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La vita è un dito. Tutte le poesie di Daria Menicanti
a cura di Matteo Mario Vecchio (Giuliano Ladolfi editore)

 

La figura di Giuliano Ladolfi non è nuova agli addetti ai lavori e appassionati di poesia attenti. La sua rivista Atelier è un riferimento di prim’ordine per chi volesse documentarsi sui fermenti letterari e sulle voci poetiche di certo spessore. Recentissima invece è la sua nuova creatura, una casa editrice: la Giuliano Ladolfi editore appunto. Quest’ultima vanta molti dei validi collaboratori della rivista e ha il merito di selezionare poeti con una voce propria e matura, frutto di una selezione scrupolosissima. Tra le operazioni editoriali che potremmo definire caso se non si sonnecchiasse troppo nei riguardi del passato e fossimo meno preda di amnesia, certamente non può eludersi la prima pubblicazione dell’opera omnia della poetessa Daria Menicanti. Scomparsa nel 1995, la Menicanti è una delle autrici scippate all’oblio dallo studioso Matteo M. Vecchio, sensibile e rigorosissimo interprete di poesia, che ha già dato notevoli contributi alla chiarezza ermeneutica sul lavoro lirico di Antonia Pozzi, quest’ultima gravata da una biografia scomoda. Daria Menicanti, ultima di quattro figli, nasce a Piacenza il 6 aprile 1914. La sua esperienza formativa e intellettuale deve molto all’influsso di amici e/o colleghi come Luciano Anceschi, Vittorio Sereni (che le ha fatto da tramite per le pubblicazioni mondadoriane mantenendo il rigore e la severità di critico e responsabile di collana benché amico), Enzo Paci, Lalla Romano più tardi, il compagno filosofo Giulio Prete, presente in molti versi, ironici e affettuosi insieme. Si laurea in Estetica con una tesi su John Keats: “La poetica e la poesia”, relatori Antonio Banfi e Mario Hazon, e negli anni non perderà l’interesse per le letterature straniere traducendo testi come La campana di vetro di Sylvia Plath, poesie di Dylan Thomas, dello stesso John Keats o un testo di John Henry Muirhead, Filosofi inglesi contemporanei (Bompiani, 1939). Questo per dare un’idea della sua preparazione e ricerca culturale, affiancate all’attività di docente presso la scuola media inferiore, tutte esperienze che riporta nella sua produzione poetica. La poesia della Menicanti è fortemente connotata biograficamente, anche quando l’ironia lieve, inglese, affiora e prende le distanze dalla sua persona (Matteo Mario Vecchio non per niente ha parlato di “commedia umana”). Una leggerezza che non manca di offrire sferzate brutali sulle condizioni sociali, umane, come nella poesia  Terza media: La mia scolara della terza G / che arriva sempre tardi è perché / si fa un netturbino ogni mattina. / Con quel diecimila lei si compera / mutandine di pizzi sigarette / profumi sgarbati, ma nei bar / chiede una cioccolata, unico cielo / d’infanzia. Questo episodio diremmo di “prostituzione” precoce, è raccontato con una apparente freddezza, possibile soltanto a chi possiede assoluta empatia, e la Menicanti non perde mai il dono della pietà del poeta, che in questi versi riscatta dallo squallore la ragazzina mendicante forse d’amore, redentasi nella cioccolata, “unico cielo d’infanzia”. Sempre Matteo M. Vecchio scrive: “La parola è, per la Menicanti, essenzialmente strumento d’indagine che traduce le articolazioni del pensiero; parola dunque quale strumento di resa testimoniale dell’indagine condotta dall’io, che porta con sé e su di sé le curvature e le parzialità che gli appartengono”. In una delle raccolte più riuscite, Ferragosto (Acireale, Lunarionuovo, 1986) è contenuto una sorta di manifesto estetico sul linguaggio, la poesia La parola: Ogni parola a sé / è grido conforto pianto o forse / soltanto suono e nonsenso. / Ma non è che da sola sussista / a lungo: ciascuno a mano a mano / allinea infinite parole / in veloci drappelli e vittorie / e amorose contese e fughe e confessioni / e guadi: le parole sono  fatti – credimi – sono la cosa.[…].  Come vediamo, l’elemento astratto qui, si sposa a una concettualizzazione molto concreta riferita alla gamma di percezioni possibili del reale. Ferragosto è disseminato di luci e allucinazioni, calurie estive che rischiarano nuove zone d’ombra, e ameni luoghi domestici: “D’estate è meglio. La casa è languida / di lunghi veli freschi, di verdi  / tranquilli. A casa si resta con agio”.  La sua è davvero la poesia, baudelairianamente,  per un passante, occhio fisso all’alterità umana, vegetale, animale: “Come Sandro Penna, Daria Menicanti ha il suo taccuino e va per le strade a cogliere la realtà, ratificandone la traccia, a vagliare l’esistente” (M.Vecchio).
Nell’esaustivo studio del curatore si è parlato di disillusione, iperrealismo pop, ironia classica e consapevolezza da Ecclesiaste, tutti elementi messi a fuoco con particolare incisività da una poetessa che ha attraversato le due metà del Novecento con una sete di vita e letture (come dimostra la testimonianza della cara amica Lalla Romano), presente e appartata, nella solitudine affollata dei poeti, “Io non ignoro / quanto amino la libertà i poeti” scrive in La festa del grillo (da Altri amici, Forlì, Forum / Quinta Generazione, 1986).  Con  una attitudine cerebrale che bilancia il lato emotivo (in certo lessico essenziale e risvolto simbolico che parte dal particolare potremmo accostarla a Cattafi) profondamente compassionevole, anche fortemente nostalgico come nella poesia dedicata alla madre: “raggiava come un sole disegnato / la domenica eterna dell’infanzia. / Quando morì prese con sé le stesse / radici di quel mondo mai maturo. /  Da allora sono diventata adulta. / Vecchia, via.  Non temiamo le parole”. L’ironia qui è il colpo d’ala per portare l’autrice lontana dal rischio di paludamento patetico e sterilità nel confronto con l’ineluttabile. Diventata “vecchia” sul serio, in una poesia che potrebbe essere un testamento esistenziale, ha scritto: Non mi occorre più nulla. Davvero. / Non mi occorre il tuo libro odoroso / la tua telefonata. La cosa / avvvizzita scantona tra i ricordi. / Il tempo ha fatto questo per me, e, mio caro, che pace (Non mi occorre più nulla da Ultimo Quarto – Poesie 1985-1989, Milano, Scheiwiller 1990). A noi invece occorrerà ancora, e a lungo, la voce sapiente, lo sguardo ironico e la sua poesia piena di dediche, continuo omaggio devoto alla vita.