Al momento stai visualizzando Un pomeriggio di pioggia

«Poi veniva la brutta stagione. Alla fine dell’autunno, in un solo giorno, cambiava il tempo»
(Festa Mobile, Ernest Hemingway)

Pioveva, pioveva a dirotto e a sorpresa. Era venerdì e per tutto il resto della settimana, seppur fosse febbraio e facesse ancora freddo, il cielo non aveva offerto altre che sole, e di conseguenza caldo, e con esso giornate perfette per passeggiare. Tirava vento, sì, ma si trattava solo di vedere la natura prendere a schiaffi le onde del mare e godersi lo spettacolo della schiuma infrangersi contro gli scogli della scogliera. Per la prima volta, dopo un po’ di tempo Giacomo, aveva superato un esame con successo e – cosa ancora più importante – era uscito dall’aula soddisfatto. Aveva pensato a tante cose, ma tra queste le due più impellenti erano andare a parlare alla fredda pietra e poi guardare il blu salato. Finalmente un giorno di serenità, un giorno che mancava da quando questa estate, zaino in spalla, maglietta sudata e anima più libera, era andato all’avventura.

È una buona occasione per vedere Alice, pensò. L’idea era semplice, andare in moto da lei e poi decidere. Mentre aspettava che lei scendesse, si accorse che il cielo iniziava a diventare sempre più nero: una goccia, due gocce, una lieve pioggerella che impregnava l’aria un odore d’erba bagnata e nulla più.
“Forse pioverà, se vuoi rimandiamo”
“No, no, per me va bene”
E in cuor suo, a dir la verità, Giacomo non voleva affatto rimandare; per una volta il corso degli eventi sembrava seguire la leggerezza del suo cuore, che non diventò pesante, ma volò via. Mentre una sensazione impercettibile scioglieva il petto di Giacomo, la sua moto continuava a tagliare il vento, le sue mani, riparate dal freddo grazie ai guanti, ad alternare gas, freno e cambio. Una volta arrivati, si recarono subito al porticciolo vicino. Giacomo desiderava portare Alice in un posto che lei affermava di conoscere: alla fine lo conosceva davvero. Il luogo in questione era una piccola mulattiera di mare: alla sua sinistra delle barche ormeggiate venivano leggermente smosse dal vento di febbraio, alla sua destra delle case di vecchia data scrutavano l’orizzonte. La stradina portava direttamente all’acqua più cristallina, poi qualche scoglio un gabbiano e nulla più.

“Di solito è bellissimo” disse Giacomo quasi imbarazzato, “oggi invece fa davvero schifo”. Scoppiò a ridere, ma era una risata più isterica che sincera: le nuvole grigie avevano oscurato ormai da un po’ il cielo e portato via il riflesso cristallino dell’acqua; il vento adesso impediva di godersi serenamente la vista. Alice intanto guardava. Indossava un giubbotto di jeans ed una sciarpa lunga, un paio di pantaloni arancioni, che richiamavano i colori del tramonto, lo stesso che i due non erano riusciti a vedere a causa del brutto tempo. Aveva da poco tagliato i capelli e adesso questi a stento le superavano il collo, anche loro sapevano d’estate. “Forse c’è il sole” pensò Giacomo, “forse, però, lo vedo solo io, meglio così”. Strinse i denti amareggiato, pensò d’essere come il mare d’alcune canzoni, che anche se non si sente, è sempre in tempesta.

I due lasciarono quindi quel posto delizioso stranamente vestito di bigio e andarono a bere qualcosa in un bar vicino. Una volta seduti, Giacomo ordinò un Gin Tonic, Alice un Moscow Mule. Di ciò che portarono da mangiare, toccarono poco, non perché di poca qualità, anzi: c’era semplicemente troppo da dire. O almeno così a Giacomo sembrava, ma di lì a poco avrebbe imparato che a volte era meglio tacere, come gli aveva insegnato il nonno.

Alle sue spalle una moltitudine di lampi illuminava il cielo a cavallo tra pomeriggio e sera, il vento frustava le nuvole, come un fantino fa con il proprio cavallo, per farle piovere ancora, ancora e ancora. Poi una goccia, un tonfo sordo, poi un’altra, dal rumore più chiaro, e poi un’altra ancora, finché da una divennero cento e da cento mille. Fuori un uomo di mezza età restava immobile sotto la burrasca, con il suo ombrello aspettava qualche automobilista a cui estorcere delle monete in cambio di sedicenti manovre di parcheggio e altre ciarlatanate. E lei parlava e lui l’ascoltava: il prossimo viaggio da fare, la casa in centro, gli esami e tante altre storie. Quella voce riusciva completamente a catturare Giacomo, che intanto assaporava il suo drink e ne coglieva le note di rosmarino e lime.

Come l’acqua che si ritira e poi ritorna, i suoi occhi fissavano prima lei e poi fuori, ora le sue pupille e poi nuovo i lampi; le sue orecchie, prima le sue parole e poi i tuoni. Ad un certo punto Alice si alzò per andare in bagno, Giacomo ne approfittò per pagare il conto.
I due poi si misero a ridere perché – mentre si accingevano ad uscire fuori dal bar – aveva ripreso a piovere con intensità: la pausa di qualche minuto era stata puramente illusoria. Non troppo lontano da loro, c’era un uomo con un ombrello aperto e un altro chiuso, che teneva sottobraccio. I due si scambiarono uno sguardo e risero: “lui due e noi niente”. Mentre aspettavano che la pioggia si calmasse nuovamente, magari una volta per tutte, Giacomo aveva iniziato a straparlare. Parlava di qualsiasi cosa divertente che gli venisse in mente. Non voleva appesantire Alice con chissà quale discorso greve. Intanto il cielo continuava ad essergli avverso, ma lui era più testardo del cielo e – soprattutto – non aveva paura. Quel pomeriggio non c’era acquazzone che potesse permettersi di rovinare tutto. Ed infatti, a forza d’esser vento, divenne lui stesso artefice e carnefice del proprio destino, e non una comune pioggia invernale, com’invece pensava.

Giacomo e Alice poi si spostarono dall’entrata del bar e fecero qualche passo più in là, per potersi riparare sotto ad un balcone. Alle loro spalle tantissimi tappeti esposti aspettavano di essere comprati. Ora faceva freddo. Alice non riusciva a stare ferma, si muoveva tantissimo: prima si appoggiava alla vetrata, poi camminava, poi si girava e poi ancora andava avanti e indietro. E lui, a sua volta, o si poggiava sulla vetrata o faceva qualche passo, ogni tanto prova a mettersi davanti ad Alice, “come se un semplice fiore potesse catturare tutta la luce del sole per sé: fiore egoista o fiore illuso?” pensò. Intanto s’era fatta ora di tornare. Purtroppo, non potevano più aspettare i capricci del cielo.
“Ali, a te sta bene tornare con la pioggia?”
“Io pensavo che tu non volessi” rispose lei.
Così lui, con l’adrenalina in circolo, le diede il suo cappotto, così da non farla infreddolire troppo durante il viaggio di ritorno. Indossarono i caschi e andarono via, tra l’acqua scrosciante e i fari delle auto che passavano sotto la pioggia scrosciante.

Giacomo, nonostante la sicurezza, aveva scelto di tenere una velocità bassa. La strada bagnata era un nemico infido per i mezzi a due ruote. Ogni tanto ai semafori girava leggermente la testa per guardarla. “Perché non hai abbassato la visiera? Sei tutta bagnata”, Alice scoppiò a ridere perché se l’era scordata. Arrivati sotto casa della ragazza, il raziocinio di Giacomo si fece da parte e lasciò d’entrare dalla porta principale l’impulsività. A forza d’essere vento, era diventato tempesta. “Devo dirti una cosa, che tu sai” – sospirò – “che hai capito, io lo so che l’hai capita, non è vero?” Poi si fermò, prese aria e si fece più coraggio di quanto mai se ne fosse fatto in situazioni simili. “Tu mi piaci”. Alice lo guardò. Era stupita o basita? Chi poteva mai dirlo, Giacomo – adesso – era molto confuso, non sapendo come interpretare una reazione tanto muta quanto eloquente.
Lo guardò nel fondo dell’anima, chissà se riuscì a percepire tutto il buio che si portava dentro. I suoni adesso erano lontani. “Ha detto che ci vedremo?” pensò Giacomo. Poi un bacio sulla guancia lo tolse dallo stato confusione in cui improvvisamente s’era ritrovato, infine un sospiro, un altro tuono e poi un rumore di portone che si chiudeva. “Ciao”.

Pioveva, pioveva a dirotto, pioveva ancora. Era venerdì e a Giacomo ormai delle condizioni metereologiche non fregava più nulla. Riaccese la moto e non proferì parola nemmeno con sé stesso. Arrivato a casa, bagnato dalla testa ai piedi, si fece una doccia calda. Uscito dalla doccia, mentre si asciugavo i capelli, il telefono suonò: era un messaggio di Alice. “Sei arrivato sano e salvo?”. Poi un altro: “Comunque, io volevo dirti che prima mi hai colto alla sprovvista e non sono riuscita a dirti quello che penso. Mi piace passare del tempo con te, oggi è stato divertente” e ancora “Però ho bisogno di conoscere meglio persone”.

Giacomo era totalmente disilluso. Per un attimo aveva lasciato la presa ed il mostro che si portava dentro da anni ne aveva approfittato, non se n’era affatto andato, aveva solo ripreso fiato. Ora era tornato più forte di prima. Sapeva che non sarebbe andata a finire bene, in cuor suo né aveva già preso coscienza sotto la pioggia, in quello scambio di sguardi seguito dal silenzio. Lui lo aveva capito, ma ancora non accettato. Nei mesi a venire, Giacomo sarebbe sceso nuovamente nel suo abisso per guardarci dentro e urlare, urlare come un disperato dentro di sé. Non si dava pace, non capiva se e cosa avesse sbagliato. Da tempesta era diventato una semplice brezza, quasi impercettibile. Un giorno, Giacomo, guardandosi allo specchio con quei suoi occhi grossi e neri, non avrebbe visto altro che il suo demone socratico, gli avrebbe detto di essere sceso nell’abisso e di averci lasciato tutto dentro. Ed il mostro gli avrebbe rimproverato di aver mollato la presa, ammonendolo inoltre che nemmeno questo sarebbe stato sufficiente. Ma questo sarebbe successo più in là, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Giacomo avrebbe aspettato nell’abisso il calore del sole ed una mano sconosciuta, che nemmeno pensava essere in grado arrivare fin laggiù.

Intanto, con la pioggia ancora scrosciante, la riproduzione casuale del suo smartphone stava riproducendo “Arrivederci tristezza” di Brunori SAS: Miliardi di stelle ti dicono niente, non dicono forse che il cielo è più grande, più grande di te, arrivederci tristezza, oggi mi godo la mia tenerezza, arrivederci amarezza, oggi mi godo questa dolcezza, e domani chissà”.

Francesco Raguni