Di lucide, lucidissime allucinazioni è ricca la sua poesia. Verlaine, che lo conobbe intimamente, ci dice che fra i sedici e i diciassette anni Rimbaud era già munito di un grandissimo e assolutamente originale bagaglio poetico. Lo descrive come “alto, robusto, quasi atletico, il viso perfettamente ovale di un angelo in esilio”. Era un demone che cercava l’Altro dentro se stesso o “il santo, in preghiera sulla terrazza” della poesia Infanzia? Cosa cercava nella sua discesa agli inferi, nella sua Stagione all’Inferno, in questo viaggio nelle profondità del proprio inconscio e dell’anima del mondo? Cercava una rigenerazione dell’Io? Dell’Io umano in un’epoca che “ha fatto naufragio”?
Furono tanti i giudizi – e contrastanti – su questo giovane emancipato che uccise la letteratura teorizzando la figura del poeta veggente. Forse il più bel giudizio è di Jean-Pierre Richard. Per lui Arthur Rimbaud (1854-1891) è “un cieco volontario, sempre alla ricerca del suo vero sguardo, del suo vero genio”: vede e chiama “se stesso attraverso gli occhi dell’universo intero”. Ma come dimenticare quel che dell’autore delle Illuminazioni scrisse nel 1974 René Char? Il ragazzo di Charleville, che si dirige a piedi verso Parigi, verso la Comune, squarcia per Char da parte a parte, come una palla di cannone, l’orizzonte della poesia e della sensibilità. La poesia diventa con lui un’altra categoria dello spirito. Ѐ un mondo in agonia quello in cui Rimbaud vive. La nebbia del suo materiale progresso ne nasconde il crepuscolo. O meglio, nasconde – come dice Char – quel “mostruoso ariete che intraprenderà, quarant’anni dopo, la distruzione delle orgogliose torri della civiltà occidentale”. Tra i giudizi negativi, quello di Benedetto Croce. Secondo cui Rimabud “nella sfera del pensiero estetico e morale fece confessione del suo totale fallimento, l’unico atto serio e virile da lui compiuto”.
Illuminazioni, che in inglese significa incisioni colorate, è stato scritto dal 1873 al 1875, durante i viaggi del poeta in Belgio, Inghilterra e Germania. Cercava un mondo nuovo l’inquieto Rimbaud, in cui vivere non come un “turista ingenuo”. Scambiava, scrive Char, il “tornado del suo genio con la strada del dio caduto”. Ma già due anni prima questo mondo sconosciuto lo cercava simbolicamente attraverso il suo lungo poema Il battello ebbro. Il battello che più leggero di un sughero danza sui flutti. I suoi trainanti sono stati presi a bersaglio da Pellerossa urlanti e inchiodati nudi a pali variopinti. Sicché ora naviga alla deriva e l’acqua verde entra nel suo guscio ripulendolo dalle macchie blu di vomito e di vino. Indifferente al proprio equipaggio importatore di grano fiammingo e di cotone inglese, indifferente all’occhio “stupido dei fari”, da quel momento come “relitto pallido e rapito” il battello si bagna nel Poema del Mare; e la tempesta benedice i suoi risvegli. Mosso solo dal capriccio delle onde e dalla volontà del destino, senza più un tragitto obbligato, “gettato dall’uragano contro il cielo senza uccelli”, contro l’ignoto, vede, solo ora vede tutta l’immensità del mare, ebbro non più di vino ma delle infinite meraviglie del mare. Senza trainanti, ha conosciuto la libertà il battello perduto, le onde l’hanno finalmente bagnato del loro languore. Che esploda prima la sua chiglia, implora, se (ritrovato da un veliero anseatico) dovrà nuovamente “tener la scia degli importatori di cotone”.
Dice ancora Char: “Egli vede, riferisce e scompare”. Vede il futuro, è profetico, pronuncia parole che, dopo 150 anni, sono ancora attuali. Lascia l’Europa per l’Africa. In fuga da tutto. Da Charleville, la sua città (“notte senza fine”?); e dalla vicina Roche, dove c’è la fattoria della madre (sarà distrutta dai tedeschi durante la Prima guerra mondiale). In fuga dalla propria noia immensa: “Nessuno ho conosciuto che si annoi quanto me” – scrive ai familiari dall’Africa. In fuga soprattutto dal proprio Io: “Perché Io è un altro”; perché non cessiamo di inseguire quello che vorremmo essere. Nel 1871 aveva chiesto all’amico Paul Demeny di bruciare tutti i versi che gli aveva consegnato e di rispettare la sua volontà “come si rispetta quella di un morto”. E dal 1875 – aveva soltanto diciannove anni – non scriverà più. Inizia la sua seconda vita, tra Asia e Africa, e che fa di lui un mercante spregiudicato. Il “bambino di Charleville”, così precocemente toccato dall’ala della poesia, il bambino che tenuamente trovava l’eternità nel “mare andato col sole”, diventa trafficante di armi e forse di schiavi. In realtà non tutto è chiaro, non tutto è comprensibile in questa sua radicale metamorfosi. Basta il rifiuto della civiltà borghese a spiegarla? Basta a spiegarla, una volta conosciuto quell’altro mondo, la consapevolezza che in fondo è tutto un unico “piccolo mondo livido e piatto” – “Africa e Occidenti”uniti – : e di uguali “orrori economici” e miseria morale (vedi Sera storica, una delle poesie di Illuminazioni: “La stessa magia borghese in tutti i punti in cui ci deporrà la diligenza”)? Eppure (nelle Illuminazioni) aveva visto voragini di azzurro e pozzi di fuoco, l’incontro di lune e comete, di mari e favole; aveva osservato il “malinconico bucato d’oro del tramonto”; e aveva sognato di abbracciare l’alba estiva, d’averla riconosciuta sulle cime degli abeti come si riconosce una dea. Era un’alba coperta di veli e correva verso la pianura e i campanili della città. Il poeta fanciullo, nel sogno, la incalzava agitando le braccia e scoprendola dei suoi veli. E poi ve la riavvolgeva “in cima alla strada, vicino a un bosco di lauro”. Sono ora così vicini che il fanciullo ne sente il corpo immenso, prima di cadere insieme in fondo al bosco. “Al risveglio era mezzogiorno”.
Per Hugo Friedrich (La struttura della lirica moderna, 1956), le Illuminazioni non pensano a un lettore, non vogliono essere comprese. Sono una tempesta di sfoghi e di allucinazioni; e l’Io che vi emerge, quello della Lettera del Veggente, è solo un Io artificiale. Ma è proprio così?
In verità le Illuminazioni fioriscono da quella discesa agli inferi dell’anima del mondo che è l’opera precedente di Rimbaud: Una stagione all’Inferno, esperienza onirica di una notte. Al cui fondo, e dopo aver incontrato incubi, paure ancestrali e sofferenze; dopo aver inghiottito quella “fantastica sorsata di veleno” che brucia le viscere, c’è come un nuovo mattino, una nascita, una rigenerazione della soggettività umana; ci sono le sfere luminose, di zaffiro e di metallo, immaginate dal poeta nelle sue ore di amarezza; c’è un mondo che svolta verso la salvezza, intesa come verità e libertà. E verso una poesia nuova, rivoluzionaria. Quella che Benedetto Croce non riconosce come poesia. Perché del tutto inedita nella tradizione dell’intera esperienza poetica occidentale, che il filosofo italiano così bene aveva studiato e interpretato.
Sulla famosa frase della Lettera del Veggente (seconda parte delle Illuminazioni): “Infatti Io è un altro”, tanto ci sarebbe da dire – sul piano storico, psicanalitico, scientifico, antropologico. Ma al giovane Rimbaud interessa l’aspetto poetico. “Io è un altro” – cosa vuole dire Rimbaud? Vuole dire: l’Io è l’Autore, colui che ascolta il pensiero che sgorga in lui e vi dialoga. Ѐ il 15 maggio del 1871 quando scrive questa lettera (a Paul Demeny) sull’avvenire della poesia. Ha appena sedici o diciassette anni e già opera questa cesura tra la vecchia e la nuova poesia. Finora – dice il giovane poeta francese – sono esistiti versificatori, letterati, scrittori, funzionari, vecchi imbecilli che dell’Io hanno trovato il significato falso e si sono fieramente proclamati autori dei “prodotti del loro guercio intelletto”. Il poeta vero, l’Autore, il creatore, colui che capisce la sua opera nel momento in cui se ne fa cantore, quest’uomo non è mai esistito. Dalla poesia greca in poi “la faccenda” è andata avanti così. L’intelligenza universale spargeva le sue idee naturaliter: gli uomini le raccoglievano, ne raccoglievano una parte e ne scrivevano libri. Tutto questo avveniva perché l’uomo non era desto abbastanza, non “lavorava a se stesso”. O meglio, non aveva studiato se stesso. Per essere poeta doveva indagare la propria anima, conoscerla e coltivarla. Farsi ladro di fuoco e Veggente. Cercare l’ignoto, “investigare l’invisibile, udire l’inaudito”. Ma la cosa non è semplice. Per arrivare a tanto il poeta deve liberare, scatenare tutti i sensi: vivere “tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia”. Viverle in modo ragionato e con sovrumana forza, altrimenti non capisce le proprie visioni. Ѐ questa tortura interiore che fa di lui il grande infermo, il grande maledetto e infine il Sommo Sapiente. Solo questo processo permette al poeta, al poeta nuovo che rimuove scheletri e anticaglie, di giungere all’ignoto. E quand’anche, per lo sbigottimento provocatogli dalle visioni dell’ignoto, dovesse perderne l’intelligenza, la comprensione, non importa: “le avrebbe pur viste”.
Nella Lettera del 1871 Rimbaud indica i poeti del primo e del secondo Romanticismo da apprezzare e da esecrare. Sia pure “troppo testardo”, Hugo è da apprezzare: perché ha del visto negli ultimi volumi. E I Miserabili sono vera poesia. Musset è invece esecrabile: per la sua “angelica pigrizia”, non ha saputo far nulla. “C’erano visioni dietro l’organza delle tende: lui ha chiuso gli occhi”. Theophile Gautier è “molto veggente”. Ma il re dei poeti, il primo veggente, per Rimbaud, è Baudelaire. Gli ha nuociuto tuttavia la forma dell’ambiente troppo artistico in cui è vissuto: le “invenzioni d’ignoto” richiedevano forme poetiche nuove. E a queste forme lavorava Rimbaud: a idee e a una lingua nuove per i poeti che saranno.
Rimbaud era pronto per la perfezione: riteneva d’aver in mano la verità, la giustizia. Si credeva in inferno, quindi c’era, vi scontava il suo battesimo, l’inferno non vuole i pagani: “Genitori, voi avete fatto la vostra infelicità e la mia”. Io è un altro: l’Io è un’umanità nuova. La vecchia umanità ha fatto naufragio. Io è un altro, perché ascolta e dialoga con il proprio pensiero dal suo nascere; e con parole nuove, con parole poetiche nuove opera una trasformazione dell’umano. Il dramma di questo giovane, la cui poesia non è più letteratura, il suo dramma era nell’aver capito tutto questo, nelle sue innumerevoli allucinazioni, senza avere i mezzi per andare avanti. La psicanalisi sarebbe arrivata dopo, all’inizio del nuovo secolo, e quando lui era già morto (assistito dalla madre e dalla sorella, come Nietzsche) e dopo aver provato un’altra vita in Africa. Ma il mondo era ovunque uguale. Ugualmente livido. Ugualmente piatto. Non era lo spettacolo di bontà che lui, poeta veggente, pur vede nella Stagione all’Inferno. Ѐ un mondo in cui l’Io non vuole ascoltare se stesso. Vuole rimanere egoista.
Gaetano Cellura