Al momento stai visualizzando Uno specchio per Natale

 

Europa.
Medio Oriente.
Africa.

Avete mai sentito una di queste frasi?

– Gli europei sono ricchi e tonti, le loro donne sono tutte troie: chiedigli soldi e provaci con le loro donne.
– Gli israeliani trattano i palestinesi come i nazisti nei campi di concentramento: bisogna boicottare i prodotti israeliani e manifestare per i palestinesi. Aiutiamo il popolo palestinese contro l’imperialismo militarista israeliano!
– Non fidarti degli arabi, appena giri le spalle ti pugnalano, quindi cerca di non prenderli a lavorare con te. Meglio i rumeni. Ma i rumeni non prenderli mai in gruppo, mischiali altrimenti fanno banda.
– Poverini, gli africani, dobbiamo aiutarli senza di noi non ce la fanno, dobbiamo andare in Africa a fare qualcosa per loro: anche se non sai fare nulla, il tuo aiuto in Africa è indispensabile perché loro non hanno comunque niente e non sanno niente.
– Dai amico, dammi qualcosa, oggi non ho venduto niente, non ho niente da mangiare, dammi qualcosa tanto siete tutti pieni di soldi.
– Gli ebrei sono davvero razzisti e pensano solo ai soldi. Ma soprattutto sono ossessionati: sempre a parlare della Shoà. Ma che cazzo me ne frega del loro olocausto?
– La vostra democrazia sta distruggendo le nostre tradizioni africane! Ma chi ve l’ha chiesta? E poi da voi – ci sono stato – non ci voglio venire perché siete gente fredda, rozza, maleducata, spietata: i miei fratelli africani non meritano di essere trattati così male.
– Per molti di noi arabi, i palestinesi sono come gli zingari da voi: non fanno un cazzo, stanno sempre a chiedere soldi, ci fanno fare figure di merda davanti a tutto il mondo.
– Dobbiamo comprare i prodotti equosolidali perché dobbiamo aiutare! Senza di noi gli africani non possono sopravvivere!
– Voi europei sapete fare la morale a noi israeliani, per i palestinesi, ma poi in Europa trattate gli arabi anche peggio di noi: appena un arabo vi si avvicina chiamate la polizia!
– Qua in Africa tutto è fermo, tutto è disperazione ci servono più aiuti, più donazioni da parte della vostra gente.
– Con tutti i delinquenti africani e arabi che vengono qui dobbiamo chiedere il permesso per uscire di notte a casa nostra o per camminare tranquilli nelle nostre strade. Dobbiamo fargli capire chi è che comanda.

Queste frasi non le ho sentite solo io.
Le abbiamo sentite tutti.
Ce le dice la nostra mente.
Le abbiamo pensate tutti.
Le produce la nostra ignoranza, la diffidenza e la paura per tutto ciò che non conosciamo.
Noi umani. Nessuno escluso.
Facciamo finta di non sentirle, di tenerle nascoste, di non pensarci finché questi pensieri non si trasformano, prendendo vita.
Diventano gesti, libri scolastici, politiche nazionali ed economie.
Guerre.

Europa.
Medio Oriente.
Africa.
Uno squarcio in verticale nel ventre del pianeta.

L’Africa in Europa.
Ero piccolo, andavo ancora alle elementari negli anni ’80.
Un giorno d’estate pranzavamo per caso nel ristorante di un campeggio.
Ma io non volevo mangiare.
Mi rifiutavo di mangiare.
Non volevo mangiare perché passando davanti alle cucine avevo visto una donna nera.
Sì, mi facevano schifo quella pasta, il piatto e pure le posate: perché in cucina c’era una donna africana.
Erano gli anni ’80 e per le spiagge arrivavano i primi africani a vendere oggetti.
Mi ricordo ancora che erano una novità.
La loro pelle, la loro voce, il loro accento, i loro lineamenti.
In Italia allora si cominciava ad estendere un benessere economico diffuso.
Lo stipendio fisso, la luce elettrica e l’acqua corrente al posto della fame, dei piedi scalzi e delle scarpe rotte.
Il passato veniva presto dimenticato, nel mentre arrivavano gli africani, i “vù cumprà”.
E i bambini in spiaggia a guardarli come creature uscite dal mare.
E per loro nella nuova e ruspante Italia il dileggio, le contrattazioni: i deboli e i forti che facevano i prepotenti tirando il prezzo con gli africani, non con i negozianti nostrani, con loro bisognava mostrarsi ricchi.
Anche per me gli africani erano quegli esseri lì: diversi, scuri, scalzi, strani.
Non avevo ancora letto Malcolm X né Carmichael ma sapevo benissimo che nero, o meglio negro, era sinonimo di sporco, brutto e cattivo anche se nessuno me l’aveva detto esplicitamente.
Quel giorno, io non volevo mangiare e piangevo perché nella cucina del ristorante c’era un essere nero, sporco e africano: mi faceva schifo qualsiasi cosa toccasse.
Mio padre a quel punto si alzò, mi prese per mano e mi portò dritto in cucina.
Entrò in cucina con me e mi portò per mano, delicatamente, davanti a quella donna.
Io piangevo.
Mi ricordo ancora il viso di quella donna africana.
Aveva capito tutto in un attimo.
Mio padre me la presentò.
Lei mi offrì un sorriso umile, di chi, donna nera in quell’Italia anni ’80 così cruda, verace e ancora provinciale, doveva essere già stata pioniera delle peggiori situazioni e battute grasse.
Mi porse la mano sorridendo, un velo di imbarazzo: aveva davvero capito tutto.
Era imbarazzata ma aveva capito che quel gesto mi avrebbe segnato.
Mi avrebbe segnato per sempre.
Fu allora che per la prima volta in vita mia toccai la mano di un nero.
Fu allora che mi accorsi che aveva la stessa consistenza mia e delle persone che conoscevo.
Fu allora che fu graffiato lo spesso velo della mia ignoranza.
Non mi ricordo se mangiai o meno.
Ma son sicuro che quel giorno fui spinto a fare il primo passo per partire in Africa.
Ero ancora ben lontano dal poter anche solo aprire un varco nello spesso velo d’ignoranza ma per lo meno già stavo evitando di trovarmi a 50 anni, come la mia professoressa di chimica delle Superiori, che a lezione indugiò a lungo sul fatto che le faceva venire il vomito il “solo vedere la mano di un africano, quella parte bianca del palmo che poi diventa nera e quel nero che diventa bianco”.
Già probabilmente quell’episodio cominciò a insinuare le crepe del dubbio, evitandomi di diventare come quella professoressa.

L’Europa in Africa.
Un giorno un uomo africano, uomo risoluto, rispettato nel villaggio e carismatico, mi raccontò con un magnetismo degno del miglior Gassman:
“Ero in Emilia Romagna per fare il manovale.
Erano gli anni ’80.
Ero in un autobus.
Quel giorno, davanti a tutti, una bambina piccola si staccò dalla madre e venne verso di me.
Venne da me e prese a sfregare il dito della sua mano sul dorso della mia.
Lo stava sfregando con vigore.
Lo stava sfregando perché stava cercando di pulirmi.
Stava cercando di pulire la mia mano nera.
Tutti nell’autobus erano raggelati.
Tutti guardavano me e quella bambina.
Mi ricordo ancora lo sguardo della madre: era completamente rossa.
Io sapevo che era la mia ennesima umiliazione in Italia e non ne potevo più.
Stavo per scoppiare.
Fu allora che la bambina smise di sfregare per pulire il colore della mia pelle.
A quel punto alzò il dito, se lo porse agli occhi e si stupì.
Si stupì che il suo dito era rimasto pulito.
Si stupì che la mia mano era rimasta nera.
Il suo candido stupore mi stravolse.
Per la prima volta non mi arrabbiai per il vostro razzismo.
Per la prima volta invece compresi.
Compresi tutto.
Con quella bambina vi perdonai tutti e tutto il razzismo che avevo subìto fino a quel giorno in Italia.
Perché allora compresi che non eravate razzisti.
Compresi che eravate solo ignoranti.
E che nella vostra ignoranza eravate innocenti.”

Ecco. Così.
Ecco l’Africa.
Ecco l’Europa.
Ecco il Medio Oriente.
Ecco chi siamo.
Noi possiamo vedere solo specchiandoci.
È per questo che auguro a chiunque di ricevere uno specchio a Natale.
Uno specchio, uno specchio lontano in cui è riflesso un viso africano, iracheno, israeliano, palestinese, afghano, siriano.
Guardiamo lo specchio e diciamo.
Diciamo a noi stessi:
“Sì, di te non me ne frega un cazzo.
Se muori tu in effetti non mi cambia nulla.
Tanto tu sei ignorante, brutto, rozzo, sporco, povero, fanatico, aggressivo, guerrafondaio, pigro e invidioso di noi.
Non mi fotti: vuoi solo rubarmi le mie ricchezze, i miei beni, la mia donna e mia figlia e che con le armi che abbiamo noi ci uccideresti tutti.
È per questo che ti tratto diversamente.
Perché sei fatto così.
Sei diverso. Diverso da me.
Ma l’importante è che ora quello che succede da voi non succeda da noi.
Ma l’importante è che ve ne stiate a casa vostra.”

Ecco sì.
Proviamo a vedere che effetto fa.
Dobbiamo essere tutti più buoni a Natale: sinceri davanti ad uno specchio lontano.
Magari se siamo sinceri comincia a cambiare qualcosa.
Magari riusciamo a vedere pure noi stessi in quello specchio.
Non si sa mai che un giorno l’uno scorga nell’altro semplicemente un altro se stesso.
Non si sa mai che un giorno ci accetteremo per quello che siamo: uomini, donne, diversamente uguali, ugualmente sofferenti.
Non si sa mai che un giorno si cominci a risolvere i veri problemi.
Non si sa mai che cominciamo a capirci.

 

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).