PESSIMISTI E PECCATO / OTTIMISTI E CONFESSIONE 

Collegare sempre quel che accade a quanto può accadere giova a blindare contro il peggio caro ai pessimisti, come può addolcire l’urto emotivo d’una grande-improvvisa gioia piovuta a un ottimista. La sorpresa, si potrebbe aggiungere, è quello che viene negato a quanti vedono nero.
Chi vede sempre buio sembra sia fuori strada. Infatti la notte porta il buio graduandone l’intensità. C’è un momento culmine per il buio, il picco oltre cui la gradualità riparte con segno opposto al primo. Nicolò Tommaseo ha fissato quest’ultimo teorema in una suggestiva immagine: “il punto più basso della ruota lo abbiamo varcato, adesso si comincia a risalire…”
Una scorta di speranza, contro cui si erge la glabra parete disegnata dagli ingegneri che prospettano gli aspetti proteiformi del male, colorando con pece bollente sulla saggia didascalia che ci fa rammemorare del peggio senza confini.
Ma ecco, alla fatalità di tanto bipolarismo, come sia giunto il rimedio con la invenzione del peccato. Una trovata talmente geniale da poter essere paragonata a quell’armonia pitagorica di cui sarebbe permeata l’atmosfera del mondo; una melodia (o dissonanza) cui i nostri sensi sono talmente abituati da sempre, al punto da non più percepirla nella sua dolcezza e nel suo stridore.
Il richiamo allo stridore ci tenta. Si fa invito a interrompere il filo del discorso per dare un minimo resoconto sugli spartiti di Stravinskij. Ma noi non vogliamo interrompere il discorso sulla invenzione del peccato, perché di questo dobbiamo elogiare i valori altamente oppressivi. Valori che procedono in tandem, divisi per colpire uniti: La dicotomia peccato/confessione. Il primo come intossicazione, la seconda come cura.
Da questo concetto si potrebbe partire lungo il sentiero della selva oscura e fino alla apparente banalità di quel rompicapo (quando si dice l’ossimoro!) che i Padri della Chiesa di Roma si ostinano a mantenere integro nella recita del Pater noster, precisamente in quella locuzione che insinua la presenza di un sadico potere/volere divino, quello dello indurre in tentazioni (il plurale è nostro). Un argomento su cui si sono accaniti pessimisti e ottimisti (qui ci si limita a ricordare Papini) con l’esito di lasciare campo aperto ai sarcasmi dei volteriani.

IL VERSO E L’ES

La civetteria dell’autocitazione o la semplice tentazione di eprimerla, la voglia rimasta implosa proprio nel profondo, nell’Es. Fino alla prima occasione per esternare, a costo di velare la parte meno nobile dell’intuizione, reprimerla. È la proposta che ho rivolto a un gruppo di venti autori di versi, tutti siciliani, di diverse età e estrazione culturale. Il quesito è stato: “Il verso come luogo Es-atto o in Es-atto / momento Es-presso o in-Es-presso”.
Ne sono scaturiti altrettanti brevi e densi saggi, nei quali si potrà leggere di tutto. E siccome quando uno alza la mano afferma o cerca qualche verità, si può dire che dai contributi suddetti, sono venuti fuori importanti approssimazioni al cuore del tema. Il verso è un momento dell’Es? il suo luogo è, appunto, nel subliminale dal quale può venire espresso o nel quale può restare imploso, inespresso? C’è qualcosa nel verso che segna un momento di “oppressione”, quindi di sgravio e liberazione in chi lo esterna ?. Momento che si riverbera nella emozione di chi lo legge, se è stato espresso in scrittura, o in chi lo ascolta se è stato esternato, ripetuto da una voce.
“Infiniti silenzio mi fingo” con Leopardi; “Ed è subito sera” con Quasimodo, quando si faceva eco dei lirici greci che aveva tradotto; o Michelangelo turbato dalla statua che aveva appena finito di ricavare dal marmo, alla quale contestava, a colpi di martello, il silenzio: “Perché non parli?”.
Il verso come momento e luogo della poesia in quanto rappresentazione di un luogo, l’Es, di cui è momento. Il verso come comune denominatore di ogni luogo o momento dell’espressione artistica, che può essere una scultura, un dipinto, uno spartito musicale, la vibrazione di una voce umana quando provoca emozione profonda in chi ascolta o contempla.
L’Es stazione emittente come luogo e momento del verso, l’Es come stazione ricevente di chi si ferma incantato ad ascoltare la voce della poesia, o viaggia, si improvvisa pellegrino, per recarsi ad ammirare il Davide a Firenze o la Gioconda al Louvre o le incisioni di Goya al Prado.


Mario Grasso

Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica, ha fondato e dirige Lunarionuovo, è direttore letterario di Prova d’Autore nel cui sito (www.provadautore.it) pubblica un suo EBDOMADARIO (lettere a personalità e personaggi); dal 1992 collabora al quotidiano La Sicilia con la rubrica settimanale “Vocabolario”, i cui scritti sono stati raccolti nel Saggilemmario, di recente pubblicazione. Nato a Acireale, ha residenza anagrafica a Catania; viaggia spesso per il mondo. Il sito personale dello scrittore è www.mariograssoscrittore.it