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foto di Engin Akyurt

Julie Spencer è una bellissima ragazza di circa trent’anni. Sguardo solare, pelle olivastra e liscia; un sorriso smagliante dal colore perlaceo. Grande sportiva, in età adolescenziale è stata una promettente giocatrice di tennis. Fisico atletico e ben definito, dalle forme sinuose e femminili al contempo. Gambe affusolate e morbide, dotate di potenza esplosiva.

Laureata in medicina, fin da giovanissima aveva sviluppato una fortissima empatia per il prossimo, prestando servizio volontario presso l’ospedale cittadino.

Da circa sei mesi, per l’immensa gioia dei genitori, è convolata a nozze con Brian.

Imprevedibile il modo in cui si sono conosciuti.

“Amore, ricordi il giorno del nostro incontro?… Sono passati ormai dieci anni… sei arrivato come una luce nella mia vita… abbagliante!… “ONE” degli U2, in sottofondo… e tu, come per magia, sei subentrato prepotentemente nel mio universo… come una meteora… ti amo!”.

Quel giorno, percorrendo in auto una ridente stradina di campagna, autoradio a tutto volume, i loro sguardi si incrociarono indissolubilmente, come per incanto; da quel momento, non si sono più lasciati.

Brian Rogers è il prototipo del cinquantenne trasandato e svampito, dal fisico pesante e tarchiatello. Barba lunga e velata di bianco, quasi a coprirne interamente le guanciotte, paffute e pronunciate; occhialini tondi, a fondo di bottiglia. Un aspetto che gli conferisce ben più della sua età biologica.

In tanti, osservando la coppia, si domandavano come fosse plausibile una tale promiscuità; tanto avvenente e verace lei, quanto goffo e “antico” lui.

Ma quell’uomo era molto di più. Cardiochirurgo di indubbia nomea, rappresentava uno straordinario e precoce esempio di predisposizione naturale alla “scienza medica”, con diffusi riconoscimenti ed attestati di stima da parte del mondo accademico.

Carriera folgorante la sua; aveva cavalcato, rapidamente e con estrema disinvoltura, le onde del successo, affermandosi come delfino rampante del professor Liam Scott, fulgida eminenza nel settore.

Un’indiscutibile fama lo precedeva. Il clamore e l’eco delle sue mirabili “performances scientifiche”, avevano coinvolto ed appassionato la giovane donna che, fin dal primo istante, se ne era perdutamente innamorata, nonostante le evidenti diversità.

“Tesoro, spero tu percepisca la profonda ammirazione e l’incondizionato rispetto che nutro nei tuoi confronti… sei la mia luce!… hai dato un nuovo senso alla mia esistenza!”, gli ripeteva quasi giornalmente, guardandolo negli occhi.

L’idea di allargare la famiglia era da sempre un tarlo della coppia. Se non fosse stato per i numerosi ed “ingombranti” doveri lavorativi, avrebbero, già da tempo, “sfornato” qualche pargoletto.

Da pochi mesi, proprio in ragione di un potenziale “lieto evento”, si erano prodigati nell’acquisto di una confortevole villetta, in una zona residenziale della città, a pochi passi dall’abitazione dei genitori di lei.

Negli ultimi anni, questo spiccato e “represso” senso materno, mai soddisfatto, le aveva sviluppato una passione smodata per le fiabe per bambini, gradevole retaggio di un’infanzia spensierata e felice. Ogni sera, prima di addormentarsi, era solita dedicare almeno un’oretta all’immancabile rito della lettura, grazie al quale, chiudendo successivamente gli occhi ed ascoltando la sua musica preferita, riusciva a “catapultare” la mente in uno stato di profonda “trance”, atta a ricreare una piacevolissima condizione di benessere. In quei frangenti, sembrava idealizzare la tangibile percezione di una voce irreale, fuori dal coro che, “prendendola per mano”, aleggiava dolcemente su percorsi e scenari immaginari, accompagnandola nei meandri della sua fantasia.

Julie era una forza della natura. Amante dello sport e del fitness, riusciva a conciliare metodicamente i propri impegni di lavoro con la passione per l’attività aerobica, di cui sentiva un costante ed immancabile bisogno.

Da quando aveva deciso di ritirarsi dall’agonismo, si concedeva solo qualche “racchettata” con le amiche; momenti di puro divertimento, utili a canalizzare e veicolare la sua sferzante energia, in ossequio allo spiccato spirito guerriero che l’aveva sempre contraddistinta.

“Se non fosse per questo maledetto e persistente dolore al braccio sinistro… potrei rendere molto di più… non ne capisco la causa…”. Da anni, ormai, conviveva con una fastidiosa sensazione di indolenzimento all’arto, che non le consentiva di manifestare appieno il proprio potenziale. Nonostante i numerosi consulti con specialisti del settore, non ne riusciva a comprendere l’origine.

Ma torniamo ai due coniugi. Il loro rapporto non era stato sempre idilliaco. La donna, sicuramente più risoluta del proprio partner, non faceva segreto della sua incontenibile vitalità, motivo di scontri e litigi con il marito.

Brian, personaggio impacciato ed a tratti sciatto, possedeva, invece, un temperamento più mite e pacioso, a causa del quale, sovente, pativa veementi sferzate di “immotivata” gelosia da parte della moglie.

Ma i loro caratteri, apparentemente così conflittuali, rappresentavano, in fondo, il vero collante della relazione; due mondi lontani, quasi opposti, che riuscivano magicamente ad armonizzare la leggiadria delle rispettive anime.

E che dire della loro vicina di casa?

La deliziosa Mary Jones, splendida vecchietta dalle fattezze minute e delicate. Nonnina dolcissima e dall’incontenibile simpatia, aveva sempre mostrato uno smisurato affetto nei confronti della ragazza. Appassionata cultrice della “cucina vegetariana”, non perdeva occasione per deliziare i Rogers con appetitose e succulente pietanze, frutto di una straordinaria creatività culinaria. La donna, almeno così si vociferava in zona, palesava un morboso trasporto per la pulizia, tanto da dedicare gran parte della giornata all’ossessiva sanificazione di qualsiasi oggetto le capitasse sotto mano.

Era ormai diventata un punto di riferimento per la “piccola” Julie che in lei identificava una seconda mamma ed un’affidabile confidente. A dispetto delle apparenze, invece, non provava grande simpatia per Brian; ne riconosceva gli indubbi meriti professionali, rinfacciandogli, altresì, di aver strappato prematuramente la moglie al suo mondo, alla sua vita.

Una così marcata differenza di età, riteneva non potesse giovare alla loro unione.

Tra le due donne si era ormai sviluppata una profonda sintonia, tanto che, nei momenti di sconforto della giovane, l’anziana si prodigava in consigli e raccomandazioni amorevoli, sollecitandone autostima e nuova linfa vitale.

“Tesoro mio… ascolta… non abbatterti mai… c’è sempre un modo per uscirne… credimi… e poi devi terminare ciò che hai cominciato… hai una grande forza interiore… sforzati!… ti prego!…”. Un messaggio che risuonava sovente nella testa della ragazza, quasi ad amplificarne gli stimoli e fomentarne la voglia di successo.

A contorno di questo raggiante “quadretto familiare”, non potevano mancare Frank e Dana Spencer.

Genitori amorevoli e permissivi, morbosamente attaccati alla figlia.

Sposati giovanissimi, avevano desiderato fortemente un erede, che, purtroppo, stentava ad arrivare. Sottoposti ad una cura ormonale, erano riusciti, dopo anni di tentativi e coriacea caparbietà, a raggiungere il loro scopo.

E così nacque Julie.

Il padre, al momento del parto, le aveva regalato una sottilissima collanina d’oro, con un pendaglio a forma di cuore spezzato; collideva perfettamente con l’altra metà, complementare, che teneva gelosamente al suo collo, a riprova del grande amore che li pervadeva.

Fin dalla più tenera età, la bimba aveva mostrato uno smisurato trasporto per lo studio e per le arti, nonché una spiccata predisposizione per la disciplina sportiva.

Ma la sua vera passione, a tratti maniacale, era rappresentata, senza alcun dubbio, da Chop, un coniglietto di pezza bianca, agghindato con un vestitino di colore verde smeraldo, che per anni aveva idealizzato quale suo migliore amico e compagno di giochi; l’affettuoso ed agognato “fratellino”, mai arrivato.

Lo portava dovunque, anche a scuola, riponendolo gelosamente in un apposito taschino del suo zainetto, lontano da occhi indiscreti e da sguardi di derisione.

All’insorgere di qualsiasi problema o momento di sconforto, bastava stringerlo al petto, per sentirsi subito sollevata; affondare le mani nel suo soffice manto, le regalava una costante sferzata di pura positività.

E poi il matrimonio.

Per la ragazza significava tanto, quasi il raggiungimento di un sogno, di un traguardo. L’acquisto dell’abito bianco, la gestione dei preparativi, la scelta della chiesa, avevano sempre rappresentato, fin dall’adolescenza, un’esperienza felice, da condividere con i suoi affetti più cari, per rinsaldare, se ancora ve ne fosse bisogno, il legame che li univa.

Quella cerimonia le rimase indelebile nella mente e nello spirito.

Insomma, una vita perfetta, quasi da copertina, quella di Julie.

Oggi, però, è un giorno diverso.

La giovane donna percepisce qualcosa di strano, destabilizzante. Respira una sensazione che le trasmette tristezza, malinconia, quasi una palpabile forma di “assordante” angoscia, un velato alone di “glaciale” sconforto.

E’ agitata.

Posteggia la macchina in garage. Si appresta a salire al piano di sopra. Dalla tromba delle scale riconosce un vocio confuso, indistinto, di uomini e donne che parlano debolmente; non riesce a cogliere significati e parole. Discorsi dimessi, eterei, misti ad un alone di pianto e tormento. Lo spiraglio di un leggero chiarore, sottilissimo, traspare da lontano. Le forze cominciano ad abbandonarla. Gli occhi diventano pesanti; il corpo non reagisce, ormai svuotato da qualsivoglia “zampillo” di energia. Un senso di terrore la pervade.  “Cosa mi hanno fatto?… devono avermi sedata…”.

Cerca di scappare, evitando di emettere il benché minimo rumore. Non ha più impulsi, riflessi, stimoli. Mani forti e possenti le agguantano il braccio sinistro, impedendole di muoversi. Troppo debole per opporsi. Cerca ancora di divincolarsi, con un ultimo impeto di residuo vigore. Vorrebbe piangere, si dispera. Tutto inutile. La carne non risponde alle sollecitazioni della mente. “Brian…Brian…aiutami…ti prego!”. D’improvviso si sente accarezzare il viso, le guance, i capelli. Un bavaglio sulla bocca le impedisce di respirare; avverte un senso di atroce, persistente soffocamento. La luce si assottiglia; sempre più fioca.

In un altro universo, negli stessi istanti.

“Signori Spencer, se siete d’accordo, procederei…”. Frank e Dana, con le lacrime agli occhi, contemplavano il vuoto. “Ancora qualche minuto dottore… la prego”. La donna teneva tra le mani un libro, dalla copertina di pelle blu. La musica risuonava per tutta la stanza, a volume sommesso. Il padre si avvicinò al piccolo impianto stereo, collocato su un tavolino di legno bianco. Mise in “pause”. Aprì lo scomparto e prese in mano il cd; lo avvicinò al cuore. “Dottore… “Achtung Baby” è sempre stato il disco preferito di nostra figlia… per anni le ha fatto compagnia, qui nella stanzetta… speravamo potesse addolcire le sue giornate…”.  “Signori… vi capisco…”. Il medico abbassò lo sguardo. “Guardate il braccio sinistro di Julie… è tumefatto da anni ed anni di flebo… ne sono passati ormai dieci da quel maledetto incidente…”. La madre scoppiò in un pianto a dirotto. Stringeva al petto quella “reliquia”. “Dottore… una gita… una maledetta scampagnata con amici… una sbandata… e poi… fuori strada con la macchina… in un dirupo…”. “Guardi…”, continuò la donna, con tono rotto dalla commozione: “Questa è la tesi di laurea di nostra figlia… su Brian Rogers, il famoso medico degli inizi del ‘900… lo adorava… per lei rappresentava un impareggiabile modello di vita e di professionalità… purtroppo, però, quel nefasto avvenimento non le ha permesso di completarla…”. Con voce dimessa, continuò: “Da qualche settimana, la sua professoressa e relatrice, dottoressa Jones, presagendo le nostre intenzioni, ha deciso di assemblare e portare a termine il lavoro di Julie… lo ha fatto stampare… questo è il risultato finale… ce lo ha consegnato proprio ieri sera…”. Aveva un nodo alla gola; non riusciva a pronunciare altre parole. Le lacrime le solcavano le guance, ormai appesantite da un decennio di inconsolabile disperazione.

Il pianto echeggiava “leggero” tra le pareti, scuotendo persino l’animo ormai “ruvido” ed inflessibile del dottor Mason. “Signora… conosco bene Mary Jones… è stata anche una mia docente. Voi non lo sapete, ma per anni, durante le vostre rare assenze, passava a trovare di nascosto vostra figlia… soleva sedersi accanto a lei, tenendole la mano… e con dolcezza, quasi materna, le leggeva le favole per bambini, accarezzandole i capelli”. Ancora: “…Altre volte, con atteggiamento quasi didattico, le descriveva dettagliatamente la preparazione delle sue ricette “alternative”, nella speranza di poterle, al risveglio, degustare insieme…”. Il medico indicò col dito indice un piccolo sgabello, ricoperto di pelle nera, su cui spiccavano, in bella mostra, uno strafinaccio, il libro di “Biancaneve e i sette nani” ed una rivista di cucina, dai contorni ormai stropicciati. “Quelli ne sono la prova…”, disse con tono di tracotanza, quasi a voler sottolineare la veridicità delle sue affermazioni.

“…E comunque credetemi… la prof ha sempre adorato Julie…. le è sempre stata vicina, esortandola continuamente a reagire… ad aprire gli occhi…. voleva che si svegliasse, per continuare la tesi… per finire il lavoro che avevano cominciato…. quanto amore… che donna!…”. “Lo so dottore…”, intervenne il padre: “Tra le mille cose che ricordiamo della nostra piccola…”, chinò il capo, “…conosciamo il profondo affetto che la legava alla professoressa… ci raccontava del loro splendido rapporto… e del maniacale impulso della donna a spolverare tutto ciò che le capitava sotto mano… la spasmodica ossessione per il pulito…”; un leggero sorriso di approvazione si delineò sui loro volti.  Ne seguì un velo di efferata tristezza.

“Se siete pronti procedo…”, sentenziò il medicò. “Ancora un attimo…”, chiese gentilmente il sig. Spencer. Con un movimento delicato si sfilò la collana; la fece scivolare dolcemente sulla testa della figlia, senza destabilizzarne la posizione del corpo. La sovrappose a quella della giovane, fino a far combaciare i due ciondoli e formare un cuore perfetto. “Piccola mia, questo è il segno del mio amore per te…quando sei nata, mi ero ripromesso di riunirlo al tuo… ma solo al momento della mia morte… e invece…”. Un sobbalzo di sconforto: “La mia anima volerà via con te…”.

La madre, con la pelle del viso ormai segnata da anni di profonda sofferenza, abbracciò il marito, in preda ad un impeto di tenera commozione. Quindi, dalla borsa a tracolla, prese un peluche, sgualcito e dal colore giallastro. Chinandosi verso la figlia, le alzò il braccio, posizionandole il coniglietto sul seno: “Chop… tienile compagnia… non lasciarla mai sola… accompagnala in questo lungo percorso… lei è tutto ciò che abbiamo…”. Ne seguì un momento di sentito raccoglimento. “Signori, vi rappresento che vostra figlia è in coma da ormai troppi anni… mi sono affezionato anch’io… ho sempre provveduto personalmente alla fisioterapia giornaliera, cercando di stimolarle il tono muscolare… di sollecitarne il risveglio…. purtroppo nulla…”. Continuò: “…Ritengo, però, che la vita debba essere vissuta con dignità, con decoro… Sdraiata su un letto… senza alcun impulso vitale… che senso avrebbe continuare questa agonia?… ormai è niente più che un vegetale…”. Parole dure, sferzanti, proprie di un uomo che, dall’alto dell’innegabile esperienza, cercava di alleggerire, a modo suo, quella silente aurea di disperazione. I genitori, ormai affranti, ma intimamente consapevoli, accennarono un segno col capo, come ad autorizzare quel gesto estremo. Le accarezzarono amorevolmente le gote. Un abbraccio ed un pianto sommesso, scandirono quell’ultimo saluto. Mason staccò la presa del macchinario, il “nutrimento” che la teneva in vita. Le allontanò la maschera dalla bocca. Una smorfia di sofferenza apparve sul volto di Julie. Un impercettibile spasmo di dolore, quasi un senso di soffocamento, ne segnò le movenze del viso. Un’ultima, leggerissima contrazione degli occhi.

Lo sguardo si spense.

Proprio in quel momento, in una dimensione parallela: “Brian… Brian… non respiro… amore mio… addio…!”

Fabio Faro