Per ricordare brevemente Gesualdo Bufalino (Comiso, 1920-1996) nel centenario della nascita, mi limiterei a mettere l’accento su due aspetti della sua variegata e complessa personalità (di narratore, poeta, traduttore, saggista o elzevirista che dir si voglia, antologista, ecc.). Il primo è quello che mi è capitato di chiamare “tono Bufalino”, alludendo a uno stile inconfondibile, di rara eleganza formale, sontuoso, iperletterario, non privo di una tournure classica e di ricercate cadenze musicali, anche in prosa, a riprova d’un tirocinio di poeta rimasto a lungo “segreto”, e insieme di scarti alto/basso e di spericolatezze avanguardistiche squisitamente novecentesche. Questo “tono” rimarrà costante, pur con qualche variazione di grado, in tutta la produzione bufaliniana, a partire da Diceria dell’untore (1981), il romanzo del tardivo esordio pubblico, che ottenne il premio Campiello ed è ormai considerato un capolavoro assoluto, in cui l’autore rievocava, fra <<retorica>> e <<pietà>>, debitamente trasfigurata, una traumatica esperienza sanatoriale da lui patita in gioventù, mentre era ancora sotto le armi, nell’ultima, convulsa fase della guerra e poco dopo,e il perplesso, inguaribile sentimento della vita che ne era nato e che egli ha affidato spesso alla metafora degli scacchi. L’<<odiabile, amabile vita>> è anche, appunto, al centro del romanzo successivo, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria(1984), che rende più esplicito, in confronto alla stessa Diceria, il rilievo conferito da Bufalino, parallelamente, al tema della memoria–che già improntava, del resto, un volumetto del 1982,Museo d’ombre, sulla Comiso d’antan −,memoria alla quale la letteratura attinge per dare proustianamente una fittizia ma vivida durata a cose e persone cancellate dal tempo e per contrastare, insomma, la devastante minaccia della morte.
Scrittore dell’esistenza, attento alla dialettica dell’io con sé stesso più che a quella dell’io con la società, diversamente dal suo amico e mentore Leonardo Sciascia, Bufalino si è confermato pure negli altri romanzi (Le menzogne della notte, 1988, premio Strega; Qui pro quo, 1991; Calende greche, 1992; Il Guerrin Meschino, 1993; Tommaso e il fotografo cieco ovvero Il Patatràc, 1996; Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca, incompiuto e pubblicato postumo a mia cura), nelle poesie (L’amaro miele, 1982, 1989, 1996),nei mirabili racconti (L’uomo invaso e altre invenzioni, 1986), quantunque progressivamente si avverta un distanziamento o straniamento dalla materia più strettamente e pungentemente autobiografica. Ad esempio, Le menzogne della notte è unopseudo romanzo storico, Qui pro quoe Calende greche sono parodie rispettivamente del romanzo poliziesco e del romanzo autobiografico, Il Guerrin Meschino fa il verso al romanzo cavalleresco, ecc., come se il manierismo bufaliniano, cioè, evolvesse nella direzione del cosiddetto “postmoderno”, ma di un “postmodernismo” ripensato criticamente, non assimilabile a una moda effimera e infatti ben presto usuratasi, a dimostrazione che l’assillo formale, in questo scrittore, è sempre legato a una richiesta profonda di senso, a un assillo esistenziale, epistemologico, persino metafisico (Bufalino ha accennato più volte a un suo <<cristianesimo ateo e tremante, inetto a capire se l’universo sia salute o metastasi, grazia o disgrazia>>).
E vengo all’altro aspetto della personalità di Bufalino su cui intendo, di corsa, richiamare l’attenzione. Mi riferisco a una vena di moralista disincantato e acre, brillantemente corrosivo, che percorre un po’ tutta la sua opera e che affiora specialmente nei magistrali saggi e elzeviri (Cere perse, 1985; La luce e il lutto, 1988; Saldi d’autunno, 1990; Il fiele ibleo, 1995), alcuni dei quali sono dedicati alla Sicilia, a definire il carattere “plurale” del suo paesaggio (<<le Sicilie sono tante, non finirò di contarle…>>), i contrasti e gli eccessi insanabili della natura e della società isolana. Ma è negli aforismi de Il malpensante. Lunario dell’anno che fu (1987) e di Bluff di parole (1994)che questa vena di moralista scanzonato e controcorrente tocca forse il suo apice,grazie anche a una capacità di raffinata condensazione,arguta e acuminata:<<Fra imbecilli che vogliono cambiare tutto e mascalzoni che non vogliono cambiare niente, com’è difficile scegliere!>>; <<Ho imparato a non rubare ascoltando Mozart>>; <<Letto col solito fastidio sul giornale di stamani l’ultimo bollettino della guerra italo-italiana>>; <<Inquilini della terra, non è carino che ci diamo tante arie di proprietari>>; <<Il sonno è di destra, il sogno è di sinistra… Votate per una lucida insonnia>>.
Con questa sua ulteriore implicazione, in definitiva, il “tono Bufalino” si configuracome un antidoto verso ogni conformismo, sia linguistico sia ideologico, di ieri e di oggi, riuscendo anche a svolgere una funzione “civile”,“politica”, almeno nei limiti della “politicità” che era compatibile, per Bufalino, col ruolo attuale dello scrittore: <<Simile a un colombo viaggiatore, il poeta porta sotto l’ala un messaggio che ignora>>.
Nunzio Zago
(Direttore scientifico della Fondazione Gesualdo Bufalino)