Al momento stai visualizzando Il braccio destro

I suoi colleghi, e i miei pochi amici, sono sempre stati convinti che Marina e io abbiamo avuto una relazione, nei cinque anni in cui abbiamo lavorato insieme. Non è vero. Ci si prendeva in giro e si litigava, anche, talvolta per delle stupidaggini, per puntiglio, proprio come fanno certe coppie. Probabilmente ne ero innamorato, sebbene affermassi il contrario; mi difendevo da me stesso e soprattutto non volevo prestare il fianco alle chiacchiere di chi avrebbe detto che approfittavo della mia posizione, del prestigio del mio ruolo. Non volevo che Marina diventasse l’argomento preferito delle chiacchiere d’ufficio, argomento buono per pettegoli e perditempo cui faceva gola la vita sentimentale degli altri.

A voler essere del tutto sincero, a pensarci bene adesso, ne ero attratto ma non riuscivo a prendere l’iniziativa; ammetto che aspettavo da lei qualcosa, un segnale, un atteggiamento o delle parole inequivocabili che mi dessero il coraggio di dirle ciò che provavo senza rischiare l’umiliazione di un probabile rifiuto.

A giudicare dalla confidenza che c’era tra noi, non le ero del tutto indifferente; e anche se negli ultimi mesi i nostri rapporti (di collaborazione, s’intende) si erano fatti più distaccati, meno naturali, a volte impacciati, fu una doloroso apprendere che si sarebbe dimessa. Era in cerca di nuovi stimoli, disse, e voleva ricominciare da un’altra parte. Aveva ricevuto un’offerta favolosa e  irrinunciabile (parole sue) da un’azienda estera, non volle dirmi quale, e alle mie domande insistenti aveva risposto con un’alzata di spalle.  E mentre lasciava la lettera di dimissioni sulla mia scrivania, aggiunse: – “Sono irrevocabili”. Alle mie deboli proteste (balbettavo stupidamente) rispose che non voleva morire di noia in questa città, che aveva bisogno di nuovi stimoli.

I buoni motivi di Marina, elencati in ordine di importanza (è sempre stata piuttosto esigente in fatto di priorità) erano per me dei pretesti. Non volevo crederle e allo stesso tempo stentavo a trovare le parole, come se quanto avevo da dire (poco? molto?) fosse risibile, inutile di fronte a tanta determinazione. Era ostinata, lo sapevo bene.

Discorsi ininfluenti, avrebbe detto lei, giusto per contraddirmi. Due settimane di preavviso! Un tempo insufficiente per convincerla a restare. Era capitato altre volte, che si affrontasse l’argomento della sua insoddisfazione, ma avevo sempre pensato che scherzasse. Adesso era davanti a me scrivania con quei suoi occhi luminosi che mi fissavano con indifferenza, quasi non provasse una sola emozione delle tante che avrebbe dovuto provare nel dirmi addio.

Eccola, dunque, dimentica della simpatica complicità che s’era stabilita tra noi, un’attrazione che entrambi chiamavamo fiducia, stima. Il mio braccio destro, l’efficiente e stakanovista Responsabile delle Risorse Umane stava per lasciarmi, e in un frangente non particolarmente sereno per me. Aspettavo la visita ispettiva degli emissari del Grande Capo, e Marina non sarebbe stata al mio fianco! Per un direttore di filiale è vitale la presenza di collaboratori in gamba, e lei lo era più degli altri. La migliore risorsa dell’azienda.

Avrei voluto baciarla, invece ho farfugliato come uno scolaretto soggiogato dal ruolo autorevole della maestra. Ho tirato con un respiro frettoloso l’aria polverosa del mio ufficio, tossicchiando e allargando le braccia come in apnea. Le ho detto:

– Hai un buon lavoro, siamo insieme da tanti anni, perché vuoi andartene?

– Ho bisogno di nuove esperienze. Mi spiace, è tanto che penso di cambiare città. E ora è arrivata la grande occasione.

– Dimmi che è uno scherzo.

I colleghi (sapevano!) continuavano a entrare per congratularsi con lei, a chiedere dei suoi nuovi progetti, a farsi beffa, suppongo, dei miei sentimenti con una leggerezza colpevole.

– Potresti pentirti di una decisione affrettata, ho insistito.

– Non mi piace più stare qui.

E ha indicato l’arredo, le pareti e persino me.

– Vuoi un aumento di stipendio?

Uno degli impiegati ha dischiuso la porta, e proposto che si pranzasse tutti insieme. Marina gli ha sorriso: – Solo se viene anche il capo.

– Sicuro! Il capo è sempre il capo – ha scherzato Roberto, il contabile quarantenne che porta orribili cravatte fuori moda che non si addicono al suo carattere e al mio. Un tempo avevo stima di lui, lo difendevo quando Marina si divertiva a punzecchiarlo e a ridere alle sue spalle. Poi i due hanno fatto amicizia. E Roberto è diventato intoccabile, tanto da scatenare la reazione enfatica di Marina a una mia battuta acida sul conto di lui. Ricordo bene la sua predica sulla dignità della persona (la stessa che lei aveva preso in giro, la stessa persona che adesso faceva capolino nel mio ufficio) e sulla bassezza di certi sentimenti quale l’invidia, la gelosia. La difesa appassionata di Roberto da parte di Marina mi aveva aperto gli occhi (sì, ero geloso!), non abbastanza, però, da incoraggiarmi a fare un passo decisivo. Marina ha continuato (pareva un treno in corsa) a elencare le qualità umane e professionali del contabile (che le ha sempre fatto la corte, senza successo); e mentre lei parlava e parlava con foga, cercavo di respingere quella parola, gelosia, un sentimento che ne sottolineava un altro, tenuto a bada, per difesa, ora lo so, dopo l’esperienza fallimentare con G.

Ero geloso, e stavo facendo una figuraccia. Ho dovuto ammettere (a me stesso soltanto) che sì, Roberto mi era diventato antipatico per la cattiva abitudine di intromettersi tra Marina e me.

– Infatti, sono il capo. Tu no, evidentemente.

L’altro ha continuato: – Andiamo in trattoria, offro io.

– Non ne vedo la necessità, non mi pare un evento da festeggiare.

– Ci vediamo al solito posto – gli ha sorriso lei. Ho bruscamente chiuso la porta sulla faccia sbalordita del contabile.

– Li scegli con cura, i tuoi amici – ho detto, tanto per dire qualcosa.

Lei ha ribattuto: -Vuoi dire che non siamo più amici, noi due?

Avrei dovuto cogliere l’occasione per… ma non l’ho fatto.

– Andiamo a pranzo – ho risposto, maledicendo quel timore subdolo che per anni mi ha preservato dalle illusioni, dalle emozioni forti, dalla disillusione; mi sentivo stupido, e certo lo ero agli occhi di lei, bellissimi, verdi come un fondale marino abitato da colonie di alghe.

Per mia soddisfazione Roberto e gli altri impiegati non erano in trattoria. Non avrei sopportato le ciarle di cui spesso ci si riempie inutilmente la bocca. Evidentemente il mio sguardo infastidito aveva funzionato. Anche per gli altri. Si fa presto a fare capire agli invadenti quando non è il caso di insistere, e Roberto è colui che immancabilmente propala a tutto l’ufficio il mio cattivo umore, un messaggero perfetto e inconsapevole. Potevo godere della compagnia di Marina senza fastidiose ingerenze.

Davanti a un piatto di carne e insalata, lei ha iniziato a parlare della sua infanzia, del padre che aveva lasciato la famiglia per assecondare la propria inquietudine o semplicemente il proprio egoismo. Ho provato disagio per le confidenze inaspettate, intuivo che questo argomento la faceva soffrire (le si velava lo sguardo, diventava malinconica come un giorno di pioggia).

– Era un bell’uomo sai, bello come un divo americano. Ti ho fatto vedere la foto, somigliava a Gregory Peck… in quella foto giovanile in cui aveva vent’anni e non era ancora mio padre. Perché mi guardi così? In potenza, lo era, ma non si dovrebbe dire che l’uomo che stai guardando in una foto di gioventù è tuo padre, se non ti ha ancora generato…

– Deve essere stata dura per te.

– Già. Ma siamo qui per pranzare, no? E allora mangiamo, ho fame.

*

Ho bussato. Lei ha richiuso il cassetto della scrivania.

– Vuoi parlare con me? Dirmi qualcosa? Scusami, ho fretta. Ho capito: vorresti accompagnarmi, ma non è necessario. Ho chiamato un tassì. Ma cosa stai guardando?

– Il poster. Non ci avevo fatto caso, è veramente bello. L’hai comperato da poco?

Fingevo di interessarmi ad altro per non pensare che stava svuotando i cassetti, fingere di non vedere le chiavi dell’ufficio poggiate sulla scrivania…

– Davvero ti piace? Te lo lascio. Mare, palme di cocco, sabbia finissima. Dà un senso di immobile tranquillità, di felice smemoratezza. Ecco, dovessi dargli un nome, lo chiamerei Un posto dove tutto va bene.

L’ho pregata di lasciarmi il suo nuovo indirizzo.

– Non ce l’ho ancora, un indirizzo. Mentiva, lo sapevo bene.

– Mi telefonerai? Posso chiamarti, di tanto in tanto?

Marina ha sorriso con indulgenza. Ha fatto due passi verso me, e guardandomi negli occhi ha sussurrato: -Ti ho sognato, la notte scorsa; eravamo insieme, Nicola, nell’area di sosta di un’autostrada deserta. Ti mancava un braccio, l’altro l’avevi dato a me. Ti ho chiesto cosa dovessi farne. Hai risposto che dovevo metterlo in valigia perché un giorno o l’altro mi sarebbe servito.

Ero sorpreso, confuso, imbarazzato. Marina parlava di se stessa, era lei il mio braccio destro!

– Non è un bel sogno, è un sogno strano, lo so. Mi dispiace averti turbato… stanotte sognerò di restituirti il braccio. Te lo prometto.

Sono passati due mesi e Marina non mi ha fatto sapere dove abita, non conosco il suo indirizzo, le mie e-mail tornano indietro, ha cambiato il numero del suo cellulare. Aspetto si decida a farsi viva, che ritorni e ammetta che la sua decisione è stato un colpo di testa, una di quelle stupide, assurde ostinazioni di cui vale la pena pentirsi. Ogni mattina guardo la posta elettronica con la tenace, assurda speranza di trovare un suo messaggio, sto a presidiare il telefono che non mi porta la sua voce.

Chiunque entri nel mio ufficio osserva (e non dice) l’improvviso disordine di carte, scartoffie, penne, fogli alla rinfusa sulla scrivania un tempo ordinatissima. Soltanto tre giorni fa è entrata nella squadra la nuova assunta, la nuova Responsabile delle Risorse Umane. Agnese, si chiama, un tipo remissivo, direi banale, che risponde alle mie disposizioni con una vocina esile che a me pare servile, sgradevolmente accondiscendente.

Guardo sulla parete di fronte alla mia scrivania il poster che Marina mi ha lasciato, il paesaggio di mare e sabbia e palme di cocco che vorrei strappare, buttare nel cestino. Due notti fa, ho sognato il sogno di Marina, il sogno di lei in cui c’ero anch’io, con un braccio solo. Come nel sogno di lei, l’autostrada era deserta, non un rumore, niente automobili. Non c’era anima viva.

Maria Gabriella Canfarelli