Al momento stai visualizzando Il TG1: evoluzione comunicativo-linguistica in 30 anni di storia (1976-2006)

Il telegiornale è il programma televisivo più importante, un simbolo della televisione stessa. E’ anche il più diffuso e seguito sulle varie reti: nessun’altra trasmissione televisiva, che abbia una cadenza regolare, può contare il numero di spettatori che nell’arco di una giornata riesce a mettere insieme l’appuntamento con qualcuna delle molte edizioni del telegiornale. Da un punto di vista culturale, esso rappresenta la forma fondamentale di conoscenza del mondo e ricopre una funzione importante, avendo trasformato l’informazione, prima riservata a gruppi di élite, in una pratica di massa.
L’informazione ha rappresentato per lungo tempo il tratto distintivo e qualificante delle televisioni di tutto il mondo: il valore di una rete veniva giudicato in rapporto alla completezza e all’obiettività delle sue trasmissioni di informazione. In Italia, dagli anni ’80, la diffusione delle reti commerciali ha determinato uno sviluppo massiccio del genere dell’intrattenimento, provocando una contaminazione con il genere esclusivo dell’informazione. Nonostante ciò, l’informazione continua a rappresentare “l’anima nobile” della televisione, permette di influenzare l’opinione pubblica.
Il giornalismo televisivo è principalmente fondato sull’oratoria, sull’arte del parlare in pubblico. La retorica televisiva si configura come l’applicazione di regole, artifici, trucchi che hanno lo scopo di trasformare la convenzionalità in spontaneità, motivo per cui, un valido giornalista televisivo non si preoccupa solo della veridicità delle notizie quanto di essere assertivo, capace di esprimersi in modo autorevole, affermativo, preciso.
L’informazione televisiva impregnata da un forte effetto di realismo, offre un’immagine della realtà fortemente condizionata da alcuni limiti tecnici, come la bidimensionalità, i confini dell’inquadratura, l’esclusione di altri sensi che non siano la vista e l’udito e da valori culturali, ideologici e professionali che definiscono cosa e come bisogna narrare il reale.
In questo senso dobbiamo intendere l’informazione come una messa in scena del mondo. Ma non sono questi i mali peggiori del giornalismo televisivo italiano, ‹‹la sua pecca storica è che non ha mai svolto una funzione di vigilanza sulle istituzioni, non ha mai saputo rivendicare una chiara autonomia rispetto al potere politico›› (Bruzzone).
Al di là di queste considerazioni, è opportuno ribadire che l’informazione televisiva costituisce, per la maggior parte della popolazione, il principale strumento di conoscenza del mondo.
Questo studio intende proporre da un lato, una storia del TG1 dalla sua nascita, 3 gennaio 1954, e il contesto nel quale si è inserito, dall’altro, un’analisi linguistica finalizzata a cercare le specificità del parlato telegiornalistico per coglierne le tendenze evolutive. Ne è scaturito un discorso interdisciplinare ricco di peculiarità e rimandi. 
La componente diacronica richiesta dall’analisi linguistica strutturale-contenutistica mi ha consentito di delimitare i confini all’interno dei quali studiare l’evoluzione del telegiornale, il trentennio 1976-2006. Il corpus di filmati visionato si compone di tredici telegiornali del primo canale Rai, scelti lungo l’arco cronologico delineato con cadenza quinquennale (1976; 1981; 1986; 1992; 1997; 2002; 2006), per un totale circa di 6-7 ore di trasmesso televisivo.

1. Esordi e sviluppi del telegiornale

Erano le 20.45 del 3 gennaio 1954 quando, nell’apparente indifferenza generale, davanti a poche migliaia di telespettatori, andò in onda da Milano il primo telegiornale ufficiale della prima Repubblica. Direttore era Vittorio Veltroni, padre di Walter, che aveva ancora il grado di redattore capo, perché il telegiornale non era ancora una testata. Conduttore, o meglio “redattore-lettore”, come si diceva a quel tempo, era ‹‹un giovane ossuto dalla faccia scavata e dalla voce calda che risponde al nome di Furio Caccia››[1. M.G. Bruzzone, L’avventurosa storia del tg in Italia, Bur, Milano, 2002, p.V].
Prima di questo avvio, c’era stata una lunga fase sperimentale, iniziata la sera del 9 settembre 1952, quando, in un clima precario, un paio di giornalisti-speaker (Furio Caccia e Fausto Rosati), due operatori (Carlo Oddone e Duilio Chiaradia) e un montatore (Giuseppe Monachesi) avevano mandato in onda dallo studio televisivo di Torino la prima edizione del telegiornale italiano con quattro servizi filmati e una serie di notizie lette da uno speaker molto emozionato, a cui alcune di queste furono portate ‹‹quando la trasmissione era ormai iniziata, attraverso un’improvvisata staffetta di uscieri, tecnici, assistenti di studio››[2. G. Simonelli, Speciale tg: forme e contenuti del telegiornale, Interlinea edizioni, Novara, 1998, p.11.].
Il notiziario “numero uno” della storia della televisione italiana fu un telegiornale anomalo, un’edizione straordinaria. Quel giorno la Rai aveva iniziato ufficialmente il servizio televisivo inaugurando gli impianti sparsi sulla penisola; il telegiornale della sera era un compendio delle telecronache andate in onda la mattina, parente povero della già pionieristica televisione. Quattro sono i filmati che declinano il suo esordio. Uno solo di interni: “L’ultimo omaggio al conte Sforza”, come venne titolato il minuto e mezzo che mostrava la parata di uomini politici, generali e ambasciatori, mentre scendevano dalla berlina nera per porgere l’ultimo saluto alla salma del ministro degli esteri repubblicano, Carlo Sforza, uno dei padri della Repubblica. Seguirono l’annuale regata di gondole sul Canal Grande, grande folla e folklore, e due servizi arrivati dall’America: le immagini del ciclone in Alabama e le “Sigarette elettorali”, con i pacchetti a stelle e strisce che escono uno dopo l’altro dalla macchina confezionatrice con stampato sopra “I like Ike” e “Stevenson for president”. Più che un notiziario quotidiano, quel primissimo telegiornale zero era una sorta di rotocalco filmato, preceduto da qualche notizia “dal vivo”: dal Lussemburgo la conferenza dei Grandi esaminava la proposta De Gasperi-Schuman per la creazione di un’autorità politica europea, al Cairo Neguib presiedeva una seduta fiume del governo rivoluzionario per l’esproprio delle terre, a Milano il consiglio dell’Union International des Avocats scopriva che l’Italia era il paese che aveva più avvocati, 30000. Sul finire, l’immancabile aggiunta dello sport, che quella sera riservava la notizia della vittoria di Alberto Ascari al Gran Premio di Monza, che lo laureò campione del mondo.
Racconta Caccia che il sonoro non c’era, montarlo sarebbe stato troppo difficile, visto la scarsità dei mezzi a disposizione. I magnetofoni a nastro che avevano sostituito il disco rigido, erano ancora poco maneggevoli. Il commento ai vari servizi veniva fatto a voce durante la messa in onda, sulla base di appunti che venivano letti in diretta o addirittura provenienti dalle cronache radiofoniche.
Erano inevitabili i lapsus, le papere, gli errori. Il telegiornale andava in onda solo tre volte a settimana, replicato la sera alle 22.30. Al sabato si trasmettevano “gli avvenimenti della settimana”, la domenica e il lunedì erano dedicati allo sport. Per dare tempo al collegamento, nel caso di servizi romani, entravano in scena i cartelli “qui Milano”, “qui Roma”. Tutti i giorni c’era un po’ d’America, un po’ di folklore americano, in grado di fare mero spettacolo. Di scioperi e manifestazioni il telegiornale sperimentale si accorgeva solo quando avvenivano fuori dall’Italia, non era gradita la cronaca nera, il delitto e il vizio non dovevano essere descritti in maniera seducente e attraente. La censura colpiva anche le notizie dall’estero, soprattutto se negative per l’Italia e i suoi alleati.
Il linguaggio di quel primissimo telegiornale era piano, discorsivo, privo della patina di ufficialità ed enfasi retorica, tratti tipici dell’informazione radiofonica, cui il telegiornale si ispirava. Raccontava Caccia: ‹‹Ci sforzavamo di personalizzare le notizie. Volevamo essere più umani, andando in onda parlando a braccio, cosa che alla radio, dove ogni parola era strettamente filtrata, non si faceva››[3. Bruzzone, op. cit., p.26.].
Il 13 aprile 1953 l’organizzazione del telegiornale venne rivoluzionata dall’ordine di servizio n.185 che istituì la Redazione Attualità e Telegiornale per curare tutte le trasmissioni di carattere informativo e giornalistico da attuarsi sia in ripresa diretta, sia a mezzo film. Fu così che la redazione del telegiornale divenne autonoma anche se dipendeva ancora dall’″Esercizio Tv″ di Pugliese. Il primo luglio arriverà Vittorio Veltroni, giornalista di fiducia di Piccone Stella, di fatto il primo direttore. Nel corso di questi anni il notiziario fu riorganizzato attraverso l’introduzione della scansione per pagine: in testa “le notizie dal vivo”, poi le “notizie dall’interno”, le “corrispondenze estere”, infine gli altri “servizi leggeri” e lo sport. Il telegiornale che muoveva i suoi primi passi era pieno di idee e curiosità, puntava molto sulla cronaca locale, mescolando dialetti, facce, luoghi e costumi.
Una seconda fase del telegiornale ebbe inizio nel ’61, e un termine nel ’76.
Nel ’61 nacque, infatti, il secondo canale dei rai che mandò in onda un suo telegiornale nel cuore della prima serata, dapprima attorno alle 21.30, al termine del primo programma serale o nell’intervallo dello spettacolo di prosa, poi, dal 1963, con inizio alle 21.00. Era il segnale di una nuova e maggiore attenzione all’informazione.
Le trasmissioni del telegiornale si moltiplicarono rapidamente. Migliorarono le attrezzature per le riprese esterne e vennero definiti i primi accordi internazionali per lo scambio dei materiali filmati.
Due le caratteristiche principali: modernità e aggressività, assente del tutto la sperimentazione di formule e contenuti, scopi perseguiti più da un altro tipo di informazione televisiva, quella del rotocalco, dell’inchiesta, del reportage o del dibattito. Ma i veri motivi di cambiamento vanno ricercati nella progressiva introduzione di una nuova tecnologia televisiva: il nastro per la registrazione videomagnetica, la famosa “rvm”, più diffusamente chiamata “ampex”. La possibilità di registrare su un nastro riduceva le distanze temporali tra gli avvenimenti e la loro trasformazione in formato elettronico. Da una televisione che trasmetteva tutti i suoi programmi solo ed esclusivamente in diretta senza poter “fermare” le immagini che mandava in onda, a una televisione che disponeva preventivamente e temporaneamente le immagini che avrebbe più tardi proposto ai suoi spettatori. Fu una svolta epocale.
C’era un rigido controllo su qualsiasi notizia non gradita al governo e alla Democrazia Cristiana. Furono aumentate le dirette ma la vita politica era ancora raccontata con cautela. Ci fu un processo di “romanizzazione”; il telegiornale si ideologizzava, diventando più cattolico. Il palazzo riusciva a dominare la scena del telegiornale, al punto da trasformare il notiziario in una vetrina delle vanità in cui si faceva a gara per apparire. Fuori le rubriche leggere e curiose, scomparve la cronaca dalle città per lasciare il posto ad una quantità immensa di inaugurazioni, commemorazioni, celebrazioni, mostre, fiere, occasioni scelte per inquadrare il personaggio. La cinepresa punta il suo occhio sul personaggio, il resto fa da sfondo.
La rotazione dei direttori mostrò quanta importanza venisse data al settore dei servizi giornalistici, affidati ad Antonio Piccone Stella. Quando Veltroni venne sostituito da Rendina, le edizioni quotidiane del notiziario divennero tre (17.30, 20.30, 22.30). Nel ’59 Rendina cedette il posto a Piccione, due anni più tardi assunse la carica di direttore generale della Rai Ettore Bernabei che chiamò alla direzione del telegiornale Enzo Biagi, il quale accettò a condizione di poter soffocare le spinte politiche esterne. La sua intenzione era quella di costruire un telegiornale, fatto anche di immagini, come si costruisce un giornale, in cui ci fosse dentro tutto. Con lui il telegiornale subì un radicale processo di modernizzazione: sparirono i servizi che davano solo lustro ai politici e venne dato molto più spazio alla cronaca nera e rosa, sulla base del modello del telegiornale americano. Biagi sperimentò formule nuove, portando in tv i processi, in un’epoca in cui per la televisione le aule di giustizia sono off limits. Sognava un telegiornale come un mezzo efficiente di giornalismo, non uno strumento fumettistico, nocivo, ‹‹capace solo di strappare le lacrime alle masse più ingenue e meno attente dei telespettatori››[4.  Bruzzone, op.cit., p. 109.]. Più di tutti, Enzo Biagi aveva compreso una cosa: la televisione era un servizio pubblico, un servizio del cittadino. Egli riuscì a dare una scossa al telegiornale, umanizzandolo, spogliandolo da toni di burocratismo formale, da un’informazione filogovernativa quasi a senso unico. L’era Biagi durò solo un anno: Bernabei lo sfruttò per rompere ogni rapporto con la vecchia Rai dei Piccone Stella e dei dirigenti della vecchia Eiar.
Un nuovo periodo per il telegiornale iniziò nel 1976. Quindici anni, fino al 1991 noti come gli anni della rivoluzione neotelevisiva. Lo scenario televisivo italiano mutò completamente nel numero delle emittenti, nell’espansione dei loro palinsesti, nella natura e nella struttura delle loro emissioni. Il telegiornale appariva come un simbolo di resistenza, formula consolidata nella storia della televisione, di quella televisione tradizionale che stava rapidamente scomparendo: diventò per un certo periodo ciò che distingueva l’emittenza pubblica da quella privata.
Nel 1979 s’inaugurò il telegiornale della terza rete con un’edizione divisa tra informazione nazionale e informazione regionale.
I grandi network si fecero avanti: uno di questi, Rizzoli, costruì nei primi anni ’80 un telegiornale attorno alla figura, estranea alla tradizione nazionale ma già mitica nell’informazione americana, dell’anchorman e lo mandò in onda ‹‹giocando sul filo del rasoio con i problemi della diretta, non ancora consentita dalla legge››[5.  Simonelli, op. cit., p.20.]. L’anchorman si chiamava Maurizio Costanzo, il telegiornale si chiamava Contatto.
Dopo il passaggio a Berlusconi nel 1983, anche Italia 1 propose un telegiornale di poco valore: cinque minuti di notizie lette, in onda solo per la Lombardia, così come voleva la legge, con il breve commento di Indro Montanelli.
La mondadoriana Rete quattro mise in atto un progetto di telegiornale, Ultimissima, che sarebbe dovuto andare in onda grazie al lavoro di una redazione di quindici giornalisti e alla consulenza dell’ABC , ma anche questo progetto dapprima venne accantonato e poi finì travolto dalle vicende del network, venduto nell’84 a Silvio Berlusconi.
In riferimento al TG1, ci fu un ampliamento e un rinnovamento nell’offerta. Nell’87 le edizioni del TG1 arrivarono a sei al giorno; l’anno successivo la terza rete introdusse due nuovi appuntamenti, il telegiornale di metà serata e quello della notte. I telegiornali erano riformati in tutte le loro caratteristiche: giornalisti come Mario Pastore e Italo Moretti promuovevano nel loro telegiornale uno stile molto personale, la messa in scena di un dialogo con il telespettatore, una vivacità inusitata. Oggetto di cambiamento era il modello enunciativo del telegiornale: dall’epoca dei giornalisti si passava all’epoca dei conduttori, ad un’epoca legata ad una rappresentazione più che informativa, spettacolare. Le regole, le formule, i fenomeni tipici dello spettacolo invadevano i generi dell’informazione, arrivando a condividere l’ipotesi dell’appartenenza del telegiornale all’area dell’infotainment. Esempio emblematico di questo processo di contaminazione, la conduzione del TG1 di Emilio Fede nel 1983, alternata alla conduzione di Test, un programma di intrattenimento in prima serata. Il conduttore era paragonato alla figura tipica dello showman.
Un altro cambiamento all’interno di questa fase si riscontrò a livello politico. La componente politica era un dato già emerso nei periodi precedenti, al di là della pretesa di imparzialità, di rappresentare un punto di vista al di sopra delle parti, coincidente con una sorta di interesse comune nazionale. Ma questa dimensione politica del telegiornale era rimasta fino alla metà degli anni ’60 come silenziosa, in sordina. Adesso il telegiornale era uno dei luoghi privilegiati del conflitto politico. Esso costituiva solo il palcoscenico in cui si svolgeva la battaglia, era anche l’oggetto, il motivo del contendere.
Gli anni ’90 fanno parte dell’ultimo periodo della storia del telegiornale che prese avvio dalla legge Mammì, per mezzo della quale si riconoscevano le posizioni conquistate dai network della Fininvest, concedendo alle reti private la diretta e “obbligandole” a produrre il telegiornale. Il 1992 fu l’anno della Fininvest. Iniziarono le edizioni del TG5 e del TG4 di Emilio Fede; la direzione del telegiornale di Italia 1 venne affidata a Paolo Liguori. La concorrenza degli anni ’90 era di natura commerciale, il telegiornale appariva come un prodotto da vendere, meglio dei suoi concorrenti, sul mercato pubblicitario. Ma a questa enorme diffusione di testate e di testi non corrispondeva affatto un’ampiezza di temi trattati né una varietà di informazioni, ad essere stimolate erano piuttosto la più prevedibile imitazione, la ripetizione degli stessi modelli, l’appiattimento sulle stesse formule. Si copiavano persino gli orari: lo dimostra la prassi della controprogrammazione, cioè la decisione di inserire in una data fascia oraria un programma affine a quello che la rete concorrente già programmava alla stessa ora.
Il periodo si caratterizzava per una dimensione nuova: la concorrenza tra le testate e, per mezzo di queste, tra le reti. Le contrapposizioni erano facilmente intuibili in base agli orari di messa in onda: Canale 5 si poneva in concorrenza a Rai 1, Italia 1 a Rai 2, Retequattro a Rai 3. Tutto questo ha imposto ai telegiornali un’esigenza di riconoscibilità, un simbolo: il logo. Tutti i programmi di informazione, tra questi il telegiornale, hanno così scelto un logo che occupa stabilmente un angolo del video.

(Continua…)

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Grazia Boemia

Classe 1983, si è laureata a Catania in Scienze della Comunicazione per poi continuare gli studi a Milano, dove ha conseguito la laurea specialistica in Cultura e storia del sistema editoriale. Attualmente risiede a Roma, dove lavora come formatore del personale.