Piove da giorni e spira un vento tagliente, si teme per i festeggiamenti, la festa di Alessandria della Rocca che chiude la stagione calda. Si preannuncia un pellegrinaggio uggioso, invece, inaspettatamente, il sole rischiara il cielo. Non sono credente, ma la tradizione ha una sua forza. Decido di andare. Mia madre non è convinta del mio abbigliamento, mi consiglia di mettere l’abito buono, quello lungo a fiori, l’unico che ho messo in valigia. Solo qualche tratto in salita, però lo stesso opto per le scarpe da ginnastica. La processione parte dalla chiesa madre. I fedeli si preparano al viaggio, due file ordinate accompagnano la banda. Ci sono anch’io, avanzo lentamente. Intanto una ragazza si sbraccia dal balcone, indovino il rumore dei braccialetti che tintinnano sul suo polso; chiama qualcuno, le leggo il labiale: verrà, più tardi – dice –, assieme ai figli. Mi fa uno strano effetto trovarmi qui, è come se fossi catapultata in uno di quei sogni di me stessa bimba. Saliamo per via Giordano, fino alla cappelletta, il prete recita uno dei misteri gaudiosi, così mi pare di capire: «Madre Misericordiosa, Rosa Mistica, Fonte di gioia, Tempio dello spirito santo». Man mano che procediamo, le case si diradano, sparute villette, sullo sfondo il monte Culma, o Curma forse – non saprei –, e poi il ponte in rovina e un cavallo che galoppa a briglie sciolte. Mentre rincorro con lo sguardo il volo dei rondoni, respiro l’odore dell’erba di campo. S’intravede già il santuario, immerso tra pini e cipressi. Punto verso la rocca e immagino il lucido marmo miracoloso, storie di nobili e pastorelle. Sono una pellegrina distratta, ogni tanto mi fermo, strappo sfilacce di paglia e le arrotolo al dito. Al di sotto della scarpata un contadino curvo sulla terra molle raccoglie verdure ed estirpa erbacce. Mi accorgo del cane randagio dal pelo bianco e gli occhi cisposi che percorre sonnacchioso il sentiero costeggiato da agavi e arbusti in direzione della spianata. Affretto il passo e senza neanche rendermene conto arrivo. Ora la pietra squadrata, viva del romitorio domina la valle digradante, giù, in basso. Ogni cosa è come la ricordo, la facciata severa, la pallida statua, il convento adiacente, il parchetto e la tomba gentilizia. Imbocco la scalinata che conduce alla chiesa e mi segno la fronte. Sarà che c’è troppa gente oppure che ho la gola secca, ma indugio sul portale d’ingresso, in contemplazione del rosone iridescente. All’improvviso qualcosa mi attira, forse il verso del gufo, oppure il rosso che tinge un poco l’orizzonte. Torno indietro, m’inoltro nella trazzera isolata, gironzolo senza meta, infine alzo un poco la testa e in lontananza, tra cielo e terra, scorgo la linea del mare, netta. Ancora cammino e prego, da sola, fin quando scopro la fonte. È giusto uno zampillo, eppure non ho dubbi, non posso sbagliarmi. Dicono che curi gli infermi, colmi solitudini ataviche, lenisca sofferenze di spirito e corpo: davvero i miracoli sono sempre concessi, almeno a chi sa vederli. Bevo e una sensazione di pace mi pervade. Cerco di conservare ogni dettaglio del magico scorcio prima di tornare allo spiazzo. I fedeli adesso trasportano a spalla il piccolo simulacro coperto da un manto azzurro. Sono presa da una dolce mollezza, mi siedo sulla panchina accanto alla giovane donna che, protetta da un panno, allatta il figlio. Fermo su di lei lo sguardo e mi sembra di penetrare il mistero della divinità femminile, di coglierne finalmente il senso profondo.
Giuseppina Sciortino