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© Paola Risoli, Gardens

IMPRESSIONI DI LETTURA DI UN PIEMONTESE CHE MAI SI SPIEMONTESIZZEREBBE
(Neanche per comporre tragedie)

 

© Paola Risoli, Gardens

Un tardo pomeriggio di primavera avanzata. Le sponde di Varaita cantano. Sono allodole, ghiandaie, gazze, merli, più lontano rondini… Le acque del torrente guizzano, bolla dopo bolla, di salti di pesci e di gracidio di rane, che chiedono la pioggia, come dicono i vecchi; quei vecchi che sono abituati a mangiare anche le rane (piatto da festa), così come le lamprede, che trovano nelle gore morte tra Varaita e i mille ruscelli che solcano questo pezzo di pianura ricco di acque.
Tra Racconigi, Murello, Villanova Solaro e Caramagna: terre antiche del marchesato degli Aleramici del Vasto; terre tenute già con saldo pugno da Margherita di Foix dopo la morte dell’amato sposo Ludovico II e del figlio Michele Antonio, atterrato ad Aversa assediata da un colpo d’obice ispano-imperiale e talmente amato dai suoi sudditi da farne eroe di canzone popolare, lui e il suo testamento[1. Si tratta della canzone popolare Il testamento del Marchese di Saluzzo (cfr. Nigra, Canti popolari del Piemonte; Torino 1888, 20095; nr. 136), poi ripresa nella musica e, in parte, nel testo, dalla canzone militare della I guerra mondiale Il testamento del Capitano o Il Capitan della compagnia.].
Mentre i raggi sempre meno asfissianti del sole si fanno sprazzi tra il fogliame dei pioppi e delle betulle della campagna: quando cioè noi diciamo che ël sol a fà babòja (cioè “gioca a nascondino”) o a fà giajèt, cioè il sole produce macchie di luce (giajèt, appunto) tra il fogliame degli alberi (giajèt, vecchia parola parente della lingua d’oc usata pure dai trovatori e dai toscani delle origini, e applicata anche alle vacche pezzate, dette da noi appunto giaje…), un uomo avanza sicuro a passeggiare dove l’erba è meno alta e dove il sentiero appare appena appena visibile tra le tane dei conigli selvatici e i monticelli di terra umida e molle (montrucòt) lasciati dalle talpe che hanno scavato le loro gallerie come vene che attraversano il corpo della madre terra. Non molto alto, con un abito chiaro elegante e col gilet attraversato dalla spessa catena d’oro dell’orologio, ornata da ciondoli di foggia massonica (anche il muro esterno della sua casa è significativamente dipinto a scacchi bianchi e neri…).
Rimugina tra sé la trama di un racconto (o addirittura un romanzo, chissà…), ma nel suo animo alberga una malinconia profonda, malinconia per come era la sua terra (ed i suoi abitanti): il Vecchio Piemonte dei suoi racconti del 1889 e poi del 1895, ben diverso da quell’Italia che, fatta unita dal sangue e dai sacrifici (anche economici, certo) dei suoi compatrioti, adesso aveva messo il Piemonte in un angolino… Meglio davvero andarsi a “sotterrare” tra personaggi e vicende di altri tempi, ben più gloriosi, per la sua piccola patria: il medioevo dei signori feudali (I Lancia di Faliceto) o i secoli XVII e XVIII, che avevano visto il Piemonte misurarsi alla pari con i grandi stati d’Europa, fino però ad incontrare poi l’inizio della sua decadenza con i tempi della rivoluzione francese, con i branda[2. Così si chiamavano in Piemonte i controrivoluzionari che appoggiavano l’ancien régime (i Sanfedisti), dal nome del loro mitico capo, il capitano Branda de’ Lucioni.] e i giacobini che, non fossero bastati francesi ed austro-russi, si combattevano anche tra fratelli… Quanto aveva ragione suo padre, l’avvocato Claudio, che, appena fatta l’Italia, aveva quasi subito capito l’inganno degli “italiani” verso i piemontesi, scrivendo quella bella poesia con protagonista Gianduia, che mugugnava[3. È la poesia Lament ëd Giandoja, pubblicata nel 1868.] proprio come in effetti faceva in quegli anni quasi tutto il popolino piemontese, ma anche borghesi e nobili non le mandavano certo a dire alla nuova situazione politica ed economica. Aveva ragione suo padre: adesso lo capiva anche lui, e per questo tornava sempre col pensiero al Piemonte di una volta.
Appunto, la rivoluzione: i branda, i giacobini, i francesi, gli austriaci, i russi. Il suo ultimo romanzo, Juliette, pubblicato poco più di un anno prima, riguardo al quale aveva però ricevuto qualche critica dagli amici, da Corradino Corrado[4. Cfr. lettera del 29 dicembre 1908 da Borgio Verezzi (Savona), inedita; conservata presso il Fondo Patetta della Biblioteca Vaticana di Roma. C’è da notare un piccolo, probabilmente spiegabile, anacronismo, dato che il romanzo, edito da Roux e Viarengo, porta come data di edizione il 1909, mentre la lettera è, come detto, del 1908.] che, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, prima loda e poi trova da criticare[5. «(…) per soddisfare finalmente al gran bisogno che avevo di dirti la gratissima impressione provata alla lettura della tua Juliette. Ne parleremo naturalmente ancora; ma intanto mi piace dirti che mi son letto il libro d’un fiato, senza potere smettere affatto la lettura dal momento in cui l’avevo cominciato. E questo, per un novelliere o romanzatore, è, mi pare, il successo più lusinghiero. Non apparterrei alla antipatica razza dei letterati, se anch’io non trovassi qua e là a ridire su qualche cosa. Per accennarne una, oserò affermare, per esempio, che non l’ho mai visto, come in questo tuo racconto fare abuso di monologhi» (lettera citata supra, a nota 4).]; ma anche Giovanni Cena, segretario di redazione della «Nuova Antologia», ha trovato qualcosa da ridire su questo ultimo romanzo[6. Lettera a Davide Calandra, del 18 marzo 1908, anch’essa inedita, conservata presso il Fondo Patetta.]. Non lo ha pubblicato sulla sua Rivista, ma d’altra parte pretendeva che si cambiassero troppe cose che non gli andavano a genio, e oltre tutto senza nemmeno dirglielo direttamente, ma scrivendo a suo fratello perché glielo dicesse[7. «(…) ho letto subito Juliette (…) Ho dato poi il libro all’on. F.(erraris) ma egli s’è arrestato là dove prevedevo, alla scena macabra, la quale anche a me fece l’effetto d’una cosa troppo voluta. Mi permetto qualche critica, in fretta. Scuserai il disordine di questa mia, ma ho poco tempo. Ho però letto con cura, come vedrai. Si tratta di cose cui si può rimediare. Parlo come uno del pubblico. Ho ancora la virtù di divertirmi o di annoiarmi leggendo un romanzo senza pensare al modo com’è fatto: poi ci torno su e cerco la ragione delle mie impressioni. Anzitutto lo sviluppo mi pare un po’ ineguale. Vi furon dei tagli? In certi punti avrei voluto maggior rapidità, certi passaggi avrei voluto più svolti: ad es. i dialoghi fra amici mi paion lunghetti, con qualche battuta superflua, mentre mi par troppo rapido, ad es., il revirement dell’amicizia di Faulis per Monteu in odio, al teatro – come quello dell’amore in indifferenza in Juliette e in Monteu nella scena capitale: ci vorrebbe, parmi, un’analisi più completa. Edoardo ha fatto del teatro e sa che non bisogna introdurre personaggi di cui non si saprà più nulla. Qui ce n’è qualcuno fra gli amici di Faulis. L’intrattenerci poi per 4 capitoli di Faulis ci fa supporre che questo sarà il personaggio principale: invece non lo si vede più ricomparire che un istante alla catastrofe. Così avviene della mummia: essa troppo occupa l’immaginazione del lettore, che s’attende chissà che cosa di straordinario intorno al fenomeno, invece scompare. Ancora, il capitolo dei medici mi par un po’ troppo lì per discorrere della scienza del tempo: ce n’è forse troppo per l’azione. (…) Ora, per il significato generale del libro, come per l’arte, me lo lasci dire l’amico Edoardo, la mummia (particolare disgustoso che alienerà parte dei lettori) non mi pare indispensabile. Sopprimendola non ne viene che vantaggio. Il parossismo della fedeltà in Juliette può persistere ugualmente. Juliette vede suo marito infermo, e ne attende la guarigione. Nessun altro lo vede, perché è una sua allucinazione. Questa donna che tien consegna a un invisibile mi par più suggestiva, ad ogni modo, non urtante. Questo è l’ostacolo importante. Poi son certo che lo stamperemmo nella N. A. Mi pare anche che si potrebbe aggiungere qualche altro sfondo del tempo, per non lasciar perdere al lettore il senso dell’ambiente durante la guarigione di Juliette e l’innamoramento di Monteu. Quello al teatro è riuscitissimo. Ho fatto qualche nota a lapis e ho dimenticato di cancellarla. Conclusione. Io vorrei che Edoardo rileggesse il manoscritto tenendo conto delle mie considerazioni. Sopprimesse la mummia, rimandasse il manoscritto alla N. A. che lo stamperebbe nell’estate. Vedi di persuaderlo. Io mi impegno fin d’ora di farlo pubblicare» (lettera citata supra, a nota 6). L’on. Ferraris (1856-1929) qui citato era l’editore della Rivista.]. Ma già anni prima lo stesso Cena non era stato tenero con alcuni suoi lavori, e quella volta almeno glielo aveva detto direttamente, per lettera[8. «Il libro che ho ricevuto da Roma, La falce, mi ha fatto ricordare che avevo un impegno con Lei. Ho letto Il braccio di Arnulfo. Tutto interessante, fino alla fine ma la fine mi pare che ciurla un po’, pensi. L’ironia non è abbastanza evidente riguardo all’effetto prodotto sulla donna dal braccialetto. Bisognerebbe forse far notar di più quello che doveva essere per Arnulfo sul letto di morte, il ricordo di lei, profondo ricordo d’amore e quello ch’era lui per lei. Quanto al bimbo, al lettore si affacciano delle obbiezioni e dei dubbi. Era di Arnulfo? I cugini erano sposati già quando ricevono il braccialetto? No? E allora il bimbo? Quanto tempo è passato fra la partenza di Arnulfo e oggi? ecc. ecc. Tutto quello insomma che mi guasta è la penultima e l’ultima pagina. Ci pensi e me ne scriva.» (lettera da Roma, datata 1 agosto 1902, su carta intestata della «Nuova Antologia», anch’essa conservata nel Fondo Patetta). Si noti che Giovanni Cena dà del “lei” ad Edoardo e del “tu” a Davide. Il racconto Il braccio di Arnulfo si trova nella 2a edizione di Vecchio Piemonte (1905).]. Già, ma questo Cena è un idealista socialista, uno che sogna un mondo nuovo e va a insegnare a leggere e a scrivere ai contadini dell’Agro Pontino con quella brava donna della Aleramo, la sua scandalosa amante: cosa ne vuole sapere di fantasia e di sogno, di allucinazioni e di spiritismo un socialista che vede la realtà quotidiana e che pensa solamente a risollevare le condizioni della plebe? O dell’amore, quello che continua anche dopo la morte, come quello di Juliette per la sua “mummia” (proprio quell’episodio che non piaceva a Cena ed al suo onorevole editore), o quello intenso e devoto, e anch’esso oltre la morte o meglio oltre il pensiero e l’ipotesi della morte, di Liana per Ughes nella Bufera?
D’altronde anche i due racconti di A guerra aperta avevano trovato lettori attenti, come Francesco Carandini, che non solo li aveva elogiati, ma aveva trovato anche il modo di criticare quel santarellino di Fogazzaro: Il Santo a Carandini non era piaciuto proprio per nulla[9.  Cfr. lettera, da Biella, del 18 giugno 1906, anch’essa conservata inedita nel Fondo Patetta. «Ho ricevuto stamane “A guerra aperta” (…) Io mi riservo di godermelo poi a Parella quando avrò un po’ di quiete e lo spirito meglio disposto che non ora a gustare quel senso così sincero e così profondo d’intimità paciosa che è tutto proprio dei tuoi libri e che me li rende tanto tanto cari. Nella mia ormai assoluta denutrizione letteraria leggo sempre volentieri un libro tuo, ciò che, per converso, non mi accade più di un libro di Fogazzaro. Ho scorso “Il Santo” e lo lasciai sto per dire irritato. “A guerra aperta” invece me lo leggerò all’ombra di un castagno, non ne salterò una riga e quando lo avrò finito penserò che è un peccato che non sia in due volumi.». Francesco Carandini (1858-1946), cugino di Giuseppe Giacosa, fu prefetto in varie città, ma si dimise nel 1923 per non servire il governo fascista. Suo figlio Nicolò, marito di Elena Albertini, figlia del senatore, fu uomo politico liberale, ministro nel governo Bonomi, ambasciatore a Londra tra il 1944 e il 1947, e poi eletto alla Costituente.].
La bufera, anche, non era andato male, come romanzo, con richieste di traduzione dall’estero[10.  Cfr. la lettera di Hedwig Jahn da Berlino del 6 marzo 1899 (inedita preso il Fondo Patetta): «Sono contenta di sentire che il romanzo è ancora libero per una traduzione tedesca e cercherò a (sic) trovare un editore per la traduzione. La prego di dirmi il prezzo per l’autorisazione (sic), e spero che non sarà troppo grande perché si paga troppo poco per una traduzione».
E poi ancora quella, della stessa traduttrice, del 19 Settembre 1899: «Fra poche settimane sarà finita la mia traduzione del Suo romanzo “La Bufera”, e spero di trovare presto un buon editore per l’opera. Ma gli editori domandano una autorizzazione legale della parte dell’autore e così La prego di mandarmi una tale, nella quale Lei mi dice, che Lei mi ha dato l’autorizzazione esclusiva per la traduzione tedesca del Suo romanzo. Spero che la Sua opera interessante troverà molti amici in Germania e mi chiamo con ottima stima». Anch’essa, inedita, nel Fondo Patetta.
Ma non solo La bufera fu oggetto di interesse all’estero, se leggiamo questa lettera dalla Spagna, e precisamente da Antequera (Andalusia) del 23 dicembre 1892: «Per compiere un gratissimo dovere di riconoscenza e gratitudine vi scrivo questa lettera in risposta alla di Lei, per la cessione del di Lei bellissimo romanzo: “La contessa Irene” per una traduzione in spagnolo. Prego Iddio fare una traduzione degna del (sic) originale. (…) Così presto come sia pubblicato il romanzo io avrò veramente di soddisfazione nell (sic) mandarle alcune copie di esso. F.to Romualdo Ramirez de Arellano y Gonzales». Anche questa lettera, inedita, è conservata a Roma presso il Fondo Patetta.]. E se è per questo anche le sue, non molte per la verità, opere teatrali erano state accolte meglio all’estero, con richieste anch’esse di traduzione, che non in Italia, dove quello che per lui era il suo “capolavoro”, cioè la commedia Ad oltranza, che aveva oltretutto come ispiratore un racconto di Dumas padre (nientemeno!), era caduto in modo misero, nonostante le strampalate giustificazioni tirate fuori, con poco sugo a dire il vero (come avrebbe scritto il suo “maestro” Manzoni), dagli attori della compagnia che l’aveva rappresentata a Bologna e poi a Roma[11. A proposito di traduzioni della commedia Ad oltranza, cfr. la lettera da Roma del 7 ottobre 1890 di Elena D. Berry, a proposito di un’eventuale traduzione inglese: «Signore, Mi farebbe il grandissimo favore di permettere ch’io legga la sua commedia “Ad oltranza” allo scopo di tradurla in inglese per Londra e New York. Se Lei crede che sia adatta per le scene inglesi e americane. Mille complimenti e mille remerciements d’avance». Un’altra da Nizza del 21 ottobre 1890 da parte della “Agence de Traduction Dramatique Franco-Italienne et Italo-Française Casimir & Comer – Nice”, in cui leggiamo: «Egregio Signore, A mezzo del distinto attore drammatico Sigr Reinach abbiamo potuto ottenere l’invio della di Lei commedia Ad Oltranza, che noi abbiamo letta e troviamo stupenda per tradurre in francese. Per far ciò è necessario che la S.V. sia cortese di inviarci il relativo permesso. Pratici di teatri tanto Italiani che francesi, noi nel nostro debole, abbiamo giudicato che il di Lei lavoro potrà essere rappresentato au Thêatre Libre de Paris, ed appena tradotto, spediremo il libro a M. Antoine, direttore di quel teatro, affinché lo faccia mettere in scena. Solo, per questo fatto, non possiamo garantirLe un profitto di interesse, perché dipenderà dalla rappresentazione al Thêatre Libre, la reclame per rappresentarlo sopra i diversi teatri di Francia. Però nello stesso tempo che si rappresenterà a Parigi, potrà essere esposto anche qui a Nizza nel Teatro del Gran Casino Municipale, al Direttore del quale noi parleremo appena ottenuto il di Lei permesso per la traduzione. Noi ci chiameremo fortunati se potremo ottenere da Lei altre opere sue, per poterle leggere e farne la traduzione. In attesa di un di Lei gentile riscontro abbiamo l’onore di riverirLa; f.to Devmi Servit Comer et Casimir».
Non uguale sorte invece in Italia, dato che, su carta intestata “Amministrazione della Compagnia Drammatica di proprietà del Cav. G.B. Marini – Amministratore Francesco Sciarra”, da Bologna il 15 Ottobre 1890, leggiamo che «D’incarico dei Sigri Marini mi pregio notificarle che la sua commedia “Ad oltranza” non ha avuto quell’esito che le disederavamo noi tutti: i primi due atti furono trovati freddi, e gli ultimi due ebbero delle scene applaudite ma subirono le conseguenze della freddezza dei primi due. Speriamo nell’esito di Roma e Milano. Tante cose dai Sig.ri Marini e mi creda con stima. Dev F(rancesco) Sciarra», a cui fa seguito un’altra lettera dello stesso amministratore, da Roma, il 9 novembre successivo: «I Sigri Marini mi incaricano di parteciparle l’esito del suo lavoro “Ad oltranza” rappresentato jer sera. Il primo e secondo atto passarono nel più glaciale silenzio vi fu solo un tentativo di applauso, contrastato, al finale del terzo. Silenzio in tutto il quarto ed al finale della commedia. Gli artisti posero tutto il loro zelo nella rappresentazione. Appena saranno usciti tutti i giornali glieli spedirò. I Sig. Marini, come gli artisti tutti, sono dispiacenti dell’accoglienza poco favorevole del pubblico. Tante cose dai Sig. Marini e mi creda. Dev Fsciarra». Tutte lettere giacenti presso il Fondo Patetta.].
È anche vero che per il teatro bisogna essere tagliati, come quel suo bravo amico Vittorio, il Bersezio che, soddisfatto (lui sì) della nuova Italia, non aveva trovato di meglio che celebrarla nella figura di quel suo impiegatucolo, quell’Ignazio, quel Travèt, che incarnava invece, per Edoardo, la resa alla quotidianità più banale, l’interesse per un pubblico di arvendiòire (bottegaie) e di impiegati, di artigiani e di piccoli commercianti, che aveva applaudito a più non posso la sua commedia (anzi, il suo dramma), a partire da quel marzo 1863 al teatro Alfieri di Torino. Ma allora almeno la capitale non ce l’avevano ancora tolta, si poteva sopportare, ma adesso… meglio davvero inebriarsi (parola che piaceva tanto ai suoi amici scapigliati, a Giacosa, e perfino a quel brav’uomo di siciliano, a Verga, che aveva però tradito la sua vena noir per un realismo di bassa condizione… ma quale realtà, o verità, può soddisfare un artista come lui stesso, che nella fantasia più sbrigliata, e a volte persino allucinata, trova la sua realizzazione), inebriarsi, si diceva, di un passato che non tornerà e che proprio per questo deve essere vivificato dalla mano dello scrittore… E comunque qualche anno prima proprio Bersezio gli aveva scritto per chiedergli un libretto d’opera da musicare, ma non se ne era fatto nulla, come già prima con Mascagni[12. Vittorio Bersezio, da Moncalieri, il 24 settembre 1896, aveva chiesto a Calandra di scrivere il testo per un un’opera in musica di suo figlio, l’avv. Carlo Bersezio; a questa lettera Calandra rispose da Monale d’Asti (di essa possediamo la minuta conservata sempre nel Fondo Patetta) con queste parole: «S’immagini se non collaborerei volentieri con suo figlio! Ma non ho mai scritto né saputo scrivere un verso in vita mia. Come mi sarebbe possibile dare alla luce tutto un libretto. Metto però con entusiasmo a disposizione di suo figlio quanto ho fatto. I drammi di st.(oria) piemontese sarebbero due – La primavera del 99 in un atto. – E la parola (?) in due – Il primo fu scritto appunto con intenzioni musicali. L’ebbe nelle mani Mascagni e (vi) trovò che vi mancava… non rammento più cosa. Il secondo un critico mi affermò che pareva un libretto in prosa. (…) suo figlio non avrà che a presentarsi nella settimana ventura alla casa (Via) Corso Massimo d’Azeglio per ritirare i due lavori, uno stampato e l’altro manoscritto. Dovrà leggerli, rileggerli e vedere se ne può far qualche cosa e in che modo. Non sono intervenuto alla seduta e non interverrò tanto presto non potendo rendermi utile in alcun modo. Sono agli ultimi capitoli di un romanzo appunto di storia piemontese che mi costa oramai questi anni di ricerche e di fatiche. Ho la testa piccola e quando vi sono dentro alcune (illeggibile) non c’è più posto per altro». Il romanzo cui si allude dovrebbe essere La bufera, pubblicato nel 1898.].
A questo punto gli gira per la testa una novità: basta con protagonisti che gli assomigliano, sì, ma che sono comunque lontani da lui nel tempo e nelle situazioni: la novella che ha in testa avrà lui stesso, anche se con un nome diverso, come protagonista; sarà una novella ambientata ai nostri tempi, ma con il cuore e la mente al passato. Sarà lui il narratore, il costruttore della vicenda, e il protagonista sarà ancora una volta un fantasma, e il fantasma di un grande uomo del passato, di un generale, nemico sì, ma grande, una storia di fantasia e di allucinazione, di reincarnazione e di revenants, nelle campagne del suo paese, proprio quelle che sta calpestando in questo momento, ma sublimate dalla storia e dall’eroismo dei tempi passati, innalzate al sogno degli eroi da una figura magnanima e temeraria, il generale, il Vendôme, dalle nostre parti il Vandomo, certo, proprio lui Il gran Forestiero

 

NOTA BIOGRAFICA

Edoardo Calandra nacque a Torino nel 1852 e nella stessa città morì nel 1911. Suo padre Claudio (1818-1882) fu un famoso avvocato e uomo politico (autore di parecchie poesie in piemontese pubblicate nel 1868) e suo fratello Davide (1856-1915) fu famoso scultore, le cui opere si trovano non solamente a Torino ma anche a Roma e a Brescia, oltre che a Buenos Ayres.
Dopo viaggi in gioventù, oltre che a Torino passò gran parte della sua vita nella casa di famiglia a Murello, nei pressi di Saluzzo (provincia di Cuneo), zona in cui è ambientato in gran parte il suo romanzo storico più famoso (La bufera, 1898, 19112). In gioventù, dopo aver effettuato alcune scoperte archeologiche, insieme col padre ed il fratello, nella campagna piemontese, si dedicò alla pittura, illustrando anche opere dell’amico Verga, per passare poi alla letteratura, scrivendo sia per il teatro, pur con poco successo (Ad oltranza, ed una commedia in piemontese, Un cop an sla testa, rimasta inedita fino al 1953), sia romanzi e novelle, prediligendo il genere storico (sfondo delle sue opere è in particolare il Piemonte feudale e quello Sei/Settecentesco fino alla rivoluzione francese), utilizzando una lingua vicina al modello manzoniano.

BIBLIOGRAFIA MINIMA

La bell’Alda, Torino (Casanova) 1884; Reliquie, Torino (Casanova) 1884; I Lancia di Faliceto, Torino (Casanova) 1886; Vecchio Piemonte, Torino (Casanova) 1889; La contessa Irene, Torino (Casanova) 1889; Vecchio Piemonte (La banda Becurio, Il tesoro, Presentimento, Telepatia, L’Occasione, Li 23 fiorile, anno 7°), Roma-Torino (Casanova) 1895, 19052 (più altri tre racconti) (rist. Centro Studi Piemontesi, Torino, 1987); La bufera, Torino (Roux e Frassati)1898 (2a ed. STEN, Torino, 1911); La falce, Roma-Torino (Roux e Viarengo) 1902; A guerra aperta (La signora di Riondino; La marchesa Falconis), Torino-Roma (Roux e Viarengo) e Torino (STEN) 1906; Juliette, Torino-Roma (Roux e Viarengo) 1909; La straniera, Torino (STEN) 1914 (postumo); Il gran forestiero, Torino (Centro Studi Piemontesi) 2003 (postumo).
Lettere inedite a e di Edoardo Calandra presenti nel Fondo Patetta della Biblioteca Vaticana di Roma sotto varie collocazioni.


 

Corto Mantese

Dietro questo pseudonimo si cela un personaggio di media cultura, ma di vastissime (e disordinate) letture. A cavallo tra Piemonte e Provenza, tra le montagne ed il mare, le sue brevi prose d’arte rievocano letture e tradizioni, cultura letteraria e sapienza popolare. Vive tra le contraddizioni e le antitesi, ossimoro umano in cui gli opposti dovrebbero placarsi, riunirsi e trovare la loro realizzazione.