(di Mario Grasso)
Sono in corso di stampa presso Prova d’Autore due sillogi di poesie di altrettanti poeti siciliani esordienti: Aurora Lombardo da Palma di Montechiaro (Agrigento), nella Collezione Centovele ed Emanuele Fiore da Butera (Caltanissetta), nella Collezione Lunario. Per gentile concessione della Casa editrice anticipiamo le prefazioni scritte dal nostro Ludi Rector e due poesie delle stesse silloge dei due poeti. Disponibilità dei due libri dal 30 maggio 2019.
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LA POESIA COME ARTE DI FUGA SALVIFICA
“Sognare che le parole / vincano l’andare del tempo / è il mio più antico conforto.” In questo assunto, che segna la conclusione di Stagioni, silloge di poesie d’esordio di Aurora Lombardo, c’è una verità come romantico sentire umano. La partita, ci confida la giovanissima autrice, viene giocata tra lo sconforto da una parte e il soccorso riparatore del sogno da altra ala; due momenti di virtualità, o quasi, che a loro volta debbono fare i conti con lo scorrere inesorabile del tempo. Un lucido addensarsi di concetti che potrebbe far pensare all’anticamera di una probatio diabolica del genere individuato dagli antichi giuristi romani. Ma il contesto generale nel quale vibrano i versi che abbiamo citato in funzione emblematica è l’esito del gridare sottovoce di una sensibilità umana che, all’impatto con la complessa realtà del mondo dovendosi adattare alle umane consuetudini, ha capito come per sopravvivere tra i momenti verdi delle foglie di un albero e il loro cadere strappate dalla violenza dei venti, oppure per compiuta stagione vitale, in armonia all’imprescindibile destino finale comune a tutte le foglie, altro non resta che ricorrere al sogno. E ci siamo! Torna da remota stagione la voce e il canto di Calderon de La Barca: La vita è sogno, opera pubblicata nel 1836. Escludiamo ogni probabilità di suggestione o influssi del capolavoro del drammaturgo spagnolo (1600-1681) sulla sensibilità artistica e creativa della giovanissima Aurora Lombardo. E, comunque, dopo avere letto l’intera silloge, ci è chiara evidenza circa la esclusiva originalità delle vibrazioni subliminali della diciannovenne poetessa, vibrazioni versate in codice letterario di gradevole tensione e matura resa formale. Una maturità che può far pensare (erroneamente) a una voce impegnata a imbastire bilanci della propria vita, se non si va ad accertare subito che si è a cospetto di testimonianze in forma lirica espresse dal geniale esordio di giovanissima poeta con proprie idee da esprimere e ansie esistenziali da liberare. Una voce che professa la solitudine, la nostalgia dei ricordi fanciulleschi e adolescenziali e ha molto care le foglie autunnali, ricorrenti come un leit-motiv lungo le pagine ispirate alla stagione della propria venuta al mondo. Dichiarazioni come altrettanti titoli segreti che si rendono palesi al momento di riconoscere la coincidenza della Poesia con la solitudine, con l’isolamento da cui prende stimoli ogni vera Poesia quando si manifesta persino col canto che esorcizza il buio foriero di timori e angosce: “Sono nata quando muoiono le foglie, / quando il cielo s’incupisce / e tutto dorme” (Cfr. in Nata d’autunno). E più avanti: “Io sono il mio autunno. / Ho fatto cadere le foglie / e me ne sono compiaciuta, / il mio corpo somiglierà / ad alberi scheletrici. / Niente primavera per me, / niente rinascita: posso avere / soltanto crisantemi. / Nel frattempo mi stendo / sul tappeto di foglie / morte, e cantando / aspetterò l’inverno.” (Cfr. in Il mio autunno). Si noterà leggendo queste ultime dichiarazioni che esse sono ossimore rispetto a un precedente assalto di sgomento che culmina con richiesta di aiuto: “Salvami: la fine dei miei / giorni è ormai vicina. / Posso sentire i passi / sulla dolce battigia /divenire singulti arresi / tra gli urli di una tempesta. / Qualcuno sarà lo scoglio, / il tempio, lo sguardo che brilla / tra mille di sconosciuti, / la luce che breve sfavilla? / Non vedi come ad ogni / calar del sole il mio animo /
si laceri nell’insopportabile / incertezza del domani?” Momenti che sembrano tra loro contraddirsi ma che inducono a meditare sulla imprescindibilità della fragilità umana, quella stessa che stacca l’uomo dal robot. Perché l’uomo non è macchina programmata e sarebbe errato immaginarlo radicalmente prevedibile. Soccorrerà il pensiero di Henry Millon de Montherlant quando afferma. “Il vero mistero non è la morte ma la vita”.
Alla Poesia, a sua volta, in quanto creatività e riflesso di momenti subliminali, non si potrà mai chiedere coerenza a qualsiasi costo, perché essa come si divertiva a definirla Giorgio Manganelli non deve educare né storicizzare alcunché ma ripetere stati d’animo e loro mutevoli momenti compresi quelli del “berlingare”. Né per il caso di Aurora Lombardo mancano le “istruzioni per l’uso” fin dalla felice guida del titolo dell’intera silloge Stagioni e della scansione interna in tre sezioni di cui la seconda insiste a ripetere il titolo generale: Sospiri, Stagioni. Dedicate. E le stagioni cambiano proprio perché sono soste momentanee come dal significato nell’originario verbo latino stare e nel suo derivato Statione(m).
- Dopo tanti segnali che potrebbero far pensare a un preludio di aure leopardiane (che non ci sono) Aurora Lombardo confida con chiarezza la propria personale linea e con disinibita verve adeguata alla sua verde “stagione” popolata di sogni e gradevoli, sani propositi (qualche volta ironici come la citazione dei crisantemi) e sbandiera quelli che potrebbero pesarle come crucci, a ciglio asciutto e cuore infranto anche quando con toni goliardici dichiara che nel relax procuratole dal potersi adagiare su un soffice “tappeto di foglie morte”, aspetterà cantando il cambio di stagione. Dichiarazione significativa e d’alta caratura umana tra rassegnazione razionale e sfida subliminale. Insomma nessun pessimismo e la stessa aura malinconica che tinge di grigio i cieli autunnali delle sue emozioni esistenziali di diciannovenne assume per sempre significati di consapevolezza accettata per scelta che fa il paio con le cure omeopatiche a base di veleni capaci di contrastare il predominare di altri veleni. Il curare un male ricorrendo all’essenza del male stesso: sono nata nella stagione in cui cadono le foglie, e va bene, vuol dire che mi saprò adeguare, anche io sarò un albero senza foglie: “il mio corpo somiglierà ad alberi scheletrici” (Cit. qui sub 1).
Che poi ci sia il denominatore generale della vita come sogno, è un presupposto enunciato in partenza. Ed è in questa dicotomia apparentemente semplice che si trova ben celato il momento della salubrità che procura la graduale fortificazione elargita dall’ironia e dal canto. L’esempio non lo propone Aurora ma afferma di praticarne la via. Una via cara al mito e alle favole. Nel mito spicca il Minotauro: l’uccisione del mostro, l’evasione con ali di cera che ciascuno costruirà per sé sesso, e che risulteranno letali solo per chi imprudentemente si avvicinerà al sole. Altro integra la favola, che ricorre al distico a rima baciata sull’uccello in gabbia che: canta per amore / oppure per rabbia.
Occasione, quella dell’amore, che Aurora Lombardo si appresta già a vivere con l’esperienza sulla cui via si è incamminata con solide idee. Intanto il preludio alla lezione è servito; la poetessa ne propone calchi di modelli di cui si adombra tra l’osservatrice e la protagonista. Non poteva mancare infatti nel vibrante canto di una diciannovenne – canto che con ovvie probabilità esibisce strofe scritte anni prima del loro recupero per essere incluse nella edizione attuale, molto eloquentemente intitolata Stagioni; un plurale che ha il suo valore imprescindibile – , canto che sul tripode del sogno, dell’autunno come malinconia e della solitudine prescelta, colloca il duolo della sensibilità sentimentale della poetessa con note che insistono in forma di diario aperto a evocare tra nostalgie e rammarico, o tra memoria e mancanza di rassegnazione. E siamo al gridare sottovoce che abbiamo proposto prima. Una distinzione umana che non si presta all’uso di tutti, e che Aurora Lombardo dimostra di possedere e sapere spendere nei momenti di confidare affabilmente pagine nelle quali le lacrime hanno alterato il segno dell’inchiostro, qualche volta sbiadendo, altre volte esaltando l’impronta di una delusione, di un sogno d’altri giorni e momenti imbastito a occhi aperti e cuore impazzito e forse di intensa nostalgia per stagioni pregresse, propositi e volti che si sono dissolti inspiegabilmente, e sicuramente di un duolo di cui non si riescono a individuare radici tangibili, sogno che tuttavia lievita protervo e struggente, invece di svanire: “Mai le mie dita si sono / intrecciate al cuore tuo, / eppure ne avverto / il vuoto immenso. / L’immancabile tedio / mi soffoca e inabissa, / e mi abituo a questa / cronica malinconia.” (Cfr. in Addii). E altrove: “E’ ancora notte e penso solo / che vorrei posare / la testa sul tuo petto / e respirarti. / Potrei accordare / il mio battito al tuo / se le tue dita si perdessero / nei miei capelli, se i nostri / occhi si incrociassero / in catene di sospiri, / di parole, di lacrime / e sorrisi. / Potrei davvero / comporre / una nuova musica /affinché la nostra storia / sia scandita da una melodia / quieta e bruciante: la nostra.” (Cfr. in Lo strumento scordato).
- Non occorrono ausili straordinari per riconoscere la duplice presenza della Poesia e del sofferto gioco a nascondere che esercita la poetessa. Aurora Lombardo, al contrario di tante sue coetanee e sorelle maggiori e “patite”, sfugge al Leopardi, il cui richiamo è precipuamente caro alle adolescenze e alle giovani sensibilità. Sfugge per dare corso a una propria scelta, sia nel momento di poter contestare con il Leopardi un “Perché non rendi poi quel che prometti allor”, gesto, quello del contestare, che Aurora non manifesta; sia al non riconoscersi nella “vigilia” dello stesso recanatese quando ricorre alla metafora del sabato, della vigilia: “Godi fanciullo mio, stato soave stagion lieta è codesta”. La giovanissima poetessa cerca nella origine del proprio duolo esistenziale le ragioni inspiegabili che la rendono delusa, e chiede una mano salvifica che le sia sodale nei momenti della doppia terapia salvifica che ha scelto, quella della consapevolezza, pur se amara, e di una via del sogno che anestetizzi per metà giornata. Nonché il ricorso al canto in attesa della stagione che porta mutazioni. Con altre parole, non vive il momento della vigilia nel quale si trova in grazia dei suoi anni, anzi ne rovescia l’ordine eleggendo a “dì di festa” un passato prossimo colorato di remoto. Momenti che comportano il rafforzare i valori intrinseci nella Poesia di Aurora Lombardo, e nella stessa ricerca dalla cui sottotraccia urgono verità, spontaneità e genuinità di un canto lirico che rivendica umane universalità di ansie subliminali la cui inesprimibilità diviene comunicazione e lezione di vita proprio perché affidata alla voce magica della Poesia. (mg)
Poesie
Il vostro canto asciuga
le mie lacrime.
Sfiorando queste pagine
ingiallite io ricordo.
Ricordo di quando
il cielo mutava viso,
di quando la pioggia
accompagnava il nostro
riso. Ricordo della
chiara compagna,
dello scorrazzare
di noi bambini
tra i vecchi alberi
di limoni.
Oggi ogni cosa
è cambiata: le madri
hanno smesso
d’esser figlie,
i libri sono stati chiusi,
un manto lugubre copre
ogni cosa.
Al tramonto è seguita l’alba,
ma siamo tutti lontani,
separati da uno spazio
sterminato di incomprensioni,
di pressioni, di illusioni.
Nulla si salva da
quest’oblio, solo il canto
antico. Se potessimo
saziarci di poesie
sentiremmo ancora
i sapori della vita.
Orizzonti
E’ una linea così sottile
quella che divide
il cielo e la terra.
L’orizzonte è una strada
che il mio sguardo
percorre all’infinito,
come viaggio senza meta.
Vorrei perdermi
tra il verde delle foglie,
tra il profumo ora dolce
ora acre dei fiori,
tra il sapore che riempie
la bocca dopo una risata
semplice e vera.
Vorrei intrecciare i miei
capelli alla natura
e sentirmi umana,
figlia di un mare
senza onde né scogli,
sorella del chiarore
delle stelle o madre
che genera sogni
da cullare tra le braccia.
Allora le lacrime sarebbero
solo rugiada fresca su
lieti ricordi, e la terra
sarebbe la mia casa
prima ancora di morire.
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LA MARCIA IN PIÙ
Ovvero
Poesia in codice ludico e doppia metafora
Ci sia lecito ammettere qualche linea di orgoglio nel presentare la Poesia di Emanuele Fiore. Poi saranno i lettori a comprendere perché. Non che ci siano mancate occasioni esaltanti nel passato prossimo e remoto, fino all’attualità delle bravure generali, che per un verso risentono di pianura, per altro verso sono i segni di un’epoca in cui la pianura stessa pretende e reclama riconoscimenti. Resta il retrogusto della bellezza totale e la delusione di una realtà dove tutto è bello equivalente a negare che ci siano singolari bellezze cui invitare.
La paremiologia sicula è ricca di saggezze, come lo sono tutte le paremiologie, ma ha una marcia in più quando fa inciampare in detti come quello che nega al siciliano lo slancio nel momento di potere (e dovere) esprimere pieno riconoscimento dei valori di un corregionale. Una valutazione che non ci ha ancora convinto, ma che potrebbe contenere la sua parte di verità. Si dovrebbe cedere la parola agli intenditori. Ma sarebbe una perdita di tempo a fronte della responsabilità unita al vanto di presentare qui un autore di versi che sono Poesia. Di un autore, Emanuele Fiore, che è nato e vive a Butera, in provincia di Caltanissetta, che non ha mai pubblicato sue scritture e giunge dalla stessa città che nel secolo scorso ha dato i natali a Fortunato Pasqualino (Butera,1923 – Roma, 2008).
2 – “Allego allegoriche righe / in spartiti spariti nell’aria / a cui alterno / emozioni e mozioni di sfiducia”. Ecco – si potrebbe aggiungere prima di addentrarsi – ecco il siciliano di sempre con i suoi sospetti e la sua “sfiducia”. E sarebbe una macroscopica gaffe. Infatti altrove leggeremo: “Se la poesia è cinica / più di una condanna / se ogni abito ha il suo monaco / e la stoffa può scucire un artista”. E cercando qualche cenno specifico sulla Sicilia scopriamo definitivamente che stiamo per essere invitati a leggere nel “divertimento geniale” di Emanuele Fiore tracce inequivocabili di un autore che dice la sua con sincerità, anche se con pizzico di reticenza e di mescolar le carte, in quanto sali indispensabili per la Poesia: “Quest’Isola è leggera / rispetto al peso dei sogni”. Ma guarda un po’ questo giovane di oltre trent’anni che continua a vivere a Butera e che si riconosce ago in un pagliaio confidandocelo con una locuzione di auto-burla: “Il mio ego in un pagliaio”. E a questo punto il dubbio si dilata e mostra lo spiraglio della tensione ludica di chi la sa lunga e cerca complici.
Cerca complici perché è Letteratura la chiave di volta di tutta la silloge, la Letteratura in veste di cerimonia tutta ludica e di una originalità che esige ricerca di sodali disposti a intrattenersi fino a partecipare e lasciarsi allenare al gioco del cambio di vocali o di consonanti, al massacro delle locuzioni usurate, impiccate a confronto con sostituzioni che le deridono: “Niente è come sempre”; “L’eterno al lotto”; “Minuto in un secondo”. A occasioni dove viene mimato un refuso che non c’è: “È qui distante”. Il palleggiare con la stessa parola nelle sue diverse accezioni in dipendenza degli accenti: “L’ascia lascia la scia”. E questo come regola quasi costante con i titoli, quasi altrettanti aperitivi per le sontuose portate di innovazioni condotte con magistrale abilità e padronanza di significati e significanti.
E fosse solo divertimento! Le sorprese infatti sono nascoste tra un cortocircuito e l’altro del gioco fono-semantico che qui Emanuele Fiore brevetta, con grazia espressiva e densità di rinvii ulteriori, come si potrà leggere in questi versi di “Portami via”: “Si assentano astanti / mentre istanti volano / e le navi affondano / sotto il peso dell’ipocrisia. / Portami via / dove il dolore non fa male (…)”. Ebbene? Questi versi sono la lapide con la scheda d’identità dei nostri giorni di astanti assenti, di tempo che passa mentre navi frattanto affondano con tutto il loro carico di umanità dolente, e affondano oppresse dal peso dell’ipocrisia di chi da astante è presente-assente. Ed ecco chiaro come dal sorprendente codice letterario ludico di Emanuele Fiore, sgorgano fulminanti metafore, rinvii che la grazia della Poesia colora di affabile delicatezza ed efficacia. Doppia metafora, se si coglie oltre alla costante allusività del titolo il rimescolarsi e implodere di significanti e significati nel caleidoscopio dei versi.
3 – Usurata la frase che adoperiamo per ricordare il detto latino “Intelligenti pauca”, probabilmente Emanuele ci farebbe eco con un “Negligenti multa”. Ma lui è imprevedibile, perché è Poeta di un genere che appartiene a quelli schedati sotto il “Si nasce”. E si nasce perché si acquista subito coscienza di quanto urge dentro. Perché la poesia è scrittura, quindi forma. Forma prima ancora dei contenuti, perché la priorità dei contenuti è patrimonio esclusivo della cronaca. La Poesia ha altri codici da rispettare e praticare, quello della reticenza che abbiamo citato, quello della sintesi e della creatività, della sincerità che è sinonimo di verità. La Poesia come diagramma del subliminale umano, ha dato lo stimolo alla tecnica quando ha inventato e realizzato strumenti come l’elettrocardiogramma e l’encefalogramma. La differenza consiste nel segreto profondo della poesia, che è quello di esprimere l’inesprimibile e del dire senza dirlo. Noi scommettiamo a favore di Emanuele Fiore e di questo suo esordio, perché siamo convinti di poterci approssimare al massimo alle ansie e ai codici linguistici che il poeta padroneggia avendo dotato di quanto è indispensabile a chi nasce poeta.
Né possiamo congedarci senza aver dato atto di pazienza e perseveranza a questo poeta che si diverte e far divertire, pazienza – e si dovrebbe aprire altro paragrafo – al momento di collezionare le singole poesie disponendone mannelli in ritmico ordine alfabetico per titoli, quasi accennando a costituirne macrotesto, e fino a lasciare il legittimo sospetto che anche il palleggiare tra ordine e ordine sparso possa celare una sua cabala, un messaggio da decriptare. Il resto è nell’aere perennius di quanto Dammi carta e pensa ci continuerà a comunicare con affabilità, levità e divertimento, per arricchire le nostre stesse presunzioni di letterati d’antica navigazione e confermare quanto potere riserva per tutti la Letteratura, specialmente in epoche di bravure diffuse quando, come per il caso di Emanuele Fiore, spicca la marcia in più della vera Poesia. (mg)
Angeli e The money
Eravamo intenti
ad accontentarci di poco,
adesso siamo in tanti
a voler giocare sporco.
Il tempo è denaro,
ma prima che la lira di Dio
ci mostri i mostri che siamo
avremo da spendere un bel po’ di virtù,
come pazzi dentro a un manicomio
perché qui non è come nelle favole
dove vissero tutti felici e in contanti.
(DNA) Dove Niente Accade
Euforia ad emissioni gratuite,
la catastrofe nella scoperta umana:
ma il sangue sa
cosa vogliamo dalle emozioni.
Informazioni genetiche
le strofe inventate per provare a stupirmi
e le molecole delle tue mani
sanno dove toccarmi.
La scienza
ci ha fatto credere diversi
tra atomi congelati
e neuroni incarcerati:
ma io lo so che sai tutto di me,
organismo vivente
nei tuoi pensieri
Dove
Niente
Accade
per esperimento, ma per follia.
Doppia catena parallela, io e te
che nessuno scienziato
saprà riconoscerci
né in laboratorio
e nemmeno ad occhio nudo.