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FUOCO AL CIELO, ed. La Nave di Teseo, 2019, è il quarto romanzo della giovane scrittrice catanese e cosmopolita Viola Di Grado.

Ambientata negli anni Novanta a Musljumovo, un remoto villaggio dell’ex URSS ai confini con la Siberia, la vicenda riporta in modo documentato e avveduto le conseguenze fisiche e psicologiche sugli abitanti e sulla natura delle tre catastrofi nucleari che, tra gli anni 50 e 60, interessarono Celiabinsk, “la città segreta” ai margini di quel villaggio, a tal punto di gravità da rendere, sia la città, sia i villaggi circostanti, l’area geografica più radioattiva del pianeta.

Per molto tempo, sino appunto agli anni Novanta, agli abitanti della “città segreta” sarà preclusa ogni possibilità di contatti con l’esterno, in cambio di un’istruzione assicurata, divertimento, supermercati forniti di ogni ben di dio che nel resto del territorio sovietico non esisteva:

Ci voleva un pass per entrare e uno per uscire. Ma non poteva entrare nessuno. Nelle strade alberate sfilavano donne con acconciature cotonate impeccabili e pelle giallastra, malaticcia, spingendo passeggini ergonomici bordati di pizzo, foderati in plastica resistente. Entravano in supermercati ordinati e splendenti come gioiellerie, compravano pomodori simili a rubini e banane giganti, tutta roba che fuori non c’era. Fuori: nel mondo, dove si muore più lentamente, dove si muore di morte naturale come i fiori, ma nella città segreta c’erano teatri e casinò, puttane dalla pelle di marmo, scuole eccelse, guanti in seta, confetture di albicocche. Pg. 55

Era il periodo della Guerra Fredda, della corsa agli armamenti nucleari, e anche l’URSS, come gli USA, non voleva essere da meno.

In questa vicenda di orrore, in cui tutto è contaminato – la natura, il cibo, gli animali, le relazioni umane – , il morbo attraversa in diagonale la cronaca per raggiungere e trafiggere il nodo più intimo della storia d’amore tra Vladimir e Tamara.

Tamara e Valdimir vivono insieme a Musljumovo, negli anni Novanta.

Sono spiriti diversi: Tamara in quel contesto è nata e cresciuta, ha assistito al prima e al dopo, ha visto morire i suoi genitori di intossicazione da plutonio, si è ammorbata anche lei, come gli altri bambini, nelle acque avvelenate del fiume Techa – limpido e maledetto come maledetti e limpidi sanno essere i canti delle sirene -:

Il 15 agosto [1967, data della seconda esplosione nucleare] faceva molto caldo, tutti i bambini uscirono da casa come puledri impazziti e corsero verso il fiume. Si tuffarono. Urlavano e schizzavano e battevano i piedi in preda a una strana esaltazione, come posseduti. I genitori si arresero: di nuovo il male era diventato normalità. Anche Tamara era lì. S’immergeva nel fondo buio e pietroso a occhi spalancati. Emergeva ridendo, agitando le braccia, schermandosi gli occhi brucianti con la mano, piena di quella libertà che si ha da bambini prima che la mente si riempia di muri. Pg. 91.

Tamara è la squilibrata, colei che passa da un rapporto erotico all’altro forse nella speranza di sentirsi viva, oppure perché sa già di essere morta e liberarsi brutalmente di un bambino non desiderato è l’unico modo che conosce per denunciare al mondo la verità storica di cui la sua gente, e lei stessa, sono vittime:

Quella notte voleva solo ballare, fino allo sfinimento. Ballare finché non si sentiva più il cervello. La canzone finì e ne cominciò un’altra, degli anni Ottanta, di una band russa che cantava in inglese pronunciato male. Mentre Tamara agitava le braccia qualcuno le toccò il culo e lei si girò divertita, esaltata, poi richiuse il sorriso e uscì di corsa dal locale, andò sul retro e prese da terra una sbarra di acciaio. Si chiese quale fosse la posizione adatta. Quella giusta per liberarsi del bambino. Una volta per tutte, senza troppo dolore. Pg. 65.

Se Tamara risulta sin dalle prime pagine l’elemento psicotico, da sedare con ricoveri coatti e pillole che aiutano a elargire sorrisi di circostanza, Vladimir sostiene il ruolo dell’equilibrato, è l’infermiere arrivato dopo, quando tutto già era avvenuto e celato da un seppur evanescente velo di Maya e per questo non comprende la condotta autolesionistica di Tamara:

Come faceva Vladimir a non capire? Quello non era un posto per fare figli. Ma a lui non importava. Lui lo voleva e basta, come si vuole una macchina nuova. Lui non aveva visto i suoi genitori ammalarsi e morire. Per lui la morte era ancora una cosa che vedeva sul lavoro, una cosa degli altri. Pg. 60.

Il non detto, l’indifferenza illogica, lo scorrere comunque delle cose fintamente perfette come perfette mele rosse e ambigue di certi racconti d’infanzia pervadono tutto il romanzo.

Potente è l’accostamento ossimorico del bello e del brutto nelle espressioni “La sua bellezza gli dà un vantaggio sulla morte”;  “[…] una luce fulgida e violenta, la luce delle cose perdute”; La donna la guardava e sorrideva, ma era l’espressione naturale del suo viso, non c’entrava nulla con lo stare bene”; “Iskra sorride, un sorriso furbo, da venditrice televisiva”.

E’ tutta la narrazione ad essere intessuta di severe antitesi tra ciò che pare essere e ciò che esiste davvero, tra uno stile di vita ineccepibile e il rancido che serpeggia dentro di essa.  Dall’accostamento stridente del bello e del brutto emerge un significato terzo: è la verità, spogliata delle ipocrisie perbeniste di certe condotte storiche e monografiche.

Nel romanzo tutti fingono di non sapere. Anche l’operato degli ospedali descritto in FUOCO AL CIELO è anomalo: non è quello di curare, bensì di sedare spiriti di ribellione ed evitare proteste anti-statali:

Ogni tre settimane un autobus bianco e rosso li portava al sanatorio di Celiabinsk. Si mettevano in fila con i loro cappotti vecchi e a turno respiravano in un imbuto. I dottori erano impassibili e silenziosi. Misuravano, tastavano, parlavano poco e a voce bassa. Cercavano pielonefrite cronica e osteoartrosi, giunture anchilosate, colonna vertebrale anchilosata, necrosi alla bocca e alle mucose dell’ano. Cercavano e fingevano di non trovare. Consegnavano sorrisi al posto di diagnosi, rivestivano i piccoli corpi gracili senza dire nulla. Pg.61.

Solo Tamara, esprimendosi con la sua lucida follia, con il suo operato imbarazzante e scomodo per i benpensanti, sa denunciare:

Siamo tutti intrappolati. Il mio bambino è intrappolato, non capisci, è intrappolato nella mia pancia e a poco a poco diventa un mostro. Io non posso lasciare che diventi un mostro, non lo capisci? Perché nessuno lo capisce? Pg. 67.

Tuttavia, sebbene la cronaca permei il romanzo nella sua interezza e sveli, attraverso le azioni e il sentire dei due protagonisti, orrori e misfatti di certa storia sovietica del secondo dopoguerra, con FUOCO AL CIELO non ci troviamo di fronte a una semplice riduzione storico-cartografica: il territorio infettato dalle radiazioni al plutonio si fa spazio antropologico, terreno cognitivo attraverso il quale emerge la dimensione prettamente umana, delineata da un rapporto d’amore sempre inscindibile dal suo elemento opposto e pure complementare: l’orrore.

Ecco che il territorio geografico che ha plasmato la personalità di Tamara e la sua modalità di approcciarsi al mondo si fa altro, diventa funzionale alla comprensione dell’essere umano: in ogni relazione le scorie dell’infanzia, i reperti dell’irrisolto riaffiorano come pesci morti e si fanno inevitabile materiale distruttivo-costruttivo di una relazione.

Seppure il romanzo verta su un dato storico puntuale e consegni dignità ad un popolo sfibrato dalle logiche di potere di un governo accecato dal totalitarismo politico, a fine lettura resta la vigorosa impressione di aver assistito allo sviluppo di una storia d’amore-orrore, in cui i ruoli di vittima/carnefice si sono magistralmente alternati generando un amore specchio ustorio, anch’esso contaminato, riflettente debolezze e desideri dell’animo umano.

Il non dare importanza alla vera natura di quell’essere orripilante ritrovato da Tamara nel fitto di una vegetazione – un feto malato? un animale? – e il limitarsi ad accoglierlo, seppur con dedizione materna alquanto allucinata, è un manifesto all’amore incondizionato e non classificabile, che non assomiglia alle cose del mondo, che chiede solo accettazione.

L’iniziale squilibrio della protagonista – la lucida follia ossimorica di cui sopra – si rivela essere consapevolezza di ciò che manca sia nel mondo esterno – l’ammissione di colpa dei regimi autocratici – sia all’interno dell’animo – lo spazio per amare.

Storicamente, l’agire di Tamara, quell’agire controcorrente, scomodo, non femminile, è espressione di accusa al perbenismo tipico dei regimi totalitaristici;

universalmente, il suo è un grido di dolore che apre un varco nell’impotenza dell’essere umano di fronte allo smarrimento, all’orrore, dichiarando di sapere ancora amare.

Il trionfo finale è della pietà nei confronti delle vittime di una deliberata sordità – storica e universale -, e delle loro reiterate richieste di ascolto.

Maria Bucolo