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Il Rio

Quante volte vagando sul selciato
leggermente sconnesso dal suo lento
affondare di spettro e monumento,
come tutto intorno mi son lascïato
scivolare nel silenzio. Spirato
sul campo dentro un allungamento
di penombre sui lastrici d’argento.
Mentre notturno sotto al porticato
de la Panàda si desta un lampione
e tremola come una rada stella
sul rio. Ma il mio riflesso non scompone
le sue anse di mite sentinella;
il suo infiltrarsi come un’erosione
lo porta anzi con sé, sua inerme ancella.

 

Festa del Redentore

Il lungo ponte di legno legato
è al molo della Giudecca; dattorno
il dondolìo delle barche, adorno
di luminìo come un paese portato
sull’ampio bacino; lanterne al fiato
del vento scosse dentro un frastorno
di motori e berciare. Alacre giorno
di festa, grazia d’arcano passato!
Nei trepestii di calca incessanti
sùbito tutto si placa. Un rimbombo
di scoppi inalbera fuochi sgargianti:
restano nella notte color piombo
fronde d’oro e barbagli; quegli istanti
poi un colpo sperde, su ali di colombo.

 

Danze in campo San Giacomo all’Orio

Come rasenta l’ombra dai portoni
il campo spopolato ed i colombi
che dagli scrimoli urgono i rioni
alla pace, erme vive sopra rombi
e lesene annerite; visioni
fugacemente immerse come piombi
nella sera. Rumori sui balconi
dalle stanze ormai sfumano in rimbombi
di campane. È l’ora dunque di credere
alla felicità attesa nel rango
di sentimenti velati dall’edere?
Ma forse all’incanto – in cui piango
incolume del passato, chiedere
potrò, un pegno ai quei passi di tango…

 

Venezia e la laguna

Palpitante laguna
come un cielo dilaghi sui flabelli
d’alghe; fra cime di canneti illesi
la tua ansia smuove burchielli
su onde di rame sfilati, sorpresi
vacillare nel soffio che raduna
le strie d’azzurro sugli inestesi
riflessi di marina… Già divaga
assiduo il chiurlo, mentre sono voli
ai nidi in mezzo a broli
fluttuanti nel tramestìo, alla presaga
specchïera ancora.
E l’incrina appena come una piaga
di lume disegnata nella gora,
sulla pietra che esausta s’incolora.

S’estua ora lo smeraldo
degli isolotti e l’erba; s’inargenta
di quiete e chiarìa dall’intatta
luna, ed è un’aria spenta
nel trasecolìo di brezze in cui sfatta
s’inarca l’ala di gabbiano; araldo
della luce che adagio da una fratta
di nuvoli, spiovuta e impercepita
si stende sulle case e ne indovina
dei giorni la rovina,
l’antichità di corti e rii sopita
nell’ombra d’un portale:
ricovero nei suoni dell’avita
mercatura, di peste e carnevale,
di voci sopra ai muri ed il canale.

Tra i vissuti cortili,
fra le tue chiese, esatta figura
dell’assenza, invisibile riappari;
dispersa in un’impura
vampa di vetro: nei palazzi avari
un’esistenza sommersa sotto i fili
d’oro, fra i laterizi rossi ai Frari,
nell’oblio che il pudico gelsomino
a macchie fra le calli torte aduggia.
Poi sfuggi entro l’uggia
della sera fra le rughe e il caolino
per inverarle in volto
del borgo dismagato sul gradino
delle maree, ove occulto nel più folto
fra gli argini il mistero sta ricolto.

Così dai velari diurni
l’ambra del cielo alle tue guglie goccia;
dall’avorio dei profili nei trafori
che sulle lastre incoccia,
grondando in archi flessi dai colori.
Lì simmetrie osi del vuoto, notturni
i pleniluni in cui eterna muori.
Non è dunque egualmente su febbrili
stipi l’immagine che tanto turba
i campi in cui s’inurba?
E un frullo di colombi sui monili
di vetro levigati…
Ma i frontespizi in cerchio dai pontili,
accosto ai pozzi quasi affastellati,
non si tengono all’anima piegati?

Su un infinito fondo
s’apre la ghiera al cuore del selciato;
sgomentano le case vestimenti
di beltà sul loggiato
più irreali dei tuoi basamenti
d’acque (del riverbero tremebondo
sugli imbruniti flutti); lineamenti
che il mulinello delle chiglie, il remo
di gondola sciaborda sui portali.
Ma per noi invece i pali
tappezzati d’alba come il racemo
dei capitelli sanno
che da una forcola scolpita avremo
solamente la forma sopra il panno:
né promessa, né pace o disinganno.

E all’inganno del nulla
nella sera neppure la pietà
dei ponti, già inarcati fra acqua e cielo,
sotto il peso che qua
diviene impronunciabile ed anelo,
potrebbe sull’onda che si trastulla
dal crepuscolo togliere quel velo;
con le sue pietre suonarne un accordo
sull’arpa della fede. Ora soltanto
la laguna dal manto
vendicante, tra sfolgorii sul bordo
delle darsene riama…
Da sempre con un tremito in un sordo
ronzìo di vita, allucciolìo e brama
sopra il salmastro gioco che l’intrama.

È un bïocco forse
di chiaro evanescente, un filamento
nel tessuto delle nubi, il gemello
del nostro sentimento
che insegue come il topo il luminello,
scosso un poco alle brìccole percorse
da un tentennìo ai fondali di Castello.
Qua richiama il profondo d’una voce
la tua vaghezza d’essere entro sguardi
dei sensi che traguardi;
qua, dove il lastrico è più umile e precoce
sento il vento infiorare
d’astri, fra le barche immote, la foce
d’arsenale. E dell’aria note chiare
l’anima fra i giardini ridestare.

 

Roberto Valentini

Nato a Milano, dal 1999 lavora come insegnante nella scuola secondaria superiore e sopra(v)vive a Bernate Ticino, al confine occiduo della provincia milanese. Laureatosi in filosofia all’Università degli Studi di Milano, ha collaborato con la cattedra di Storia della filosofia contemporanea quale redattore della rivista “Magazzino di filosofia” diretta dal Prof. A. Marini; attualmente, oltre a proseguire tale attività, è fra i curatori del relativo sito web di filosofia contemporanea www.filosofiacontemporanea.it. In questi anni vi ha pubblicato, fra gli altri interventi, saggi sull’insegnamento della filosofia, sul cinema di Kubrick e, di recente, una interpretazione letteraria di alcune tematiche della riflessione di Maurice Blanchot. Ha presentato un proprio contributo nell’opera collettiva Vita, concettualizzazione, libertà (Mimesis, Milano, 2008). Si è interessato in modo particolare della filosofia francese post-strutturalista, della Nietzsche-renaissance e del pensiero di autori quali Derrida, Deleuze, Blanchot, Bataille, Klossowski; coltiva da sempre l’impaziente passione della letteratura preservando epistole, esercizi di stile, prose rapsodiche e innocenti endecasillabi – né pretenziosi né insinceri – dalla (nella) loro lieve agonia dentro un cassetto.