NARRATIVA AMERICANA
LA SUPERFICIE DEL COMPROMESSO E L’HEIMLICH
Aveva sognato di mantenere una specie d’integrità,
una sorta di purezza incontaminata;
aveva trovato il compromesso e la forza
dirompente della superficialità. (p. 319) [1. Da ora in poi, nel far riferimento all’edizione del romanzo di John Williams – Stoner (1965), trad. di S. Tummolini, postfazione all’edizione italiana di P. Cameron (trad. di G. Oneto), Fazi, Roma 2012 –, riporterò tra parentesi la sola indicazione della pagina da cui traggo ciascuna citazione. ]
Il poeta contempla il caos dell’esperienza,
la confusione del caso e i regni
incomprensibili della possibilità.
Cioè il mondo in cui viviamo tutti
così intimamente da far sì che pochi di noi
si diano la pena di esaminarlo.[2. Id., Augustus. Il romanzo dell’Imperatore (1972), trad. di A. Lattanzi e B. Oddera, Castelvecchi, Roma 2010, p. 354.]
È l’impersonalità il tono di Stoner, terzo romanzo dello scrittore texano John Edward Williams[3. Gli altri romanzi dello scrittore nato a Clarksville nel 1922 e scomparso nel ’94 sono Nothing but the Night (1948), Butcher’s Crossing (1960; prossimamente tradotto sempre per Fazi) e Augustus (1972, romanzo storico, proposto in Italia già nel ’74 da Sperling & Kupfer e ripubblicato nel 2010). Di Williams sono noti anche un quinto romanzo, The Sleep of Reason, rimasto incompiuto, nonché due raccolte di poesie.], pubblicato per la prima volta nel 1965 e, soltanto adesso (forse in seguito al discreto successo della riedizione americana del 2006 per la New York Review Books), tradotto anche in Italia. Impersonalità che ‒ come si vedrà in questo saggio ‒ si sviluppa, secondo una ripartizione pienamente psicanalitica (ben presente anche nelle altre opere di Williams), dalla determinazione dell’identità esterna del protagonista, William Stoner appunto, e che riguarda il suo nome (il cui suono «non evoca alcun passato o identità particolare», p. 9), la sua disposizione nei confronti della realtà, la sua professione di insegnante presso l’Università del Missouri e persino gli individui con cui entra in contatto sul luogo di lavoro o tra le mura domestiche. In particolare, tra questi e Stoner si arriva a delineare una comune dimensione senza senso, una regione superficiale di disagio, di profonda incomprensione e di silenzi risentiti ed espliciti, al di là dei quali si sa già che non si troverà alcunché. Questo qualcosa da desiderare, ma che quasi certamente non c’è, non si potrà mai effettivamente recuperare; in ogni caso, non è possibile, di sicuro, dire che i personaggi di Stoner si affannino a cercarlo. E allora anche le parole, le azioni, le espressioni dei loro volti, facciata di cui Williams descrive capillarmente disposizione e rovina, devono tener conto di questo vuoto. È un processo regolatore che è frequentemente innescato dalla descrizione dei personaggi: ad esempio, in quella dei volti di Archer Sloane, di Hollis Lomax e di Charles Walker, dei quali si parlerà più avanti, e in quella di Horace Bostwick, il padre di Edith, la moglie di Stoner:
Era di statura media, con il viso lungo e profondamente segnato, rasato con cura; spesso, con un gesto nervoso, si passava le dita tra i folti riccioli grigi. La voce era secca e monocorde e gli usciva dalle labbra quasi immobili, senza espressione o intonazione, mentre le sue lunghe dita sottili si muovevano con grazia e decisione, come per restituire alle parole quella forma che la voce non riusciva a dargli. (p. 17)
Era il viso di un divo del cinema. Lungo, affilato e mobile, eppure con dei tratti decisi. La fronte era alta e stretta, solcata da grandi vene, e i capelli folti e ribelli, del colore del grano maturo, la incorniciavano con un effetto vagamente teatrale. (p. 109)
Il ragazzo aveva un braccio che gli pendeva rigido su un fianco e camminando trascinava il piede sinistro. Il viso era pallido e tondo e tondi erano anche i suoi occhiali, con la montatura di corno, mentre i capelli, neri e sottili, erano pettinati con la riga da un lato e aderivano perfettamente al cranio. (p. 152)
Anche Horace Bostwick era alto, ma era d’una pesantezza strana e irreale, quasi corpulento. Un riporto di capelli grigi si avviluppava intorno a un cranio altrimenti calvo e delle pieghe di pelle floscia gli pendevano dalle mandibole. Quando si rivolgeva a Stoner guardava al di sopra della sua testa, come se stesse osservando qualcosa dietro di lui; e quando Stoner gli rispondeva, tamburellava con le grossa dita sul cordoncino al centro del panciotto. (p. 70)
Ciascun ritratto è, nel corso della narrazione, completato da continui rimandi all’ordine patognomico dell’espressione e, cioè, al modo in cui, di volta in volta, quelle figure così ben delineate reagiscono a parole ed emozioni. L’impressione complessiva è che tutta questa realtà piana si chiuda sempre più in se stessa, intorno a un nucleo inconoscibile che, pur arricchendosi di particolari e di aspetti apparenti, seguiti a non spiegarsi. Nella misura in cui tutto resta capito male e rimane privo di soluzione e di liberazione, esso continua a tornare, si ripete, di azione in azione, come di volto in volto: ciò equivale a dire che il processo di rimozione fallisce e, all’interno di una costellazione familiare ben delimitata, si produce il perpetuo ritorno del superficiale.
Stoner non è una maschera che personifica positivamente questa superficialità, oppure un qualsiasi altro concetto o un particolare carattere; egli, pur non lasciando traccia, ha un peso: quella gravità psichica insita nella coerenza delle proprie azioni impassibili, nell’orientamento inflessibile e ostinato che decide di accordare loro. Si tratta di un esercizio «di determinazione feroce eppure distaccata» (p. 101), una prova di convinzione che si produce in uno spazio definito, circoscritto, ma – tutto sommato – quasi anonimo, comune, e, lo si capisce, nevrotico. Sarà per questo motivo che, presto, la città di Columbia e l’Università del Missouri diventano luoghi immaginari, come d’altronde avverte lo scrittore nella breve avvertenza che precede il romanzo: «mi sono preso – osserva l’autore a proposito della corrispondenza tra la storia narrata nel suo libro e la realtà – alcune libertà, sia fisiche che storiche, rispetto alla stessa Università del Missouri, che è diventata a sua volta un luogo immaginario», p. 7)[4. Williams resterà sensibile agli errori della storia e alla loro ricaduta narrativa anche in Augustus: «Ho inventato – chiarisce egli stesso nella Nota dell’autore che precede il romanzo del ’72 – là dove i dati storici sono incerti o incompleti. E ho creato alcuni personaggi cui la Storia non fa cenno. (…) se in questo libro sono presenti delle verità, sono le verità della narrativa più che della Storia» (J.E. Williams, Augustus cit., p. 4).]. Uno spazio drammatico che (allo stesso modo che l’identità di Stoner e degli altri personaggi) si riesce a cogliere soltanto dall’esterno o, mai poi è la medesima cosa, fissando l’attenzione sulle sue singole parti: Stoner, e ciò è emblematico, considera il proprio corpo come se lo potesse fare senza essere implicato in esso (come se lo osservasse, cioè, per il tramite del suo fantasma); coglie tale estensione (priva di delimitazione nette), mai complessivamente, come se le fosse molto vicino ma, ciononostante, restasse da essa molto distante. Riporto qualche esempio di siffatta catastrofica spersonalizzazione tratto dalla seconda parte del romanzo:
A un tratto gli parve di essere uscito da se stesso e di sentire la propria voce che procedeva senza sosta, spietata e impersonale (p. 186); Per un istante gli parve di uscire dal suo corpo (p. 209); Sembrava in grado, a piacimento, di rimuovere la sua coscienza dal corpo che la conteneva e di osservarsi dall’esterno come un estraneo che ripeteva i gesti di sempre in modo stranamente familiare (p. 210); E mentre ascoltava quei suoni riversarsi dal suo sorriso immobile, continuava a esplorarle il viso con gli occhi (p. 222); Per un momento s’immaginò dal di fuori […] Contemplò quella figura, più da vicino possibile, ma più la guardava, meno gli sembrava familiare. Non era se stesso che vedeva, e all’improvviso capì che non vedeva nessuno (pp. 233-234); Sentì una rabbia sorda crescergli dentro (p. 256); Sentì che continua a sorridere come un idiota (p. 300); Sentì che la sua voce era bassa ma ferma (p. 304); Poi sentì la voce uscirgli dalla bocca con tono inespressivo (p. 308).[5. A questo processo si farà riferimento anche in Augustus allorché l’Imperatore in fin di vita, nella lunga lettera a Nicolao di Damasco posta nella densa Parte terza, quasi a conclusione della storia, affermerà: «Ora sono in grado, e lo sono da alcuni mesi, di distaccarmi dal corpo che mi contiene e di osservare questa sembianza di me stesso. Non è una capacità del tutto nuova, eppure mi sembra adesso più naturale di quanto lo sia mai stata prima» (ivi, pp. 355-356).]
Tale raffigurazione della vita e, nelle ultime pagine, della morte non comporta il pieno riconoscimento né dell’una, né dell’altra. Non è neanche, a ben guardare, ammissione di realtà. Se la rimozione non ha luogo, la pulsione insoddisfatta continua a colpire la realtà nel tentativo (vano) di renderla più consona ai propri desideri. Stoner non ottiene che un compromesso che gli consente di schivare una certa parte di questa realtà: raggiunge così quella che potrebbe definirsi una superficie di compromessosulla quale è più semplice, direbbe Freud, sottrarsi alla costrizione della sofferenza e che induce ancora una volta a credere che non vi sia altro al di là di essa e delle distorsioni che produce[6. Traggo l’armamentario concettuale di questa parte del saggio da S. Freud, La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi (1924), trad. di R. Colorni, in Id., Opere X. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti 1924-1929, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 34-43; in generale, mi sono servito anche di Id., Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), trad. di C.L. Musatti, in Id., Opere VIII. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 119-148, di Id., Il perturbante (1919), trad. di S. Daniele, in Id., Opere IX. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 77-118 e di Id., Il disagio della civiltà (1929), trad. di E. Sagittario, in Opere X cit., pp. 553-630.].
Talvolta, la superficie di questa fatale indistinzione è uno specchio: su questo Stoner contempla la sua figura come se stesse osservando un corpo posto all’interno di una bara, non riuscendo, pur tuttavia, ad acquisire maggior consapevolezza di sé e, il più delle volte, prendendo soltanto atto della sua stranezza, della sua incompletezza o della sua familiarità:
A volte si osservava allo specchio, contemplava il suo viso lungo e la criniera di capelli crespi, si sfiorava gli zigomi aguzzi; si guardava i polsi, che sporgevano di vari centimetri dalle maniche della giacca, e si chiedeva se anche gli altri lo trovavano tanto ridicolo. (p. 22)
Abbassò lo sguardo sul tavolo e, tra le sue braccia, vide la propria immagine riflessa sulla superficie lucida del legno di noce. L’immagine era scura, e non riusciva a distinguerne i lineamenti. Gli sembrava di vedere un fantasma che brillava impalpabile attraverso la materia dura e gli andava incontro. (p. 181)
Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo, in quegli occhi chiari che spuntavano da una maschera grottesca. (p. 290)[7. Il processo, in una sorta di complementarità nevrotica, riguarda anche Edith: «Voltò lo specchio verso la luce e fece un passo indietro, ispezionando la lunga figura sottile avvolta nella sottoveste azzurra che vi si rifletteva. Senza staccare gli occhi dallo specchio, sbottonò la parte superiore della sottoveste e se la sfilò dalla testa, rimanendo nuda nel chiarore del mattino. Arrotolò la sottoveste e la gettò nell’armadio. Poi si girò un poco esaminando quel corpo come se appartenesse a qualcun altro», p. 100.]
Anche davanti al campo di riflessione dello specchio o al fantasma che innesca, l’impassibilità di Stoner ai colpi della vita si mantiene come un blocco solido, «una vasta riserva d’indifferenza» (p. 43) che, con la sua rigidità, non lascia trasparire nulla oltre se stessa, nulla all’infuori dell’unità corporea di cui è priva. Stoner si guarda e si ascolta come se alla forma (Gestalt e, dunque, immagine costituente più che costituita) della sua indefettibile indolenza possano essere attribuite una inerzia, una prospettiva: in una parola, un’apparenza. Egli impiega una vita per prendere atto del fatto che essa, simbolizzando l’Es, coinvolge tutti i suoi rapporti (come in uno stadio dello specchio protrattosi indefinitamente e, insomma, incapace persino di situare «l’istanza dell’io»[8. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id., Scritti (1966), vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2006, p. 88.]) e finanche la rassegnata decisione di coloro che hanno scelto di andare in guerra; in realtà, essa riguarda anche quelli che, come lui, in Europa non sono mai andati, condannandosi a una sorta di fronte domestico: è una tragedia collettiva, generazionale, la base per una condizione universale di imperturbabilità, come se nulla potesse davvero riguardare le risoluzioni dell’uomo o tantomeno essere influenzato da esse: travolti dalle circostanze della vita, dalle fatalità esterne, fare o non fare qualcosa, o magari andare o non andare in guerra, è lo stesso. L’ordine è dettato da una forza soverchiante della natura, un influsso estraneo che accomoda per sempre ogni pretesa individuale.
Il paradosso è che Stoner – così come sua moglie Edith o la loro figlia Grace, o anche Hollis Lomax e gli altri colleghi d’Ateneo – finisce per non avere nulla a che vedere col proprio corpo e neanche con i suoi sogni o i suoi desideri: tutti i personaggi (anche chi, come Lomax e il suo allievo, Walker, è dotato di un corpo deforme) dispongono di un’immagine di loro stessi, «distorta ma riconoscibile» (p. 110), estranea e familiare al contempo ‒ e quindi, un po’ come nei volti ritratti da Francis Bacon (si veda, ad esempio, la fig. 1), somigliante, ma ben lontana dalla lettera ‒, che complica i processi di identificazione che ciascuno di essi mette in atto senza, però, impedirli del tutto. L’intera narrazione, secondo una visione «grottescamente familiare» (p. 104), è giocata sui concetti di estraneità, irriconoscibilità, incompletezza, vuoto; con essi interagiscono tutte le espressioni, le conversazioni e i pensieri che vorticano senza sosta intorno alla semplice storia delle relazioni di Stoner con la sua realtà (sia quella prossima, sia quella remota). Una forza impersonale cui tutto si adatta; uno stato di nevrosi esemplare e d’irrealtà («stranamente familiare», ripete Williams, p. 210) che tende a separare «l’io delle persone dal corpo» (p. 226) che le contiene. Si ottiene, così, quell’immagine a-familiare (Unheimlich) – vero e proprio «corpo-in-frammenti»[9. Ivi, p. 91.], dice Lacan – che è la effettiva protagonista del romanzo: se di maschera si tratta, essa è una maschera-vuota, sempre la medesima, sulla quale sono dipinti, duplicati di volta in volta, i tratti somatici di ciascun personaggio. È una immagine grottesca, forma immutabile inerte e pietrificata, mediante la quale ci si rende completamente insensibili alle proprie azioni e al proprio destino. Quando ogni aspettativa risulta frustrata, tutto appare come quando si è sul punto di morire, ma non avendo mai disposto della piena coscienza che solo allora si avrà della propria identità e del fatto che non avrà lasciato («Cosa ti aspettavi?», si chiede ripetutamente Stoner in fin di vita) alcuna traccia del suo passaggio nel mondo[10. Nell’ultima pagina di Agustus, Filippo di Atene, scrivendo dell’Imperatore a Lucio Anneo Seneca, chiarisce come «lui stesso, verso la fine della vita, ritenne che tutta la sua opera non fosse servita a nulla» (J.E. Williams, Augustus cit., p. 382).].
La risposta all’interrogativo di Stoner riguarda il programma del principio di piacere che stabilisce nella felicità lo scopo dell’esistenza umana, ma in conflitto con l’ordine indefettibile sviluppato dall’intera civiltà: si tratta di un programma irrealizzabile e Stoner non è che il racconto di questo fallimento universale[11. È una rovina di cui prende atto, finendo per abituarsi alla sua sorte, anche il personaggio di Augusto, nel romanzo del 1972: «L’uomo di età matura (…) ha imparato che il suo potere, per quanto grande, non potrà prevalere contro le forze del caso e della natura a cui dà il nome di dèi, e ha imparato che è mortale (…) e lui non è né l’eroe che dimostra il proprio valore contro queste forze, né il protagonista che ne rimane distrutto (…) finisce per rendersi conto di aver recitato tante di quelle parti da non essere più se stesso» (ivi, p. 341).]. Ma la tardiva domanda con la quale si chiude il romanzo può anche essere la seguente: che cosa vuole da me questo soggetto impenetrabile nel quale ritrovo la dimensione abissale, la radicale alterità del grande Altro? La richiesta essenziale individuale deve, cioè, fare i conti con la pretesa collettiva. L’insondabile abisso è presente in ogni essere umano, nella misura in cui, in fondo, del mio prossimo, io non conosco nulla. C’è un nucleo traumatico e alieno che persiste in Stoner come negli altri personaggi del romanzo: essi rimangono presenze indolenti, enigmatiche e inviolabili, e il motivo di ciò risiede nel fatto che Williams non ha alcuna intenzione di offuscarne la mostruosità (che, poi, è la caratteristica sostanziale dei tempi che essi stanno vivendo)[12. Come «Ottaviano Cesare è Roma: e in ciò sta forse la tragedia della sua vita» (ivi, p. 295), allo stesso modo Stoner sembra incarnare interamente lo spirito degli Stati Uniti tra le due guerre mondiali.]. La loro umana debolezza scaturisce, in altre parole, da una prospettiva apertamente inumana che considera la Cosa (Das Ding, direbbe Lacan) come sfuggente. Ciò equivale a dire che non posso cogliere tale alterità soltanto nel mio doppio-specchiato, semplicemente servendomi di un piano di riflessione; dovrei tener conto di un margine (antiumano) di esclusione, dell’«ombra di quella vita» cui Shakespeare fa riferimento nel sonetto che, declamato ripetutamente da Archer Sloane, inizia – come si vedrà tra breve ‒ Stoner a queste problematiche. Questa possibilità riguarda il prossimo, ma anche la mia esperienza soggettiva: il soggetto (vuoto) è, così, separato dai fenomeni e, in egual misura, resta diviso, incapace di assumere il nocciolo della sua stessa esperienza interiore, disgiunto irrimediabilmente dal proprio fantasma (cioè dall’appagamento del proprio desiderio). Stoner dunque, da un lato, dispone di uno schermo fantasmatico che lo protegge (e lo separa) dalla realtà; dall’altro, esso (vale a dire la parte più essenziale di ciascun individuo) deve rimanere rimosso per funzionare. Uno dei maggiori meriti del romanzo di Williams è quello di aver descritto lo spazio simbolico che insiste sulla relazione tra l’Io e questa alterità assoluta e di essere arrivato a raccontare il modo in cui questa condizione psichica si sia rivelata priva di uscita tanto per Stoner, quanto, evidentemente, per molte migliaia di uomini americani vissuti tra le due guerre mondiali.
Per concludere, è necessario tornare alla scena del romanzo che segnala la struttura nevrotica che, come si è visto sin qui, lo regge interamente: è quella in cui Stoner, assistendo per la prima volta a una lezione di letteratura inglese di Sloane, sperimenta sia il fatto che l’Io non sia centrato sul sistema percezione-coscienza, sia il modo in cui il principio di realtà risenta di ciò. A questo squilibrio è possibile ricondurre l’inizio della storia e quello, esemplarmente simultaneo, della nevrosi: il settantatreesimo sonetto di Shakespeare, che recitato da Sloane lascia Stoner turbato e senza parole, non è che la chiave espressa in termini letterari ‒ e, dunque, controversi ‒ della sua vita (o della morte cui ogni atto quotidiano rimanda); quella cui egli si consacrerà con fredda passione, senza pensarci troppo: poco di realtà («Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce / per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve», recitano i versi finali del componimento citato, p. 20) che lo avrebbe condotto, insieme a un intero popolo, «lì dove doveva andare» (p. 18); la stessa cosa che, nel fotogramma finale del romanzo, gli rivelerà come la sua vita, pur essendo del tutto normale, si sia consumata, in definitiva proprio in ragione di tale piatta normalità, nella rassegnata, docile e virtuosa morbidezza del fallimento.