Al momento stai visualizzando Il vate e il verista

Salivo, tutto sommato di buona lena, con la mia bicicletta perfettamente a punto, in una splendida giornata catanese, di quelle dove l’aria sembra passata al crivo fino e la luce squillante rallegra anche le ombre, percorrendo la via Etnea verso la Montagna, per poi proseguire verso Leucatia, Battiati, Tremestieri, Pedara, Nicolosi, Bivio Milìa e poi chissà…

Come mi accade sempre, la fatica di pedalare mi faceva girare a folle la ruota dei pensieri, quando, appena prima dell’incrocio con via Ingegnere, mi ricordai che da quelle parti c’era la casa con la lapide a Mario Rapisardi, a testimonianza muta della vicissitudine umana del poeta, vagamente coadiuvata dal viale eponimo che almeno parlava, di tanto in tanto, per mezzo dei navigatori stradali.

Alzai lo sguardo, cosa che sconsiglierei sempre ai ciclisti, per verificare di ricordarmi bene il punto e per immaginare come doveva essere un tempo la villa, libera di guardare l’orizzonte marino, prima della crescita famelica e ipertrofica della città. Improvvisamente, magari anche per una buca, che non ne mancano ringraziando!, un colpo a tradimento da parte di un palo di segnaletica, seguito da danze scintillanti in circolo di stelline, percuoteva con decisione il mio occipite, scaraventandomi giù dalla sella della mia cavalcatura…

*****

­— Buono cristiano, dovete stare più a cura — mi sentii apostrofare.

La botta era stata non trascurabile sebbene attutita dal casco, la luce mi arrivava straviata: una strana atmosfera si spandeva, come se vedessi attraverso degli occhi velati di lacrime, come se fosse luce di luna, come se mi stessi insonnando… Il tempo di mettere a fuoco e mi apparve una personaggio dagli occhi tristi, dallo sguardo corrucciato e dai baffi fenomenali, sotto un cappellaccio a falde che avevo visto solo nei musei. Sembrava proprio quel quadro, dove l’avevo visto?, alla pinacoteca del Castello Ursino, ma sì: era spiccicato Mario R…

— Ce la fate a stare in piedi? Entrate vi prego, della cavalcatura se ne occuperà Amelia…

Cavalcatura!? La bicicletta!? Era proprio un uomo d’altri tempi. Però i suoni che mi arrivavano all’orecchio, ancora stonato dalla botta, erano proprio scalpitii di zoccoli e non scatti di catena… Mi fece accomodare in un salone pieno zeppo di libri, e devo dire con un certo odore, come di…

— E’ il mio cane, che amo dal profondo, non tanto per la fedeltà, che ho sempre ritenuta la virtù dei leccacalli, quanto per la gratitudine di ricordarmi che la sapienza intera, senza verità, vale un piscio di cane… Provai a fargli togliere l’abitudine, ma lui niente, perseverò coerente, schiena dritta, barra ferma contro la tempesta. Vedete qua, ad altezza di alzo di coscia: Carducci, Croce, D’Annunzio. Non troverete nulla del Verganello corruttor di verginelle; Amelia ha fatto sparire tutto quello che può ricordarmi i passati amori, è devota ma gelosissima, in barba alla sua patria spatronata polacca…

— Corruttor di verginelle…  — ripetei meccanicamente, tra lo stordito e il curioso.

— Santo Verga Virginis, ora pronobbissi: a quello pure la Società di studi gli hanno fatto, a me: l’oblio, ca manco se ero Stesicoro!

Io ero frastornato, dalla botta, ma ora mi stava frastornando di più questa strana recita: ma che era uno scherzo? Mi girai attorno, sulle librerie, alla rinfusa, c’erano appesi dei quadri, che sembravano proprio quelli della pinacoteca: Calcedonio Reina, Michele Rapisardi, Guiseppe Sciuti. Ritratti del tizio con quei baffi inconfondibili, mitici. Che potevo fare? Le forze mi sostenevano appena, la poltrona era comoda, decisi di assecondare il gioco.

— Ma sta parlando di quella questione di c…, dell’adulterio? — Mi corressi subito, ma non prima del dovuto.

— Corna, corna furono! E dire che avevo rivolto su Giselda il mio più profondo sentimento, e avevo io introdotto il Virga Verde Nelle Spalle nel mondo letterario fiorentino, presentandolo al Dall’Ongaro. Lo so, fin da subito la signorina Fojanesi fu affascinata dal giovanottone villano, mentre io ero cresciuto con la tubercolosi incipiente, ero gracile e malfermo di salute quanto infervorato e combattente di parola. Nel frattempo che io le trovavo la raccomandazione per il posto all’educandato Margherita, quello si prendeva la pena di accompagnarla a Catania, e non oso pensare cosa intercorse già allora, tra il villano e la diciassettenne, Virghineo e virginea… Dovetti lottare non poco, per attrarre l’attenzione della giovane farfalla civettuola, i cui occhi profondi e mobilissimi mi apparvero subito degni dei miei più sinceri palpiti. Forse lei s’aspettava una parola dal Verigo, una dichiarazione che non venne, o almeno non del tutto, o meglio non nella forma canonica. Forma che io seguii invece canonicissima, per mia e sua futura disgrazia, chiedendo appropriatamente alla madre, che spaventata dalle chiacchiere per le troppe lettere che le spedivo all’educandato Margherita, qui a Catania, me la cacciò tra le braccia. Fossi veramente morto dopo aver detto il primo t’amo! L’amor non ama i sopravvissuti…

— Cose che imbattono — dissi, chiedendomi con sempre più insistenza se stessi farneticando per la botta. Ma il mio baffuto interlocutore continuò:

— Forse, a sua parziale discolpa, l’averla costretta alla vita in casa con la suocera… e poi un poeta laureato o meno, ha bisogno di inseguire le sue Beatrici o Laure che siano, ed Evelina Cattèrmole, la mia contessa Lara, era l’una e l’altra, e le poesie che ci scambiamavamo bruciavano i fogli stessi in cui erano scritte, ancor più delle membra durante gli amorosi consessi… Mi sentivo padrone del mondo: moglie e amante erano diventate pure amiche, persino la foto dell’amante sulla scrivania di casa, cosa puoi desiderare di più? Ma era illusione: la contessa mi teneva al guinzaglio come trofeo letterario da sventolare nelle sue poesie, e la moglie… lo dovetti capire presto in che maniera era sottomessa! Me ne accorsi aprendo quella maledetta lettera, avvertito da un’altra, anonima, e pure troppo interessata. “Non la devi aprire!” mi aveva gridato: che sconce raffinetezze!, un marito non dovrebbe mai vedere, peggio della flagranza! Almeno da otto anni se la spassavano, con la scusa della infelicità, e della consolazione, del groviglio di sentimenti e di passione, della vena narrativa persino, sconosciuta al marito ma spiattellata all’amante, “Prima delusione” altro che!, persino il fido Capuana, amico per com’era, non ne aveva neanche voluto sapere… Amante per altro non esclusiva: quello, tra una novella e un ciclo, l’affare eponimo se lo ricreava pure con la contessa Paolina Geppi Lester, e non solo…

— Però… per essere dell’Ottocento… — mi scappò la riflessione, ma la figura che mi stava dinnanzi non mi stava ad ascoltare.

— Raccontava, la bifronte, moglie delusa e musa muliebre, che io le avevo fatto assaggiare il frustino, ma quando mai?, forse un gesto…, e che a causa di questo fatto, al colmo della prostrazione, era uscita per strada e aveva incontrato per caso, ma ditemi se si può credere!, incontrato giusto giusto il Vergator di novelle, il quale, implorato, si tratteneva qualche giorno a consolarla. E s’erano incontrarono poi spesso, nell’appartamento della signora, per così dire, Piazzoli, moglie reggimoccolo dell’appaltatore ammanicato. La cacciai, che potevo fare? Ammazzarla? L’avevo pure perdonata, dietro bugiarda assicurazione di non essere giunta all’ultima abiezione, fu lei che non se la sentì di ricominciare coi sotterfugi, preferendo una fugatina romantica. Scappata di casa, si portò in via Sant’Anna, dove il Malavoglioso la rimandò di malavoglia, sola, a Firenze, dice che doveva stare a mia disposizione, e lo sapeva che non accettavo duelli.

— Meglio così: quando le cose si fanno complicate… — accennai in quella luce trasognata che attribuivo al colpo, tentando di evitare di farmela sotto per la visione di spirti.

— Ma perché pensate che ne faccio una questione galante? Non è questo il dente che più mi duole. Quando scendevo la via Etnea per andare a fare lezione di Letteratura all’Università, col cappello, il parapioggia e i baffi allicchettati, i miei studenti mi acclamavano, il popolo cantava le mie liriche, la città mi teneva a esempio. Il mio funerale, orgogliosamente non cattolico, fu una festa civile, tre giorni di esequie, ci mancava solo lo sparo d’Asirotrì, tranne poi a lasciarmi mesi insepolto, per lo zampino del vescovo e dei benpensanti. Fui amato in vita, e senza leccare calli, e senza risparmiare la mia penna usata come bastone per mazzare le bassure morali e politiche, la mia voce veemente per innalzare canti alla libertà e gloria dell’Italia, del suo popolo, troppo spesso traviato da folli e temerai condottieri. A quello, manco lo vedevano, che non lo distinguevano in nulla dai galantuomini pricchi e affaccendati nelle questioni di roba, che pareva lui uno dei suoi personaggi. E non parliamo della sua grammatica fantasiosa, e della miseria di contenuto. Dove sono gli ideali del Risorgimento, dei lumi, della libertà dai poteri oppressori? Solo rassegnazione emerge dai sui scritti, la stessa che predica la Chiesa, per tenere soggiogati i vinti, e fargli tirare l’aratro….

“Si mise a fare il comizio?” dissi tra me, ma stavolta sembrava aver capito, quasi vivesse nei miei pensieri…

— Che scrittura è, che non sia a servizio di ideali, della verità, della libertà? O anche della tirannia, convintamente, ma manco quello… E poi i romanzetti… fosse almeno un Victor Hugo, sommo poeta filosofo e romanziere di coscienza e conoscenza. Macché: torbido pescatore nel fango, peggio dei suoi Malavoglia, idealista della roba, oppressore di ogni tentativo dei miseri di sottrarsi al giogo, peggio della chiesa, peggio di quel Luigi Sturzo pretino che ci accomunava, sbagliando, nella massoneria. Sbagliando! Ch’io non fui mai massone conventuale, ma credente nella Palingenesi dell’umanità libera dal condizionamento cristiano che tutti i Tiranni fa Dio in terra e tutti i miseri penitenti sottomessi in attesa di paradiso. Ma vinsero loro: prima le massonerie conventicole, traditrici di ideali e sfruttatrici del metodo iniziatico per occupare tutti i gangli del potere, peggio dei peggiori Borbone, di cui il senator Virghinale e il Carduccio nobello, salirono, è certo, tutti i gradi. Una volta imposti nei corsi, nei libri di testo, nelle celebrazioni anniversarie, chi li scalza più! E poi il pretino calatino, che ti inventa il partito popolare cristiano, pronto a perpetrare nella demagocrazia cristiana l’antico potere clericale sotto forma nuova, lo stesso potere che mi fece marcire nella bara senza sepoltura e che poi mi seppellì, senza vara né bara, nell’oblio, lasciando al nome di un viale il compito esclusivo della mia celebrazione.

— Ma oramai sono cose vecchie… — mi uscì di bocca, un po’ per tranquillizzarlo, un po’ per tenermi aggrappato a uno scampolo di realtà che ormai mi sfuggiva di mano…

— Dove siete concittadini che declamavate i miei versi a memoria? Dove i miei studenti che dovevo redarguire di non inveire contro quel Cardo coniugato al vezzeggiativo, per quanto mi volevano bene? Dove è il De Sanctis ch’ebbe il santo coraggio di assegnarmi una cattedra non essedo io cattedratico e in barba ai cattedratici? Dov’è il sommo Victor Hugo, uno dei pochi cui debba considerazione di maestro: al Cuarduccio pien di Vino, che gli aveva dedicato una poema, il sommo Victor non rispose neanche; mentre a me aveva scritto: «J’ai lu, monsieur, votre noble poème. Vous êtes un précurseur…» Cosa ho precorso? Dov’è la mia discendenza? Cosa avete fatto del percorso che avevo dolorosamente e coerentemente tracciato?

— Ma io che c’entro? Io ho fatto studi tecnici… — provai a difendermi.

— No mio caro, non mi ingannate. Pur con olfatto trapassato, fiuto il contastorie da lontano. E sappiate che non potete nascondervi, non ne avete il diritto. Il talento, pur esiguo, non può essere sotterrato e consegnato intonso al Padrone: va speso, messo a rischio, seminato, anche a costo di far cadere il seme sulle pietre o in mezzo alla gramigna.

— Ma che mi fa il parrino, ora? Proprio vossìa? — dissi, prima di perdere ancora una volta quella stralunata conoscenza.

*****

— Buono cristiano, deve stare più a cura — mi sentii apostrofare.

Deja-vu? Ma niente baffi, niente cappello, niente strana lucura, solo il solito traffico di Catania, il palo della segnaletica stava lì, immobile e presuntuoso, non mi degnava d’uno sguardo, continuava imperterrito e impertinente a segnalare. Il tizio del negozio mi aiutava a rialzarmi e a rimettermi a posto il mio casco che aveva comunque fatto il suo, la cavalcatura era tornata senza zoccoli e non sembrava troppo turbata dall’incidente. Per non fare la figura di chi si arrende, mentii spudoratamente dicendo che “tutto a posto!”, era, ringraziai per l’aiuto schivando offerte di accompagnamenti ospedalieri, bevvi un sorso d’acqua dalla borraccia per far passare scanto e incanto, rimontai in sella e partii. La ruota dei pensieri ricominciò a girare a folle (si era mai fermata?) Mi ero insonnato? Era stata la botta? Magari mi aveva fatto sbattere apposta, il fantasma, fantasia, fiction? E ora? Che potevo fare?

Salivo, tutto sommato di buona lena…

Maurizio Cairone