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Il prossimo 28 ottobre Stefano Lanuzza, storico della Letteratura, poeta e pittore, espone le sue opere figurative presso la Galleria “LA CORNICE” di Lugano. Per gentile concessione dell’Autore del saggio di presentazione in catalogo, offriamo ai lettori di Lunarionuovo, di cui Lanuzza è da sempre ambito collaboratore, la riproduzione dell’importante saggio.

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Pitture dell’Europa Personale d’Arte figurativa di Stefano Lanuzza, Galleria “LA CORNICE” LUGANO 28 ottobre – 28 novembre 2020”

Pitture dell’Europa – Personale d’Arte figurativa Mondo poetico e allucinazione veggente Non so se tra i due  versanti di scrittore e pittore Stefano Lanuzza abbia deciso quale sia il prevalente o il suo più congeniale, ma credo che, come le due pendici d’un monte sono una più dolce e una più impennata ed erta, la letteratura per lui sia la prima e la seconda sia la pittura. Mentre la parte letteraria risulta più analitica e riflessiva, quella figurativa appare infatti vertiginosa, ardita, creativa e capace di sondare profondamente le tenebre della coscienza, restituendone sintesi concluse ed evidenti che si attestano come opere d’arte tra le più realizzate e consapevoli della contemporaneità. Però, per continuare la nostra metafora del monte, bisogna dire subito che la parte dell’immagine sussiste e prende forza proprio da quella della parola, che anzi ne viene ad essere un elemento costitutivo che la qualifica e la determina, rendendo la pittura di Lanuzza quella d’un artista che, prima di dipingere, ha fatto sua la cultura del pensiero, della riflessione e della poesia del nostro tempo, laddove comunemente i pittori si affidano ai talenti dell’istinto o all’intuizione, entrando a far parte anch’essi del naufragio della nostra epoca, fino ad esserne travolti. Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei, dice il proverbio e nel labirinto della produzione di questo artista useremo tale criterio per orientarci. La sua predilezione letteraria per Cioran, Kafka, Savinio, D’Arrigo, Sciascia autori fuori del coro, il nihilismo, Céline, al quale ha dedicato studi esemplari, ci dice che è un uomo che sta tra coloro che sanno guardare la realtà con occhio fermo, tanto che il mondo gli si trasforma in un’allucinazione visionaria in cui il paradosso e l’assurdo del cosiddetto reale supera il livello sostenibile dalla coscienza per sprofondare in un altrove da cui tornare con contenuti profetici. Dai suoi scritti possiamo porre l’autore tra coloro che nella grande fiera del mondo eliminano tutti gli abbellimenti, i festoni, gli orpelli, i decori, per guardare alla sostanza, all’ossatura che sostiene il grande baraccone del sociale, cercando le leve autentiche degli accadimenti, risalendo i fili fino alle mani dei burattinai malinconici che, credendosi le divinità del nuovo mondo, sono in realtà solo poveri illusi, incapaci di godere perfino delle modeste gioie concesse ai miseri da loro oppressi. Così il poeta-pittore ingaggia con la cultura ufficiale un duello per liberare la visione delle cose da tutti quei feticci che l’uomo sistema sugli altari del divino, sui troni del potere, nelle nicchie delle accademie, tra i fastigi delle autorità indiscusse, acquistando, attraverso la parola, la coscienza della dimensione effettiva della realtà umana, non come la si celebra dalle rassicuranti ed ipocrite cattedre, ma come è in pratica, come è stata e forse sarà. Per non allontanarci dalla pittura guardiamo cosa appare su queste tele, meglio ancora sui supporti estemporanei ai quali l’artista affida le sue immagini. È inutile dire che i colori non vengono dal cielo, dal paesaggio, dal mondo reale, ma quantomeno da quello psichico, o meglio dall’Erebo della mente e sono come un diaframma attraverso il quale lo spirito umano vede la realtà nel fitto della tenebra in cui balena il sogno di un mondo perduto. Gli uomini, privi delle loro vesti, sono ombre che si aggirano fuori da abitazioni e palazzi deserti, in una dimensione che si potrebbe dire un purgatorio dechirichiano delle tenebre: spazi tagliati da lame livide di luce quasi fossero parodie di luoghi espressionistici. La visione avviene come tra due specchi affrontati che si guardano, intersecando le loro deformazioni: da una parte la parodia, l’ironia, la caricatura che pervadono tutta la scena, dall’altra l’ombra proiettata dalla coscienza, che è desolazione, e dallo smarrimento dell’uomo contemporaneo che ha tutto, ha conquistato tutto, potere e grandi possibilità, ricchezze senza sapere su quale ara immolarle, a quale dio votarle, con chi poterle godere. In un’immagine, un umanoide si guarda nello specchio e non si sa quale sia la caricatura: se quel giovane aitante e ben vestito che è riflesso, oppure il gentiluomo con la testa di scarabeo che si guarda. Si compiace? Vede se stesso veramente o un suo antenato? Forse non vede niente. Una donna in un’aura luminosa giace a terra ostentando la sua sfolgorante nudità davanti a un palazzo luminoso e una di quelle figure misteriose dagli occhi sbarrati di rapace: tutto in una tenebra completa che non consente relazioni fra i tre elementi vitali: l’uomo s’allontana guardando altrove (chi sa dove) ignorando i punti fondamentali che fino ad oggi sono stati i luoghi della vita: la casa e la donna. Altrove, magnifica figura gloriosa d’un passato lontano, posa una coppia umana avendo alle spalle una montagna eccelsa, sulle pendici della quale posa una città antica, aprendo la via a diverse interpretazioni: da Enea e Creusa, Elena e Paride, ad Adamo ed Eva e altre infinite coppie che il destino allontana violentemente dalla città della vita, da un luogo amato, sognato e perduto. A volte schiere di uomini e donne escono dal nulla con abiti a festa che richiamano le coorti angeliche dell’antico Paradiso, intorno a un simbolo, quale il grande Albero della Vita; ma gli abiti, i cappelli, il rosso dominante richiamano più le processioni dei defunti o i cortei penitenziali. Lo spazio di queste contraffazioni del Paradiso è quello di ambienti classici in abbandono, sale grandiose, scaloni sontuosi, loggiati, rovine, corridoi enormi con i quali le figure degli abitanti non hanno relazione: esibiscono i loro corpi spesso discinti, nudi, su cui sta un volto di animale, emblema di quanto portano nascosto nell’animo. Spesso si tratta di teste di scarabei, cervi volanti, scarafaggi, umanoidi come se la metamorfosi kafkiana si fosse moltiplicata e il pensiero va a una mostruosa enfatizzazione della maschera in un generale e parossistico carnevale. In queste rappresentazioni il tragico e il comico sono presenti, ma non si distinguono, come nella nostra realtà. Nel racconto La metamorfosi il protagonista Samsa, se fosse stato un italiano, avrebbe potuto anche sorridere ritrovandosi in una forma di scarafaggio, pensando magari a un sogno, a una traveggola, a uno scherzo pesante; ma da lì al tragico non c’è che un passo. Stefano Lanuzza ha riallacciato in una sola testa questi due serpenti, che forse nel mondo greco non erano contrapposti, volendosi che alla fine d’un ciclo tragico di recitasse un dramma satiresco. Viene naturale rifarsi al passato e a chiedersi dove abbiamo visto qualcosa di simile; e questo, invece di fare dell’artista uno stravagante e suggestivo pittore di visioni psichedeliche, lo inserisce a pieno titolo in un filone della pittura tutt’altro che secondario. Una grandiosa generale metamorfosi psichica del mondo umano si è già ammirata nelle tele di Bosch e poi anche di Brueghel dove un realismo spietato rappresentava la condizione di abbrutimento e di insignificante bestialità nella quale si riduceva l’uomo con il peccato. Nessuno mai ha dubitato che quelle visioni, a tutta prima assurde, divengano assolutamente realistiche e plausibili allorché si sostituisca al corpo materiale, lo spirito diabolico asservito alle cieche passioni, trasformando l’uomo in un mostro in cui non si accende neppure una scintilla d’umanità. Erano tempi di misfatti, di assedi, di roghi, di razzie, di peste, di torture, sopraffazioni, invasioni, saccheggi, violenze, alle quali si univa il tradimento di religiosi simoniaci, avari, lussuriosi, violenti, sacrileghi. Il bisogno d’illudersi, di consolarsi nel progresso, insieme al perbenismo e all’amore del quieto vivere hanno archiviato quella straordinaria denuncia in pezzi da museo, a cose accadute tanti anni fa che non hanno più niente a che fare con il nostro tempo, ma basta accendere un televisore per constatare che non è vero. La differenza è che oggi le stesse cose sono edulcorate, ovattate, travisate, nascoste, minimizzate, giustificate da sapienti quanto rozzi manipolatori del sapere e dell’informazione, da sublimi artefici dell’addormentamento e della sedazione, al punto che oggi la malvagità, la violenza, l’egoismo, la brutalità non si chiamano più peccato, ma hanno nomi più fantasiosi, poetici, suggestivi. Per ricordare la continuità di questa corrente possiamo pensare a Callot (1593-1635) e ai grotteschi, all’anamorfosi, alle caricature dei carnevali secenteschi e settecenteschi, alle maschere della Commedia dell’arte. La nostra cultura è talmente abituata a sottovalutare ciò che è ilare, fa sorridere, vede il mondo dalla parte del riso, che considera la dimensione dell’ironia, dell’umorismo come un ordine inferiore rispetto al serio e anche al serioso Non importa rifarsi a Esopo, al Roman de Renard, a La Fontaine, al Casti degli Animali parlanti per tracciare questa linea di continuità il cui filo è stato ripreso dall’autore. Questa linea è quasi tutta ilare, festosa, ironica, ma ha solo una grande tema: il comportamento umano, la cui malvagità e la cui tenebrosa forza animatrice viene quasi coperta, velata, addolcita dall’umorismo e dalla celia, ma rimane comunque un argomento terribile ed atroce. Non occorre rifarsi alla Metamorfosi per trovare un celebre esemplare di questo innesto della testa della bestia sul corpo dell’uomo, basta rifarsi al suo capostipite più illustre per scoprire la scaturigine tragica di questo strano mascheramento: il Minotauro col suo mito e il suo destino e i suoi colleghi ippogrifi, chimere, meduse, centauri. Scendendo per li rami si arriva a Grandville, disegnatore e litografo (1803-1847) in cui si trova l’elemento usato dall’autore: l’innesto di una testa d’animale su un tronco umano, spesso perfettamente, se non elegantemente, vestito. L’artista divertì e satireggiò la società futile e compiaciuta che seguì l’impero napoleonico, morendo alla vigilia di un’altra grande mascherata sociale quale fu il Secondo Impero di Napoleone III. A molti sfugge come le figurazioni di Grandville, che ai contemporanei apparvero divertenti e paradossali, oggi risultino più inquietanti e minacciose come clonazioni, ibridi, incroci che stanno diventando cosa comune. Credo che questo mascheramento mostruoso sia una risorsa dell’artista quando, non riuscendo a leggere l’uomo divenuto sfuggente anche a se stesso, lo inchioda a un muso inequivocabile. È la società polimorfa, inafferrabile, metamorfica, in cui niente è fermo e niente è vero, nel senso che niente è mai uguale a se stesso e nessuno porta dentro un’immagine di sé, una voce confusa che gli dica almeno chi possa essere, poiché parla soltanto un meschino interesse. Comunque altri artisti provvidero a continuare questa linea e non abbiamo più dubbi che si tratti di una dimensione tragica e ironica, quando arriviamo a Goya, Grosz, Munch e altri. È questa la realtà che ci restituisce Stefano Lanuzza: la vicenda perenne d’un mondo che gli archetipi mentali sepolti dentro di noi ci dicono che una volta era fulgido e splendido, mentre l’esperienza e i sensi ce lo dicono adesso degradato e disperato. “I miei quadri? Parlano di quanto resta tutt’intorno al paradiso perduto”. Così afferma lo stesso pittore1 che evoca spontaneamente uno dei miti cardine dell’umanità dicendoci che nel suo pensiero e nella sua arte proprio si confronta con i grandi miti, come fa, nel piccolo o nel grande, ogni vero artista. Ma la sua visione sia nel tempo che nello spazio è vertiginosa, come afferma nella stessa intervista: L’amore cantato da Dante è l’amore divino, per il quale avviene che ci sia qualcosa al posto del niente e il caos s’arrenda all’armonia. Questa permette alle creature di riconoscere in se stesse il riflesso dell’immagine di un demiurgo che, per fortuna, ama, più di chi supinamente lo ama, coloro che lo sfidano: i ribelli e i peccatori. È, quella divina, un’immagine solo apparentemente consolatoria: perché nell’amore, che è energia e potenza, ci sono sempre un dolore e una lacerazione impersonati da un Doppio per il quale, pare, lo stesso Creatore ha un debole. Un Doppio che vuole districarsi dall’assoluto divino ed esistere con le proprie contraddizioni. È un demone che crede all’amore solo come rivolta e ribellione: la religione cattolica lo chiama Lucifero e il grande greco Platone lo chiama Eros, un demone di fuoco e luce, fatto di gioia frammista a strazio, acceso d’un cupo bagliore. Dalla sofferenza, facente parte dell’amore, nasce Lucifero e nasce Eros che, come Lucifero, è divino, ma non è un dio. Figlio della ricchezza e della povertà, Eros, contrariamente a quanto suppongono i più, è – afferma Platone – duro e ispido, scalzo e senza casa. Sta a terra senza coperte e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada. Con Lucifero, egli è il mediatore tra la miseria umana e la grandezza divina… Non si sa bene se poi sia questa la mediazione che moverebbe, forse non più di tanto, il sole e le altre stelle. Questo è lo scenario del dramma in cui si muovono le figure dell’artista, questa è l’aria che respirano, la luce e l’oscurità di cui vivono e si alimentano. Una immensa tragedia e una raggiante esultanza del cosmo sono la vera realtà: quella delle stelle come quella umana, disperatamente lontana da un mondo come il nostro che sancisce per legge il diritto di ciascuno alla felicità, senza conoscere cosa sia, senza sapere di cosa parla. Come si vede, forse abbiamo trovato un filo d’Arianna per visitare il Labirinto inscenato da Stefano: è un mondo di specchi nei quali la parola tende all’immagine e l’immagine alla parola. La poesia, il pensiero rimandano alla rappresentazione per essere assorbiti ed inalati, e l’immagine invia alla parola per essere compresa simbolicamente e, per infinite allusioni, posseduta. Sbaglierebbe secondo noi chi vedesse in questa pittura qualcosa come una protesta di qualsiasi genere: la protesta c’è, ma è una sola ed è cosmica, come quella di Leopardi o di Céline, che si raccorda a quella di Giobbe o di Prometeo e, nella sua vastità, comprende anche altre proteste e parziali richieste d’umanità. Il punto di riferimento è il mito e, per fare un esempio, la posizione non è quella di Grandville, vale a dire la denuncia dell’ipocrisia borghese. I mostri di Grandville esibivano la loro maschera nascondendo dentro di loro ciò che erano o credevano d’essere, ma avevano ancora un io, sia pure misero e deforme. Le figure dell’artista uniscono alla paradossale ironia un vuoto interiore di esseri che non sanno più chi sono, forse nemmeno se sono, o se ancora vogliono essere qualcosa oltre il dato della loro desolata fisicità. Abbiamo passato già il limite del cupio dissolvi della Sibilla della Terra desolata di Eliot. 1 Intervista di Aline Cheveux con Stefano Lanuzza nel Catalogo della Personale del pittore al Museo d’Arte moderna Gazoldo degli Ippoliti, Mantova 16 maggio – 6 giugno 1999. Sono figure fuori di qualunque ordine, in un mondo caliginoso nel quale si aprono porte luminose sui nidi della loro antica esistenza ormai sognata, solitaria, esclusi da una città chiusa come un diamante. In questo esilio, accompagnano l’uomo meraviglia e incantesimo e il sole nero di questo Erebo è l’utopia. Risponde Stefano Lanuzza nell’intervista ad Aline Cheveux: Perfetto sito del bene, del bello e del vero è Utopia, città della perfezione labirintica, ma infestata dal Minotauro. In essa continueremo ad agitarci inventando ciò che non vediamo e vedendo quanto non c’è. Si ha bisogno dell’Utopia? Sì, se questa è liberazione dal risaputo conformistico, se è accrescimento della coscienza, invenzione, realtà diversa. La realtà non è che una pagina di scarabocchi senza la percezione di queste dimensioni forti, condensate nei grandi miti, e tutte insieme compongono il generale enigma, la vera abitazione in cui l’uomo vive cercando continuamente di eluderla. Il mondo, se è stato mistero in passato, lo è ancora di più oggi che molti ritengono non lo sia. Molte porte sono state aperte senza che venissero fuori rivelazioni, ma proponendo altri enigmi, incastonati ancora nel mistero, accentuando il disorientamento che talvolta porta alla disperazione del Minotauro, ma anche al sorriso del bambino che, non capendo più un gioco troppo lungo, si volge disorientato al giocoliere con un sorriso disarmante che vuol dire: Stai giocando o mi stai imbrogliando? Una dura domanda ancora senza risposta, che ha una sola consolazione nel fatto che la certezza disumanizza e il dubbio rende umani. Il mondo di Stefano non è la realtà, ossia la scena in cui si vive quotidianamente, ma il luogo più segreto della mente, quello in cui, spente le luci del proscenio, ciascuno si trova nudo e solo nell’universo e pensa, anche soltanto per un attimo a se stesso, alla meraviglia e all’orrore che vibrano nelle proprie fibre.

Carlo Lapucci