Il proverbio citato dalla scrittrice Laura Rizzo in una introduzione ad un incontro con Michele Pantaleone colpisce per l’efficacia e la ferocia dell’immagine scelta: chi “canta”, rivela, parla, viene bollato come pazzo e come tale emarginato dalla comunità divenendo innocuo, screditato; “campando” quindi, vivendo, perché dalla sua eliminazione fisica non si trarrebbe più giovamento, avendone già ottenuto la morte morale. Chi crederebbe ad un pazzo? Chi si accompagnerebbe ad un pazzo?
Vittima di una sorta di damnatio memoriae, Pantaleone ha avuto il coraggio di “cantare”, di mettersi di traverso lì dove i poteri forti si stratificavano formando una coltre spessa di corruzione, mafia, nepotismo e malaffare: “La mafia è la convinzione, anzi la certezza, di non dover rendere conto alla giustizia. Ha come obiettivo l’accumulazione della ricchezza e ha come mezzo il delitto. Agisce con una relativa garanzia di incolumità, grazie alla generale omertà. Tutto questo differenzia la mafia da qualsiasi altro fenomeno di violenza, di sopraffazione e di criminalità, in qualsiasi altra parte del mondo” così afferma Pantaleone in occasione di una tavola rotonda svoltasi nel 1970 promossa dal settimanale L’Europeo. Una definizione chiarificatrice, degna di un vocabolario tecnico, così vera e contemporanea; una goccia nel mare delle affermazioni, intuizioni e azioni di questo illustre siciliano, che tanto ha “cantato” e che in tanti avrebbero definito “pazzo”, ma che per fortuna ora vive nella memoria di chi quelle affermazioni vorrebbe urlarle anche oggi, nonostante la coltre spessa del malaffare non accenna ad affievolirsi.