Al momento stai visualizzando Colazione sull’erba

Giardini dell’Università di Princeton, mezzogiorno. A. è in piedi, sulla sinistra. Una macchia bianca, con la nuvola di capelli scompigliati e i pantaloni di lino, un po’ lisi all’altezza delle ginocchia.

L. pare un po’ più vecchio della sua età, in elegante doppiopetto grigio e cravattino nero. La pettinatura è ordinatissima. Si sdraia sull’erba. Dietro di loro: una sedia di vimini, uno sgabello e un tavolino di metallo verniciato con bevande, bicchieri e posacenere.

Sul fondo, il tronco di una grossa quercia e la ruota di un mulino. Una ragazza bionda cura i cespugli delle rose. Il fotografo mette a punto l’inquadratura.

A.

Su, guardi in macchina. Cerchi di sorridere, caro. Lo so che c’è afa. Ma questo scatto viaggerà in tutto il mondo, sa? Desidera un caffè? Coca-Cola? Oppure gradisce un po’ di vino? Non è certo uno dei vostri pregiati italiani, ci mancherebbe. Ma ha carattere.

L.

Un’aranciata, vi ringrazio. E datemi un posacenere. Non vorrei rovinare questo bellissimo prato. Poi, forse, assaggerò un dito del vostro chiaretto di California. Pare trasparente, visto da qui. Tuttavia credo abbiate ragione: ne parlano piuttosto bene.

A. (si sdraia)

Su, collega. Si rilassi. Si metta comodo. Posso chiamarla così, vero? Collega. Non spetta a me decidere, sia chiaro. Ma se qui le offrissero una cattedra, ne sarei onorato. Insomma, che piacere ritrovarla in America. Finalmente ha accettato il mio invito. La prego… Faccia come se fosse a casa sua. È andato bene, il viaggio in treno? Si è trovato a suo agio? Meglio il nuovo continente o la vecchia Europa, per spostarsi a bordo di una vaporiera?

L.

Per ora tutto secondo i piani, vi ringrazio. Anche se nel Regno, merito del nuovo regime, gli orari sono rispettati al secondo. Lo dicono tutti. Nessuno sgarra. Sarebbe alto tradimento. Invece, qui da voi, il treno ha fatto ritardo. È vero, solo pochi minuti. Ma il declino inizia quando si accumulano tante piccole inesattezze.

A.

Non le manca, la famiglia?

L.

Non lo potete immaginare, quanto. Scrivo lettere quasi tutti i giorni. E ne ricevo, regolarmente. Ma non basta, capite? Sono qui da un mese, in fondo. Sulla nave, quel maledetto “Conte di Savoia”, mi ero sentito quasi morire. Attraversate un oceano? Allora mettete in conto questo: ogni secondo che vi tocca, dovete difenderlo da un abisso. Onda dopo onda, si spalancano sotto di voi le fauci un gorgo infernale. Il rumore è tremendo. Pagate ogni attimo di vita con la paura di non godere del successivo. Ma poi, in un modo o nell’altro, finalmente vi sbarcano. Valeva la pena, toccare la seconda volta il suolo americano.

A.

E il premio, lassù in Svezia? Che effetto fa? È come galleggiare su una nuvola, dicevano. Già. Per un po’, la sensazione è quella. È lo scrittore più famoso del mondo, lei. Se lo merita. Ma non dura, vero? A conti fatti, l’importante è fare sempre il proprio dovere. Giorno per giorno. Come se niente fosse. Solo adesso mi lasciano un po’ in pace, sa? E a lei, che passa il convento? Giornalisti, attori, produttori… Fanno a gara per venirla a trovare, non è così? Sento dire che il cinema la reclama ancora, a gran voce. Pare le sia andata piuttosto bene. L’altra volta, con lei c’era un magnate dell’industria. Quel Ford. Lo sa? Ha promesso di dotare ogni americano di quattro ruote gommate. Per andare in ufficio, ma non solo: in vacanza e la domenica a prendere il gelato con tutta la famiglia.

L.

Vedremo. Credete, non so ancora se dirmi prossimo a un tracollo o alla vigilia di un’immensa fortuna. Sembrano tutti piuttosto guardinghi. Spirano venti di guerra, là fuori. È inutile negarlo. Sono usciti dalla crisi, un po’ arrancando. Ma è la solita minestra riscaldata: sembra provino gusto a ripiombare di nuovo nei guai. E poi, questa America… Ve lo confesso, la trovo molto cambiata. L’altra volta, mi diede l’impressione di un luogo mitologico. Sempre capace di creare dal nulla nuove forme di vita, in virtù di chissà quale arcano potere. Adesso, invece, mi sembra solo una vetrina. E piuttosto ordinaria, per giunta.

A.

Mah, non saprei. Cosa vuole? Faccio vita talmente ritirata, qui. Il mio brodo di coltura non è certo il palcoscenico. Ma… A proposito. Dica, la sua bella e brava attrice italiana? Come sta, eh? Adoro come recita. E ho un debole, lo ammetto, per i capelli rossi… Che splendore…

L.

Se ne parla anche qui?

A.

In effetti, è il secondo argomento di conversazione quando tirano in ballo il suo successo di drammaturgo. Almeno, così mi riferisce chi frequenta i salotti che contano. La bellezza italiana attira sempre l’attenzione, vero? Quando poi è lo specchio fedele di un enorme talento…

L.

E il primo oggetto delle chiacchiere? Ditemi, sono curioso.

A.

Lo ha detto poco fa: la guerra, no? La frase che le è uscita dopo lo sbarco, quando ha difeso l’invasione italiana in Africa. Quanto rumore, dopo: «Anche l’America, un tempo, era abitata dagli Indios. E voi l’avete occupata». Non le pare esagerato? «Se era diritto il vostro, lo è anche il nostro». Ma è la legge della giungla, questa… Il vecchio Darwin ci ha spiegato che dal tempo delle scimmie, o se preferisce dal tempo dei primi cavernicoli, ne abbiamo fatta, di strada…

L.

Già… In peggio, forse. Mi trovate esagerato? Siete in errore. Anzi, sono stato fin troppo tenero. Roma è stata al centro della cultura di tutto il mondo. Potrà finalmente tornare ad esserlo, grazie alla nostra rivoluzione. Grazie al nostro duce, che ha fatto capire all’intero pianeta di che pasta sia il popolo italiano. Alla faccia degli Stati Uniti. Però non vi fidate. Vedete, vale per gli individui ma anche per i popoli: se v’imbattete in una maschera, dietro può nascondersi l’inganno. Ne ha tutto il diritto. E la storia parla chiaro, in proposito.

A. (abbassa lo sguardo)

Se lo dice lei… E la sua diva? Riuscirò forse a rivederla, qui a Broadway? Che attrice. E che temperamento. La apprezzai così tanto, a Berlino. Sono già passati dieci anni. Come corre, il tempo…

L.

Se lo dite voi. Avevate lo stesso aspetto di oggi. Non siete affatto invecchiato. Ma com’è possibile? Qual è il vostro segreto? Dite la verità, avete forse costruito una specie di macchina del tempo? Vi siete imbattuto in una pietra filosofale? Non dimenticherò mai quella volta, in camerino, quando mi avete detto in perfetto italiano: «Siamo parenti, noi due. Lo sa?». Vi ho subito trovato simpatico.

A. (gli versa un po’ di vino e porge un posacenere pulito)

Grazie. E così, i due vecchi amici, eccoli ancora insieme. Qui, nel nuovo mondo. A scambiare ricordi. E a brindare ai successi. Peccato, però, non esserci rivisti a Parigi. Dove mi ha fatto visita il suo antagonista, quel poeta francese… Valéry, vero? Lo ha sbaragliato, alla fine…

L.

Da voi c’era pure Chaplin, ricordate? Non avrei potuto. Che nausea mi fa, quel tipo coi baffetti che sembra avere sempre l’aria di sfottere Hitler. Se fossi ambasciatore del Reich, avrei inoltrato da tempo una denuncia per vilipendio. È proprio patetico. Non lo sopporto. Profondo e moderno, dicono? A me pare solo un buffone. Vanesio e frivolo. In Italia, non avrebbe fatto fortuna. Patirebbe la fame, peggio di un guitto. E in quanto all’Africa, confesso: anch’io so far bene l’attore. Avevo una parte e l’ho recitata. Volevano lo scoop? Ebbene, l’ho offerto su un piatto d’argento. Tutto, pur di levarmeli di torno. Una massa di carne soffocante. Con quei taccuini. Quei lampi al magnesio. Ero troppo infastidito. Stavo per scoppiare. Colpa dell’effetto che ha prodotto su di me l’America, stavolta. Dodici anni fa, Nuova York mi era sembrata così sontuosa, così barocca. L’ennesima meraviglia del creato. Una folla, al mio arrivo. E, in albergo, eccomi riverito e coccolato: camerieri, segretari, manicure. Cesti di frutta e di fiori, bottiglie d’annata. Adesso, invece, la vostra America è così sciatta. E puzzolente. Anzi, sapete? Datemi pure dello snob. Ma vista così, dal quarantesimo piano del Waldorf Astoria, fa orrore. Devo tenermi lontano dalle tende: viene voglia di buttarsi di sotto, appena arriva il tramonto. E quello non sgarra, lo fa tutti i santi giorni, maledetto…

A. (imbarazzato)

E la sua compagnia americana? L’ha poi lanciata? Da noi, il teatro ha sempre sete di eccitanti novità. È una specie di febbre.

L.

Non ve lo nascondo, collega: sono tornato apposta. Valeva la pena tutta quella nausea per mare. Servirebbe anche al prestigio del mio teatro nazionale, fra l’altro. Non me l’hanno ancora lasciato fare, in Italia. Vedremo. Sapere aude, diceva il buon Kant. Il fatto è che la tragedia della vita non si accontenta di esistere. No. Pretende sempre più spazio. Si dilata, è come un firmamento stampato sulla superficie di un palloncino che si gonfia, attimo dopo attimo. Ecco spiegato, in poche parole, lo scopo del teatro. In quanto a voi, avete scritto la teoria ideale. La somma purezza. E lo sapete, vero? Chissà mai dove ci porterà. Che il mondo se ne serva, adesso. Alla fine, credo che abbia lo stesso scopo dei miei lavori. Siatene degno.

A.

E Hollywood? Dalla Mecca del cinema cosa si aspetta?

L.

Tenebre e luci hanno già stabile alloggio nei nostri cervelli, fin dai tempi di Adamo ed Eva. È il palcoscenico che abbiamo avuto in dote dalla natura. Un filo teso fra un orecchio e l’altro. Su cui, appena capita l’occasione, vogliamo fare i giocolieri. Ma, il più delle volte, finiamo per precipitare. E quindi? Ha davvero senso congelare il bene e il male della vita su una pellicola? E poi riesumarli, con un sistema di ombre cinesi? Per l’ipnosi collettiva basta e avanza. Ma la coscienza? E la memoria? Che fine faranno? Chi si occuperà di loro?

A.

La politica, no di certo.

L.

Quei due presunti geni, Eisenstein e Pabst. Si erano detti interessati a miei lavori. Così supponenti… Eppure i loro film si vendono ovunque. Praticamente a busta chiusa. Per caso li avete visti, voi, transitare nella hall del Waldorf? Hanno forse chiesto di me? Aspetto ancora le telefonate dei loro agenti. Che schifo. Nemmeno lo straccio di un telegramma, un bigliettino. Sapete? La vita è una matassa inestricabile. Fatta di rimpianti e d’illusioni. Un groviglio, pronto a svanire. Caro professore, caro collega: siamo vecchi. È tempo di bilanci. Per quel che mi riguarda, non so se sarò all’altezza dei calcoli. E voi, che dite?

A.

Dico che preferirei aspettare. Prendere tempo, dividerlo con qualche amico. E con gli studenti. E, naturalmente, numeri e formule a volontà. Non ho vergogna. Con i miei ragazzi, gioco a fare il direttore di un’orchestra che è l’intero universo. Una partitura di numeri e segni. In gran parte sconosciuta. Ma siamo al riparo, qui. Può dirmi tutto. Ad esempio: lei, un giorno, potrebbe tornare a credere in Dio?

L.

Dio? In fin dei conti, per il mondo, non ha più alcun senso che esista. Né l’ha mai avuto. Figuriamoci impegnarsi a crederlo. Nati senza un perché, siamo partiti da un mero incidente. Da un condominio di atomi. Lucrezio aveva ragione. In Svezia avrebbero dovuto assegnarlo a lui, il premio: alla memoria. La materia: ecco ciò che merita l’eternità. L’unica cosa destinata a sopravvivere nello spazio.

A.

Ecco, lo spazio è esso stesso materia, sa? E si curva, insieme con il tempo. E il tutto è in continua espansione. Proprio come il suo palloncino. Che miracolo, eh? Mi ci sono voluti anni, per capirci qualche cosa…

L.

Sì, ma è sempre troppo tardi.

A.

In che senso?

L.

Per capire, è troppo tardi. È il paradosso che ci tiene in pugno. Tutti quanti. Tra poco, leveremo le tende. Siamo vecchi, ci sfariniamo. Deliriamo, sgocciolando bava. Le ossa si staccano. Torneremo a dividerci negli atomi che siamo stati prima. Ma vivere nell’istante, l’unico modo per dimenticare il pensiero del destino, è un metodo insensato, porta alla pazzia. E lo impariamo a nostre spese. Ogni minuto che passa. Finché è troppo tardi. La tortura viene sospesa solo in un caso.

A.

Quale?

L.

Se ci sentiamo minuscoli frammenti. Parti di universi immensi e innumerevoli. A loro volta, atomi di universi ancora più grandi. Se un giorno il vostro fotografo qui presente, che ha quasi finito la preparazione, volesse il ritratto della mente di Dio, lo schema sarebbe perfetto. Ma, aggiungo, assai poco fotografabile. Beh, problemi suoi. Ah, ma che dico? Sarà il caldo, questo vostro vino yankee? Vogliate scusarmi…

A.

Ma no, andava benissimo. Pareva un dramma dei suoi. Via, lo metta nero su bianco. Sta forse pensando di lavorarci, qui in America? Funzionerebbe. Il pubblico, all’inizio, rimarrebbe un po’ sconcertato. Lo troverebbe stravagante. Ma poi starebbe al gioco. Perché non chiede di meglio, sa? Va molto di moda questo genere di cose. A proposito: in caso, mi vorrebbe come consulente? Lo farei più che volentieri. E completamente gratis, mi creda. Non ascolti i pettegoli che mi dipingono come un avaro…

L.

Vi ringrazio. L’offerta è lusinghiera, non posso negarlo. Ma la realtà parla da sola, così fa già tanta pena… Lasciamola in pace. E pensare che all’inizio, lo confesso, solo a sentire il vostro nome mi saltavano i nervi. Fu prima di Berlino, ricordate?

A. (lo sguardo a terra)

Come fosse ora…

L.

E la bella città di Zurigo? Ci fareste mai ritorno, voi?

A.

L’ultima volta, ci sono stato tre anni fa. A lei voglio dirlo. Sento che posso parlare liberamente. Sono andato a trovare mio figlio. Hans Albert è in manicomio, da quando ha aggredito sua madre. Ci siamo abbracciati. Un momento che mi è parso infinito. Abbiamo suonato un po’ il pianoforte insieme, prima di salutarci. Pare serrato dentro una specie di glassa impermeabile. Anaffettivo, dicono. Avrei voluto tanto portarlo qui con me. Forse in America avrebbe continuato a studiare. Alla sua maniera, s’intende. E certo avrebbe ottenuto cure migliori. Ma non c’è stato niente da fare. Prego sempre che non faccia la fine di sua sorella. La nostra piccola Lieserl, è talmente sensibile. Non merita proprio di soffrire così tanto… (si prende il viso tra le mani e piange).

L. (imbarazzato)

A proposito di manicomi. Sapete? Pure mia figlia Lietta ha sofferto. E non poco. Con quella madre che si ritrova. E che ci schiaccia tutti, persa nelle sue nebbie… La ragazza ha cercato di spararsi. Ma il colpo non è partito. Che cosa assurda, non trovate? Franchezza per franchezza: a ciascuno il fardello che ha. Non è per consolarvi, intendiamoci. So bene di essere io stesso la fonte della pazzia di mia moglie. Ma fra cent’anni, di tutto questo, che mai potranno dire? Nulla che possa cambiare le carte in tavola. A che pro, quindi, saper ridere in faccia alla morte?

A.

Questa specie non vede l’ora d’immaginare la propria fine. È il solo passatempo che non l’annoi fino in fondo.

L.

Eppure basterebbe così poco, per essere felici. Tutti quanti. Solo così, al momento opportuno, chiunque potrebbe guardare la morte dritto negli occhi. E dirle: «Finalmente, ti stavo aspettando. Ci ho messo una vita per trovarti».

A. (per un istante il sole si oscura, un boato attraversa il cielo)

Questi Zeppelin. Un vero prodigio della tecnica, non trova? Se l’oceano la terrorizza tanto, dovrebbe farci un pensierino per il viaggio di ritorno. Sono l’ultimo grido in fatto di sicurezza. Indistruttibili. Beh, si è fatto tardi. Tra poco avrò un’altra lezione. Non ce la fanno, non possono stare senza di me. Maestro… Posso chiamarla così? Le auguro un buon rientro a New York. E poi in Italia, naturalmente. A casa, cerchi di non parlare troppo male degli americani; non se lo meritano, almeno non tutti… Ma, per carità, non sia sempre così rigido, così serio. Cerchi di sorridere. Anche se non ha proprio l’occasione sottomano.

L.

Grazie, collega. E voi, mio caro, riguardatevi. Lo sapete bene, ogni istante può essere l’ultimo. Specie se arrivati a una certa età. Ma il mondo vi deve molto. Merita di avervi con sé ancora a lungo. Non siate egoista. O, almeno, fingete di non esserlo. Lo dico per il vostro bene.

Si alzano. Stretta di mano. Il fotografo scatta il loro ultimo ritratto insieme.

 

Lorenzo Morandotti