La vita chiara
di Maria Grazia Calandrone (Transeuropa Edizioni)
Il poeta, quando vuole stipare tutta la vastità del cosmo dentro la sua scrittura, non ha l’avidità egoistica del Mazzarò verghiano, piuttosto cerca di seminare avvisi, luci, speranze e memorie-allarmi per i giorni futuri a occhi e orecchie in ascolto. Questo turbamento estetico kierkegaardiano (non esiste vero poeta senza ansie), appartiene tutto a Maria Grazia Calandrone. La sua scrittura è originale anche negli attraversamenti di sentieri altrui, da critico (su Il Manifesto e per la rivista di Nicola Crocetti Poesia), dove si distingue sia per l’osmosi, la compartecipazione empatica, sia per la di lei trasfigurazione poetica, creativa, dei lavori interpretati. Per la Transeuropa, casa editrice adesso operativa in Toscana, a Massa, esce La vita chiara, nella collana nuova poetica curata personalmente dal poeta Gabriel Del Sarto. L’introduzione iniziale in versi scopre, come in un autoritratto di Frida Kahlo, la disarmata e dura arrendevolezza della Calandrone, in una dichiarazione di incantamento e brutalità unica: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come tutto il mio petto sia un campo aperto / dopo la rimozione degli alberi / e un passaggio di unità cinofile / e quale unico congegno espressivo / tra animale e uomo / sia lo stesso ripetere che sì, che sì…” (pag.5). L’apertura, quasi una sottile parodia della poesia confessionale, coi poeti che mostrano le “viscere” della propria interiorità, costituisce l’anticamera delle sale-sezioni dedicate ai quattro elementi naturali, prima tra tutte l’acqua-ventre, a chiusura del cerchio l’elemento più sfuggente e apparentemente impalpabile, l’aria (associata al massimo grado di estasi: quello raggiunto dai mistici come Teresa d’Avila, pietra di paragone e modello per generazioni di religiosi e artisti, pensiamo all’influenza sull’opera di critica poetica della filosofa Maria Zambrano), e in ultimo una sorta di “scherzo suonato”, nel cinematografico monologo firmato da un immaginario Chopin. Nei versi della Calandrone circola, come direbbe Zanzotto, la stoltezza palpabile come un vento, tra le larghe feritoie della Storia, quella con la maiuscola che tutto il resto rimpicciolisce e annienta: “e il passato si innalza su di noi come un angelo con le ali / [aperte” (pag. 96). Angeli e ali sono frequenti, come annuncio e rivelazione positiva ma anche nel solco del terribile (la bellezza è l’inizio del terribile recita Rilke): “La malattia incomincia dal sorriso dell’angelo: / la genuflessione dell’angelo / avvelena il mio sangue / perché gli umili fanno tanto male / fino a farmi piegare le ginocchia / sotto la veste / perché metà della mia vita è andata, arcobaleno / retto da un orizzonte”. Tra reliquie e relitti, scocche, carcasse, scheletri umani e cosmici, residui di civiltà e ere geologiche, un’archeologia poetica che esplora, “lampi / in avaria nel cantiere aperto della sera” (pag. 64), la pluralità fenomenica dissestata. Nei dialoghi con il poeta persiano Hafez, in questa raccolta connotata concretamente da date e luoghi (la città eterna è l’ideale teatro di questo convegno di eventi storici e figure carismatiche), gli accenti lirici si fanno particolarmente elevati: “Sciacquo la tunica nell’acqua rossa – io mescolo / la saggezza e l’ebbrezza / nel catino del mondo: non si può / persuadere l’eterno / timoniere a mutare le rotte / con queste persuasioni sottomesse al tempo” (pag. 40). Ci sono “macchie sul cuore nudo della terra” (macchie-colpe ce n’è nel libro tante quanto un virus intraprendente) che non riesce a cancellare nemmeno il “petto di rondine” di un figlio, addormentato “prossimo a una torre di fumo”. Nel terremoto di dubbi e lacerazioni che risveglia, la poesia della Calandrone offre consolazioni (magre?) virgiliane (perché anche l’addio “chiedeva la sua altezza”) e l’occhio vivo sul germinare e verminare biologico, disteso alfine nel calmo orizzonte dell’estasi, varco vero verso la vita chiara.