Se non sentissi profondamente la crisi della parola nel mondo contemporaneo, forse avrei difficoltà ad entrare nell’atmosfera che produce la lettura dei testi di Giuseppe Raniolo, perciò vorrei premettere qualche breve considerazione su quella che io chiamo la crisi della parola. Nella chiacchiera contemporanea, sia quella dei media sia quella più colta dei romanzi e delle poesie, si avverte subito che la parola sta male, non suona, non evoca, non stimola, per certi versi non è più nemmeno veicolo di un significato.
Merlau-Ponty si interrogava sul “non detto” che abita nel “detto”. La parola svelava, mostrava eppure nascondeva e proprio per questo interrogava sempre l’ascoltatore. Produceva echi, suscitava emozioni, impegnava chi la pronunciava a comportarsi di conseguenza. Oggi paradossalmente la parola è diventata quasi muta, puro segno grafico. Non riusciamo a rispecchiarci nelle parole, sentiamo sempre più la distanza fra la parola e la cosa, tra la parola e i sentimenti. Si potrebbe dire che la parola sta entrando in un gioco, ma non il grande gioco linguistico di cui parlava Wittgenstein, ma la filastrocca demenziale dei nuovi codici alla Fiorello. Il gioco delle parole è infatti una specie di gratta e vinci: ti trovi dal tabaccaio per acquistare le sigarette e vieni preso dal raptus insensato di tentare la fortuna grattando stupidamente su un cartoncino colorato.
Tra le chiacchiere pubbliche e le scemenze di cui viviamo quotidianamente c’è un rapporto di immedesimazione. Le parole che diciamo sono quasi sempre insensate perché non rinviano a nulla oltre l’occasione in cui vengono pronunciate. Scherziamo con le parole ma non parliamo più perché parlare sarebbe troppo impegnativo per le nostre vite che galleggiano nel mare della banalità.
La parola originaria accade nella relazione e dà forma all’invenzione di un nuovo significato, riconnette i pezzi del mondo in una trama orientata verso un senso. La parola contemporanea è spesso soltanto la reiterazione ritmica di un rumore vocale che segnala l’esistenza di un punto animato in una scena inanimata, ma oltre al segnalare l’esistenza di un parlante non riesce ad andare, giacchè non è motivata da una profonda esigenza di comunicazione né si aspetta di suscitare reazioni e sensazioni oltre la pura esibizione di chi la pronuncia. Con la parola malata va in scena la scemenza del mondo che non riesce più ad esprimere alcun sentimento e alcuna passione.
In questo contesto le parole che Giuseppe Raniolo allinea nei suoi brevi pensieri sono per certi versi un tentativo drammatico di rimettere in campo la parola facendo risorgere la sua originaria creatività anche dalla semplice rima che fa scattare “l’associazione”, ad esempio, tra le “ali” e i “giornali”. Sembrerà una banalità, ma se uno scrive che l’immaginazione comincia a volare sulle “ali” delle pagine dei “giornali” sta provocando nell’ascoltatore un piccolo sussulto emotivo che gli fa immaginare di essere seduto in poltrona e, allo stesso tempo, di trasvolare gli oceani. Bisogna leggerle e rileggerle anche a causa della loro brevità, pronunciarle a voce alta, modularne il ritmo per sentire come in un insieme di frasi si possa intravedere una ferma intenzione di dissacrazione, l’amore per il paradosso, la velocità della memoria nello scioglilingua, il ritmo rassicurante delle filastrocche, fino a cogliere al fondo la grande tragicità della banalità del mondo.
Una vecchina di Milano/ a tutti dava una mano/ ma un signore di Forlì non gliela restituì/. Se uno ci pensa due volte è una filastrocca raccapricciante, oscena, dove a stento riesci ad immaginare il moncherino della signora che cercava di dare una mano ad un uomo che ne aveva fatto richiesta. Magari intravedi uno scompartimento di treno dove un signore, poco prima della stazione di Forlì, chiede di essere aiutato a tirare giù la sua valigia dalla cappelliera e che una vecchia signora con grande sforzo prova ad aiutarlo con le sue mani e si trova improvvisamente un moncherino sanguinante. È un umorismo alla Buster Keaton, pieno di amarezza, sghignazzante come quello di un demonietto orientale che si diverte ad inventare trappole mortali per i poveri passanti che attraversano una strada. C’è l’ironia sulla retorica del dono, c’è l’infinita generosità della vecchietta che ormai non ha nulla da perdere, c’è l’egoismo di chi, ricevendo un beneficio, come si diceva una volta, si prende il dito e tutta la mano. Oppure un’altra scena è quella dell’eccentrico signore che dona ad una fanciulla un “cavolfiore” come omaggio floreale.
Leibniz sarebbe soddisfatto del modo in cui la sua visione universale del mondo come “convocazione” di monadi che girano a vuoto in uno spazio infinito viene proposta come “mondo monade”, dove il “biscotto della monade” seduce la “monade di Monza”. Così sembrano susseguirsi come filosofiche riflessioni sulla vita gli incontri tra i vermi che vanno dritti a cercare il nocciolo e le uova che cercano di andare al sodo, ed è una bella soddisfazione per l’ubriacone che finalmente viene riconosciuto come un uomo pieno di spirito, come l’apologia dell’incoscienza di tre uomini che non sanno di essere tre, formando così un perfetto triangolo ottuso.
È ovvio che l’anoressica si muove per forza di inedia e che chi prova a nascondersi dietro il miele ha in corpo una ghiandola di fiele.
Ciascuno dovrebbe sapere che cercare di parlare ad un conducente che sta andando a fracassarsi contro un muro è perfettamente inutile, se questo è sordo. Anche gli oggetti inanimati hanno bisogno di parole. Come si può esprimere il disagio di un monumento se non cogliendo “l’odio della sua posa da prima pietra”? E’ ovvio del resto che l’aria in un circolo vizioso è sempre viziata.
Bisogna leggerle una per una e poi rileggerle le strane frasi che Giuseppe Raniolo ha avuto la sfacciataggine di offrire al lettore come un concentrato di saggezza antica, perché solo così ci accorgiamo dell’umorismo ironico e dolente che costringe l’autore ad esprimersi attraverso epigrammi e filastrocche in una continua dissacrazione di ciò che una volta è stato presentato al circolo dell’umanità come pensiero assolutamente originale e come ineffabile poesia.
Chi potrebbe consigliare di mettere gli orologi tutti a caso per ingannare il tempo e così non farsi fregare dal disastro del trascorrere inesorabile delle ore? E chi potrebbe affacciarsi in una stanza della neuro e constatare come allegramente giocano allo “schiaffo del sedato”? Bisogna fare con Raniolo la stessa operazione che egli suggerisce, togliere le parole di bocca e metterle al sole ad asciugare, in modo che poi, rinsecchite, si possono conservare nei barattoli per utilizzarle l’anno prossimo come intingolo per la minestra di verdura.
A chi non conosce personalmente Giuseppe Raniolo, mi permetto di suggerire di guardarlo bene in faccia quando si trova a conversare con gli alunni di una classe. La sua faccia è greca e fenicia, ha una barba da satiro e occhi in movimento come se volesse continuamente scrutare oltre le facce che si trova di fronte. Per certi versi una faccia iconica che potrebbe essere stampata anche sul dorso di una moneta, ritrovata in un’antica casa di pastori nelle vicinanze di Selinunte. In realtà questa sua faccia iconica corrisponde a questo gusto della battuta veloce, della freddura raggelante, del paradosso fulmineo: immaginate un medico che attraversa una corsia di anoressiche e che, appena si prova ad ascoltarne il cuore, se li trova trasformate in bulimiche di cui non riesce neppure a reggere il peso tra le mani. Solo un simile personaggio può constatare che le anoressiche danno magre consolazioni mentre le bulimiche consegnano un corpo enorme alle nostre deboli mani.
Mentre l’uomo contemporaneo vive la sua compulsione atletica sollevando pesi enormi, tuffandosi negli abissi, incatenando la terra al cielo, un povero Cristo che si trova a vivere nel mondo banale delle chiacchiere non può fare altro che interrogarsi tragicamente sul mistero dell’ovvio. Una freddura ci salverà.