Lettera dalla Sicilia apparve nell’Almanacco letterario Bompiani del 1960. È un articolo di Sciascia che parla essenzialmente della vita e della tradizione culturale di Palermo e di Catania. Più ricca certamente quella della città etnea col suo gruppo di narratori di grande livello: Capuana, Verga, De Roberto; e con un commediografo come Martoglio. Ai quali Palermo può contrapporre solo Giovanni Meli e, proprio in quegli anni, Il gattopardo – romanzo divenuto un caso appena uscito.
Della vita culturale di Palermo Sciascia cita il poeta Federico De Maria. Che “portava fierissimi baffi e il monocolo; ed era un’autorità in fatto di gastronomia”. La sua specialità era la caponata. I luoghi letterari il popolo palermitano li aveva nell’opera dei pupi e “nelle letture piazzaiole dei racconti cavallereschi”: il tipo di letteratura d’evasione che esigeva il suo ceto medio e la sua grossa borghesia cittadina. Il centro culturale della città era la libreria Flaccovio (in via Ruggero Settimo) dove si potevano fare i pochi “buonincontri” che Palermo offriva. Incontrare il narratore Romualdo Romano, il pittore Caruso e il fotografo Sellerio; i professori Santangelo e Lo Curzio, allora i soli critici militanti sotto il Monte Pellegrino. Del suo amico Bruno Caruso, otto anni dopo, Sciascia brevemente parlerà in un saggio sugli alberi raccolto ne La corda pazza: sugli arbuli di bellu vidiri (“belli a vedersi”) ma che non danno frutto: e per questo poco amati dai contadini. Alla cui cura devono tuttavia provvedere perché molto amati invece dai padroni. Negli alberi che disegna, Caruso rappresenta l’orrendo incontro tra l’umano e il vegetale. Ed è bravo a cogliere, ci dirà Sciascia nel saggio del 1968, il “sentore di cenere e di sangue” che emana dagli alberi che sono stati testimoni della parte dolorosa – l’Inquisizione, la mafia, le rispettive vittime – della storia di Palermo. Mentre del dimenticato Romualdo Romano non potrà che disapprovare l’esclusione dai manuali di letteratura e dalle antologie.
Quando, di tanto in tanto, capitava in città, dalla vicina Bagheria, Ignazio Buttitta, tra le sue tappe c’era una bottega da tappezziere in corso Vittorio Emanuele. Lì si radunavano – poeta dialettale lo stesso titolare – i poeti dialettali palermitani. In questa Lettera, Sciascia definisce Buttitta un torrentizio Neruda dialettale e un uomo d’inesauribile cordialità. Ma per l’autore del secondo Candido, come lo chiamano in Francia, è un giovane prete spagnolo il suo primo tratto d’unione con l’ambiente palermitano. Il prete della piccola chiesa della Madonna della Soledad. Si chiamava Gonzalo Alvarez, era poeta e conosceva “molta gente: gente viva, non soltanto letterati”.
Di un altro prete parla poi. Un prete “al centro della vita culturale di Catania”. È il poeta religioso Antonio Corsaro, direttore della rivista Incidenza. Che ha redattori Sebastiano Addamo e Fiore Torrisi –“giovani che meriterebbero migliore fortuna” precisa Sciascia. Incidenza era una rivista particolare. Diretta da “un prete della migliore tradizione siciliana, con quelle caratteristiche del pensare liberamente”. (Le stesse caratteristiche, per intenderci, del vescovo di Patti del suo racconto Dalle parti degli infedeli). Incidenza era una rivista di sinistra, con collaboratori di sinistra, e non ebbe vita facile. Perché la dirigeva un prete e perché aveva “pubblicato un racconto sulla guerra di Spagna evidentemente impregnato di simpatia per la parte repubblicana”.
A Sciascia dispiace che la Catania di quegli anni, “città d’intenso e spericolato commercio”, abbia perso l’attività editoriale – di Muglia e di Giannotta – della fine dell’ottocento e dei primi del novecento. L’ultima casa editrice, la Camene, sorta nel dopoguerra, ha avuto – scrive –“improvvisata ed effimera vita”. Ha cessato di esistere, “non compianta”, dopo aver pubblicato “una cinquantina di libri, una rivista letteraria, persino un rotocalco”.
Gli dispiace anche che i giovani scrittori catanesi abbiano poco spazio su La Sicilia, “quotidiano liberale nella testata e democristiano nella sostanza”. Lo soddisfa, viceversa, l’attività culturale (mostre, conferenze) svolta dai circoli Artistico e della Stampa e l’affermarsi di attori come Turi Ferro, Michele Abruzzo, Rosina Anselmi. Quest’affermazione “segna – per Sciascia – l’avvento della regia, cioè della disciplina e della cultura, nel teatro dialettale siciliano finora affidato all’istinto dei comici”.
All’incirca un quarto di secolo dopo la pubblicazione di questa Lettera dalla Sicilia sull’Almanacco Bompiani, con la rinomata casa editrice lo scrittore avvia un rapporto di collaborazione e di consulenza editoriale che va dal 1982 al 1989. Curerà la risistemazione dell’intera opera di Vitaliano Brancati scrivendo prefazioni al Diario romano, uscito nei tascabili, e al primo volume delle Opere (1932-1946). Il secondo volume uscirà nel 1992, quando Sciascia è già morto. Ma l’editore non vi farà mancare una nota per ricordare quanto importante e prezioso sia stato il suo contributo per la raccolta delle opere dell’autore del Bell’Antonio. Romanzo arduo e complesso da cui, scrive Sciascia ne La corda pazza, il regista Bolognini dà un film mediocre e fatuo. E proprio nello stesso anno, sessant’anni fa dunque, in cui lui pubblicava la propria Lettera sull’Almanacco. È la visione erotica del mondo che muove i personaggi di Brancati: quella stessa visione che nell’arte di un altro catanese, lo scultore Emilio Greco, diventa essenziale “giuoco dell’amore”, armonia che dal corpo della donna s’irradia in tutte le cose.
Bompiani accoglie con sempre crescente interesse le proposte e i suggerimenti editoriali di Sciascia. Dalla ristampa di Viaggio da Boccadifalco a Gaeta di don Giuseppe Buttà, uscito a Napoli nel 1882, a quella di Storia della colonna infame per il bicentenario manzoniano. Senza dimenticare, sempre rigorosamente curata dallo scrittore siciliano, ma questa volta con la collaborazione di Franco De Maria, la pubblicazione degli Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952) di Alberto Savinio. Questo scrittore che fu tante altre cose: musicista, pittore, giornalista, regista teatrale, morto all’improvviso e prematuramente, e quando tanto ancora poteva dare, da Sciascia è stato sempre molto amato e citato. In Francia era considerato, con il fratello Giorgio De Chirico (Savinio era cognome in arte), tra i pionieri del surrealismo. Considerazione che tutto sommato Alberto Savinio condivise; anche se nella sua arte, nei suoi lavori in genere, mostrò una notevole indipendenza, o un’olimpica estraneità come dice Emilio Cecchi, dalle correnti letterarie e artistiche – prima il surrealismo poi il neorealismo – nelle quali si cercò di collocarlo.
Come autore, la collaborazione di Leonardo Sciascia con Bompiani si limita a due sole opere: La strega e il capitano e A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Quest’ultima è la raccolta d’una serie di suoi scritti del decennio precedente su alcuni delitti, sulla giustizia e sulla mafia; mentre la prima – omaggio a Manzoni per il bicentenario della nascita – è un racconto sulla Milano del Seicento. E riguarda “l’atroce caso” di una donna ingiustamente processata, tanagliata e condannata al rogo per stregoneria. Se ne trova traccia nel capitolo XXXI dei Promessi sposi. Dalla cui rilettura scatta in Sciascia l’interesse “quasi smanioso” di raccontarla. E così, in tre settimane, venne fuori il libro per Bompiani. Venne fuori La strega e il capitano.
Come testimonia una lettera di Valentino Bompiani –“Caro grande Sciascia, dei grandi scrittori meridionali, o in particolare siciliani, Lei è il solo che manca…”,– la casa editrice milanese l’avrebbe voluto tra i suoi autori per pubblicarne le opere future e per la ristampa di tutte le altre. Ma pur non interrompendo la propria collaborazione con la Bompiani, per questo progetto Sciascia preferì, com’è noto, un’altra casa editrice del capoluogo lombardo: l’Adelphi. Con l’una e l’altra comunque mise in pratica la sua idea di letteratura e di editoria di qualità, scevra da logiche di mercato.
Gaetano Cellura