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UN sortinese che oltre a poetare e filosofeggiare fu promotore della “lingua vernacola”

“Or questo è lo scopo della presente opericciuola: communicare a’ giovani l’eloquenza unita alla filosofia”

Giuseppe Gentile non era un poeta, non era uno storico di professione, non era un linguista. Non era neppure un filosofo in senso stretto. E tuttavia scriveva versi, discettava di filosofia, si occupava con una propensione tutta sua di promuovere l’uso della “lingua vernacola”. Ci deve essere stato un tempo in cui una visione così forte e così totalizzante dovette determinare Gentile in questo intendimento. Così egli si esprimeva in proposito, nel 1816: «Che sia per Noi importante scrivere nell’idioma vernacolo è una verità, che mi colpì profondamente sin d’allora che fu da me conosciuta»[i].

Alcuni anni prima, nella Prefazione al Saggio filosofico sull’eloquenza[ii], che qui riproponiamo integralmente all’attenzione del Lettore, Giuseppe Gentile prometteva chiarezza e semplicità. Di più: prometteva che egli stesso sarebbe stato esempio di chiarezza e di semplicità, perché l’eloquenza unita alla filosofia è il metodo con il quale è possibile raggiungere la non trascurabile meta della felicità. Occorre però puntualizzare e mettere adeguatamente in rilievo quest’aspetto fondamentale del pensiero dell’abate Gentile, ossia che la sua opera si rivolgesse ai giovani e non fosse stata scritta per i professori. E invece sulla questione pedagogico-didattica si è sorvolato, considerandola probabilmente una problematica tra le tante, semplicemente da far discendere dal tale o talaltro filosofo. Se ne trova appena un riferimento in M.P. Donato[iii] e in D. Scinà[iv]. Con toni perentori, quest’ultimo afferma che il Saggio di Gentile non sia adatto a formare oratori o poeti, ma ha il pregio di allontanare i giovani dalla pedanteria. Bisogna però ricordare che il giudizio di Scinà si fondava sulla lettura del secondo volume, che è indubbiamente la parte meno “sugosa” del saggio, per dirla alla maniera dello stesso Scinà. Non da ultimo è opportuno ricordare, poi, che si è sorvolato sul valore da assegnare all’intero corpus degli scritti di Gentile; aspetto questo che merita ancora di essere affrontato e accuratamente indagato.

È lo stesso Gentile a dichiarare espressamente che tutti quelli che si sono occupati di eloquenza e filosofia prima di lui si sono persi in teorie incomprensibili ai giovani, o perché troppo vaghe oppure in quanto eccessivamente dettagliate. Ed effettivamente non si può dire che ai tempi di Gentile fosse una novità dichiarare in scritti del genere una solenne quanto, spesso, formale adesione alla causa della chiarezza, individuando nei giovani i beneficiari dei loro sforzi letterari. Ma sia nel Saggio che nelle sue opere successive Gentile continua a proporsi come esempio concreto per i giovani: per ben pensare; comunicare con chiarezza le proprie idee; allettare. Nel primo volume del Saggio questa convinzione trova la sua più generale formulazione, che poi verrà praticamente chiarita nel secondo volume. Più tardi, nel 1816, sarà questa stessa tensione ideale a dare corpo e struttura ai Componimenti[v], per quanto non si tratti perlopiù che di scritti d’occasione, successivamente raccolti e pubblicati. E tuttavia i Componimenti non sono opera composita ma unitaria. Nella Prefazione si afferma che preciso intento dell’autore è accostare la lingua siciliana alla toscana e in fine al latino, con il preciso intento di mostrare concretamente la superiorità della lingua vernacola. Una questione, questa del Sicilianismo linguistico, appena accennata nel 1794, giunta in fine a maturazione nel 1816, dopo qualche discussione con amici e corrispondenti.

Sembra peraltro chiaro che lo studioso sortinese fosse consapevole della relativa esiguità delle sue competenze (letterarie, linguistiche, filosofiche, etc.) e che il pregio del suo lavoro non risiedesse tanto nell’originalità dei temi proposti, quanto piuttosto nel loro essere calibrati per una platea di giovani. E tuttavia, tra quanti si sono occupati del suo lavoro, l’aspetto pedagogico-didattico sembra sia rimasto in ombra, quando non trascurato del tutto. È il caso di S. Russo[vi], di F. Lo Piparo[vii] e di S. Vecchio[viii], che meritoriamente si sono fatti carico d’indicare quali fossero, rispettivamente, le ascendenze e i legami più o meno stretti tra il pensiero di Gentile e alcuni pensatori dell’Illuminismo italiano e francese; che ne hanno chiarito la rilevanza e quindi la relativa influenza nel contesto delle discussioni tra i dotti dell’epoca, nel merito del cosiddetto Sicilianismo linguistico. Ciascuno peraltro avendo cura di ben circoscrivere il proprio ambito d’indagine, trascurando il resto. Impostazione metodologica, questa, senz’altro corretta. Corretto anche fare rilevare i molti elementi di debolezza delle argomentazioni che Gentile adduceva a sostegno della tesi che vorrebbe il dialetto siciliano come lingua nazionale in Sicilia, in luogo della lingua toscana. E tuttavia Gentile scrive, interpella letterati, insiste con costoro affinché scrivessero essi stessi in siciliano, sulla scorta di una visione utopica della realtà storica e politica che egli aveva della Sicilia. Era rimasto abbagliato dall’idea che la Sicilia potesse diventare una nazione con una sua lingua propria; che potesse, quindi appartenere a se stessa politicamente e linguisticamente. Niente di più che un sogno, un’utopia. I fatti gli daranno drammaticamente torto; le argomentazioni portate erano destinate a franane già al cospetto della critica dei suoi contemporanei. E tuttavia, come dargli torto, se egli vedeva già allora il dialetto siciliano “così vilipeso e malmenato”, da cui i tentativo di risollevarne le sorti, per quanto con deduzioni non del tutto pertinenti. Tutto ciò, però, non giustifica affatto i giudizi sprezzanti di S. Vecchio, che non perde occasione per definirlo “mediocre”, “ingenuo”, “provinciale” in senso deteriore, “zelante abate”: sostanzialmente un incapace pretenzioso. Salvo, contestualmente, farne il perno polemico del suo saggio del 1988[ix], accordando all’utopia gentiliana ampio spazio sia nel testo che in appendice. Forse perché tutte le utopie fanno sempre breccia, persino nel cuore dei più riottosi e intransigenti, anche oltre le loro stesse intenzioni. Oppure dovremmo ammettere che si sarà confuso, l’illustre professore Vecchio, barattando l’acribìa con la critica. Ma si sbagliava, perché se c’è un pregio che possiamo senz’altro attribuire al pensiero di Gentile, è la coerenza, come correttamente affermato da F. Lo Piparo.[x]

 

Prefazione di Giuseppe Gentile al Saggio filosofico sull’eloquenza

“L’Eloquenza interessa sopra ogni altro la felicità dell’Uomo. Essa c’insegna a comunicare i proprj bisogni a’ nostri simili, somministra l’arte di determinarli al nostro soccorso, ci addita la strada d’istruirli col loro piacere ne’ propj doveri, in breve, è un mezzo efficacissimo per raggiungere la nostra, ed altrui perfezione. E si può disprezzare un’arte così interessante? E pure ne’ passati Secoli, s’è fatto poco conto dell’Eloquenza. Quando prima era l’oggetto più nobile de’ migliori [1] Filosofi, in appresso fu abbandonata a’ Pedanti. Costoro separandola dalla Filosofia, la sparsero di mille tenebre, la collocarono in certi suoni vuoti di sentimento, e la invilupparono in mille precetti, in somma ne trasformarono intieramente il suo quadro.

Ma per nostra avventura in questi tempi si vede di nuovo restituita nel primo suo posto. Oggi si trova situata in un luminoso prospetto; il suo pregio è riposto nel maneggiare pensieri sodi, [2] e robusti; le sue regole non si riducono se non a pochi principj ben ragionati. Qual è stata la sorgente di questo felice cambiamento? Non altro, che la Filosofia. Perché l’Eloquenza di nuovo s’unì colla Filosofia, per questo si trova in una così vantaggiosa situazione. Dunque si deve insinuare a Giovani un pensar Filosofico, per far progressi in quest’arte. Or questo è lo scopo della presente opericciuola: communicare a’ Giovani l’Eloquenza unita alla Filosofia.

Io non pretendo colle mie riflessioni uguagliare l’onore di questi Filosofi. Che si sono occupati di questa materia. È vero, che ne’ loro Scritti si trovano ancora certi vuoti da riempirsi, mentre vi sono molti punti sepolti nel silenzio, ed altri moltissimi discussi si, ma non bene sviluppati. Ma io non pretendo riempire questi vuoti; solo proccurerò inserirvi alcune riflessioni a misura della mia debolezza. Il mio scopo principale è di mostrare a’ Giovani l’Eloquenza in un Filosofico prospetto, e sottratta dal fosco pedantismo.

Sebbene questo profitto possa meglio sperarsi dagli altri Scrittori, che han trattata a dovere l’Eloquenza, ciò non ostante non ho creduta questa mia fatica. Tutti coloro, che han parlato dell’Eloquenza con Filosofia, o l’hanno trattata con sublimi Teorie inaccessibili a’ Giovani, o si sono attenuti a dettagli particolari, o si sono al sommo diffusi. Io però ho pensato formare un saggio chiaro, universale, breve, ed in questa maniera mi lusingo, che possa riuscire a’ Giovani di qualche giovamento. Soprattutto mi sono impegnato di seguir la chiarezza, come quella, che forma il carattere più essenziale nei discorsi a’ Giovani. A tal fine ho procurato ordinare bene l’idee, ed illustrarle con spessissimi esempi; circostanze, che conferiscono moltissimo alla chiarezza.

Per venire alla divisione dell’Opera, essa è composta di due parti, l’una Teoretica, e l’altra Pratica. Nella prima si contempla l’Eloquenza in tutti i suoi rapporti; nella seconda s’assegna un breve metodo per giungere a ben possederla. In questa ultima parte m’astengo di dar regole, e precetti particolari, che sono piuttosto di ostacolo a’ progressi de’ Giovani, ed inviluppano il loro spirito, ma solo vò loro mostrando certi principj generali, e la maniera d’individualizzare questi principj.

Resta finalmente d’avvertirsi a’ Lettori, che io non ho preteso mai scrivere per li Professori di quest’arte, e dar loro insegnamenti, ma solamente per li Giovani. Questi pure devono restare avvisati, che prima d’accostarsi all’Eloquenza sia loro necessario premettere il corso i molti studj, specialmente d’una buona Logica, e della Filosofia dell’Uomo, come s’esaminerà distintamente nell’ultimo capitolo della prima parte.

 

Giuseppe Gentile è nato a Sortino il 12 novembre 1767 dove tornerà a vivere stabilmente solo nel 1818, quando sarà nominato parroco della Chiesa Madre di Sortino, che reggerà fino al 1829, data della sua morte. Da Sortino fu corrispondente dell’Accademia Gioenia e sempre a Sortino compose due tragedie: Sofia e Peribea. La sua opera prima risale al 1794/95 quando pubblicherà in due volumi il Saggio filosofico sull’eloquenza. Una serie di odi, invocazioni, elegie, orazioni scritte in siciliano, italiano e latino saranno saltuariamente pubblicate da Gentile tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento e poi raccolti e stampati, nel 1816, nei Componimenti di l’abati Giuseppi Gentili da Sortinu, professuri un tempu di eloquenza ne lu seminariu di Siracusa.

 

[1] Cic. Lib. 1. De Orat.

[2] Prima il bello dell’Eloquenza così poetica, come prosaica si riponea in certi concetti ridicoli, in metafore viziose, in espressioni ampollose, e specialmente nella poesia, dove i bisticci, le allusioni, e simili puerilità erano portati in trionfo. Oggi non è così: si va in traccia di pensieri sodi, utili, ben ragionati, in una parola, sempre si va al buon gusto. In fatti, per ristringerci alla sola Sicilia, basta gettare un’occhiata alla raccolta degli Opuscoli Siciliani, dove si trovano ottimi pezzi di Eloquenza: e per tacer di ogni altro, basta a convincerci il famoso Poema su i Doveri dell’Uomo del celebre Signor Conte Gaetani della Torre, in cui la grazia, la novità l’arte, e la regolata imaginazione grandeggiano da per tutto. Sarebbe inutile, che io ne analizzassi quì tutto il bello, dopo che l’Illustre Commendatore Castelli in una sua lettera, le Efemeridi, il Giornale Ecclesiastico di Roma, i Giornalisti di Cesena, di Napoli, ed altri l’hanno esaltato, e commendato, e precisamente la Memoria Apologetica, che ne ha publicata in Palermo Monsignor Santacolomba Vescovo di Anamastia, e Abate di Santalucia, ed Uom sì conosciuto, e rispettato nella Republica Letteraria.

[i] Giuseppe Gentile, Componimenti di l’abati Giuseppi Gentili da Sortinu, professuri un tempu di eloquenza ne lu seminariu di Siracusa, Franciscu Pasturi, Catania 1816.

[ii] Giuseppe Gentile, Saggio filosofico sull’eloquenza, 2 voll., Regie Stamperie del Pulejo, Siracusa 1794-1795.

[iii] Maria Pia Donato, Voce Giuseppe Gentile, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 53, 2000. Ora anche in Sortino identità culturale e memoria. Eventi culturali 1997-2002, Comune di Sortino, Sortino 2004, pp. 121-122.

[iv] Domenico Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo Decimottavo dell’abate Domenico Scinà regio storiografo, vol. III, Palermo 1827, pp. 440-441.

[v] Giuseppe Gentile, Op. cit., 1816.

[vi]Salvatore Russo, Nota di bibliografia vichiana. Il Saggio filosofico sull’eloquenza di Giuseppe Gentile da Sortino, in ASS, anno VII, Siracusa 1961, pp. 46-66.

[vii]Franco Lo Piparo, Sicilia linguistica, inStoria d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, pp. 735-807.

[viii]Sebastiano Vecchio, Una nazione senza lingua. Il Sicilianismo linguistico del primo Ottocento, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo 1988.

[ix] Idem.

[x] Franco Lo Piparo, in Sortino identità culturale e memoria. Eventi culturali 1997-2002, Comune di Sortino, Sortino 2004, p. 132.