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Elva
 

Facile individuare l’origine di questo detto. Elva è un paese (ora conta poche decine di abitanti) diviso, come la maggior parte dei paesi di montagna, in parecchie borgate. Cosa abbia spinto ad arrampicarsi fino ai suoi quasi 1700 metri di altitudine, per dipingervi i suoi affreschi nella parrocchiale, Hans Klemer (conosciuto come “il maestro d’Elva”, appunto), uno dei più grandi artisti che abbiano reso esteticamente grande il marchesato di Saluzzo, solo Dio (e forse solo Hans Klemer, stesso) lo sa.
Elva, dunque, quando contava ancora centinaia di abitanti sparsi per le sue borgate, ne vedeva ogni anno molte decine (maschili) emigrare verso la Costa Azzurra (camerieri e fattorini d’albergo) o più prosaicamente verso la Provenza interna, come lavoratori stagionali nei mas, le grandi cascine della Crau o della Camargue, cantate da Mistral nel suo poema nobeliano. Qui, in un clima da arlesiana, passavano lavorando le stagioni estive (e poi qualcuno in Italia ha il coraggio di pensare che il Piemonte, terra “ricca”, non ha conosciuto l’emigrazione…) per tornare con qualche soldo (e con qualche ramo di lavanda per profumare di mare e vento il corredo che si preparava per le figlie) nel paese a cavallo tra valle Maira e Varaita a tirare avanti, loro e la famiglia, durante l’inverno. Proprio qui dove la reino Jano, la regina Giovanna della leggenda, la regina con i piedi di gallina, aveva scelto di passare il gramo tempo del suo esilio (ël marì temp dij sò ani…).
E le donne? Le donne, aiutate dai figli che man mano crescevano, aspettavano, lavoravano (a fasìo andé…: anche la terra si deve muovere in montagna e non deve stare ferma, se no, non produce) quel po’ di terra (che non bastava certo a sfamare tutta la famiglia) e quelle poche bestie, filavano, accudivano i figli (domi manserunt, lanam fecerunt, castae vixerunt, come in una alpestre cacciaguidiana Firenze a quasi 1700 metri sul mare, e senza un poeta che le celebrasse… sla paciara, cioè “come se non bastasse, per di più”); ma mentre aspettavano ecc. ecc. pensavano anche loro ad aiutare l’economia famigliare: i capelli, lasciati crescere per un anno intero, venivano tagliati dai caviaire, in provenzale (i cavié, in piemontese, cioè – se ci si permette la traduzione – i “capellatori”), quegli uomini cioè che, tagliate le trecce delle donne elvesi, le avrebbero vendute – un tanto al chilo – a coloro che confezionavano parrucche (forse per le stesse dame che soggiornavano negli alberghi della Costa Azzurra, forse quel nizzardo Negresco, dove i mariti erano uomini di fatica o camerieri). Ma non basta. Trecce tagliate, e sia, ma anche i capelli che durante tutto l’anno erano rimasti impigliati nei denti del pettine, la mattina quando ci si pettinava, venivano accuratamente messi da parte in un sacchetto e venduti, con gli altri, al cavié, «ma – giuradisna – non posso darvi lo stesso prezzo degli altri, questi a son ij cavèj dël pento, quelli rimasti, appunto, nel pettine: meno lucenti, meno forti, meno… insomma, li pago meno degli altri…»
Ecco perché un oggetto, una situazione, ma anche una persona, che valgono poco, che non ci danno soddisfazione, che ci lasciano con l’amaro in bocca, sono n’afé dël pento

 
 
 

Corto Mantese

Dietro questo pseudonimo si cela un personaggio di media cultura, ma di vastissime (e disordinate) letture. A cavallo tra Piemonte e Provenza, tra le montagne ed il mare, le sue brevi prose d’arte rievocano letture e tradizioni, cultura letteraria e sapienza popolare. Vive tra le contraddizioni e le antitesi, ossimoro umano in cui gli opposti dovrebbero placarsi, riunirsi e trovare la loro realizzazione.