasforma tutto l’universo in un abisso. – noi non possiamo contemplare che le aurore delle nostre guarigioni – Ciò che vi è di veramente reale in noi è l’abisso; è la poesia della nostra realtà – la nostra poesia è la metamorfosi dell’abisso. – è il mostro oscuro che svanisce nella pallida aurora – l’abisso è una realtà terribile ma appunto perché è una realtà ci è infinitamente caro, perché è reale; è una realtà indicibile ma appunto per questo ne parliamo, ed esclusivamente”. È il 1961 quando Andrea Emo appunta su uno dei suoi sterminati quaderni (usciti in una vasta selezione per Bompiani con il titolo Quaderni di metafisica 1927 – 1981, la citazione è a pag.768) queste parole, a distanza di cinquant’anni credo possano focalizzare in qualche modo anche l’opera del poeta lombardo Fabrizio Bernini. La sua marcia poetica si accende di scarti, scatti, lampi, inizia andando contro la salita, in un “ritmo di cicale / per aprire un varco, una solitudine immaginaria” dentro la regione dell’infanzia, fino alla vetta dove “Oltre non andrò e non posso più salire. / Arrivato qui tutto ormai è prospettiva”. Non resta che contemplare gli abissi del contemporaneo raggiunta La veduta e fatta Esperienza (pag.11). Bernini riesce a ritrarre situazioni psicologiche e scene di vita urbana, anche cruente, con il dono di una parola sospesa nell’ellissi della pietà, con l’accenno che conduce a completare da soli la linea tracciata (come nella fiaba nera Gli altri fiori, in cui negli ultimi versi rivela un prima impensabile incesto). L’immanenza della condizione di figlio, la dipendenza, è delineata sapientemente nei versi “ammainato / in mio padre e mia madre, non del tutto carne, ma solo / il feto di un’idea” (pag.10), qui il verbo ammainare viene dal latino invaginare, derivazione di vagina (guaina, fodero), sottolineando il legame letteralmente d’utero con i propri genitori, inscindibile e tragico. Il ritratto dei Giovani d’oggi (pag.14) risulta esemplare soprattutto nel sottolineare la mancanza di stupore dei ragazzi, la monotonia oculare che denuncia l’apatia mentale, immaginativa: “Questa primavera è uguale, identica a quella dell’anno / scorso. I soliti tulipani, le solite viole, lo stesso profumo / che fanno i fiori sui rami. Perfino i colori sono come / erano”; l’unico principio di cambiamento, subito soffocato, è quello legato all’età: “Solo la mia età ha provato a farsi / fuori, ma l’ho subito imbalsamata”. In questo senso, un frammento che estrapolo da Gli altri fiori, “Ogni posto / è segreto”, in rapporto ai giovani d’oggi descritti dal poeta, piuttosto che rivelarci la capacità infantile di cogliere un segreto in ogni luogo, e di conseguenza un germe di possibile meraviglia, ci mostra, con disarmante evidenza, l’incapacità totale di gran parte dei figli delle nuove generazioni, soprattutto riguardo la gestione dei propri stati emotivi (investendo ovviamente tutta la sfera dei rapporti interpersonali, affettivi, lavorativi). Generazioni ben distanti da quelle dei soldati morti in guerra, pur coetanei (“Erano ragazzi, come me. / Eppure così diversa è la vita se il caso / ti sceglie per la storia…”, pag.9). Nella poesia di Bernini c’è il grido liberatorio del borghese esasperato in Teorema di Pasolini, che scappa dalla sua Tebaide di capitalista stanco d’aver soppresso la natura, schiavo di un “disegno cieco”; l’assurdità del male (cfr. L’altra paga, pag.15, poesia a pag.23) il rapporto con il nichilismo (pag.26), sintetizzato nella figura di Bazarov, protagonista di Padri e figli, in questo che potremmo definire anche un poemetto sullo scontro generazionale, lo sguardo del poeta non a caso fotografa anche figure di anziani (cfr. Distanze di età, pag.14-15, Sfumature, pag.17-18). Una lucidissima analisi dell’abisso umano, appunto (“Verticale è solo la geometria, / il resto è spazio umano”, pag.28), privo di mistero, che, però, infine, proprio partendo dalla coscienza del limite, apre un varco insperato “nel ventre dilatato dell’universo”, comparando alla dialettica cosmica degli elementi, nel ciclo morte/ rinascita, la fede nel ritorno di un amore perduto: “Così sono qui che aspetto il suo viso nel futuro. / Da questo apprendimento elementare / sfioro la mia incapacità, ma non la subisco / più”.