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© Federico Patellani

(secondo diario di una latitante dell’Est)
di Eugenia Bulat (*)
(traduzione dal rumeno di Geo Vasile)

  1                                                                    
Venivi dal selvaggio Est,
                 post-comunista,
post-pro-comunista, digli come vuoi,
                 perché comunque non sbagli,
è sempre lo stesso.

C’è tra te e la Siberia,
tra te e le ossa dei tuoi nonni.
Anche le tue ossa furono caricate nel treno,
non avevi scelta.

Sei andata per varie case,
per varie forme,
in cerca della tua casa, quella d’avorio,
la tua sagoma, quella di donna,
la serenità, la libertà...
Ma non le hai trovate

Hai trovato un mondo calante, moribondo,
hai ritrovata te stessa, in fine,
ma prima hai trovato lei, la prepotente,
la padrona di schiavi.

Il tuo cammino è chiuso
nella città moribonda, 
in cui si muore in bellezza
come nella ballata avita,
non c’è via di ritorno per te .                                

* * *

  2
I bambini della Bessarabia, i geroglifici del futuro,
esseri celesti, che scrivono da alto in basso, e sull’orizzontale
e pendono sospesi sullo spigolo del punto,
                        entro la virgola tra ante e post.

Loro ci buttano in faccia la verità che molto prima di essere concepiti
                                  ci accontentiamo della condizione di schiavo.

- Noi non vogliamo più appartenere a quest’opaca specie,
               chiamata in modo arbitrario “homo sapiens”.
     - Scendiamo, ecco, da questo treno e non ci avventureremo nel vuoto! 
     Inorridiscono.                                                                                                                     

- Solo l’argilla, dicono loro, è degna d’elogi,
  per il sentimento col quale vive la Patria, le sue origini!
                                      Con - ogni – atomo - dell’essere!

Da tutto ciò che hanno, fecero la loro scelta,
                                        solo i piedi,
per andar via portando nella pancia la tristezza universale,
rispecchiandosi in essa come nei propri figli
giocando con essa, tenendole compagnia,
accompagnandola allo spasso,
                      per abbandonarla all’angolo della strada,
lieti di vederla poi presso genitori adottivi.

Sciolti nella luce, si fan trafiggere da tutte le domande al posto di chiodi
e partoriscono angeli di carta con iridi tatuate
                                       nelle notti insonni.

O, questi bambini, in verità, sanno tutto senza volerlo!
In loro, solo in loro, piccolo e ignorato da tuti,
                                   dorme sereno
                                            l’occhio biblico...

* * *

  3
...Era  gennaio e nella Bessarabia i poeti morivano sulle strade.
Qui tu morivi, sulle piantagioni nascoste dalle mura, nell’Ovest.
La tua colonna ardente dipingeva proprio dalla sua lava miraggi
e oasi di spirito salvifico dall’alto del cielo scendendo.

- ...A Chișinau gira la morte, 
per vie di campagna, deserte, nelle ore cieche, cacciando i poeti.
Credevo che tu fossi morta!...

Uno di loro è crollato. Combatteva  contro i pigmei,
come Don  Chisciotte, lì, come tu qui,                   
quando la morte sta sorridendo accanto, il Grande Pigmeo.
Credevo che tu fossi morta!...

- Tanto esile è questo confine sulla Stige!... mi disse lo Spirito Unico,
come frasca, come foglia secca si frange, così esile...
Io credevo che tu fossi morta!...

Ieri notte un angelo mi ha gridato ai vetri:
- Sei ancora serva tu sulla terra?...  
                               Ci sei più?.. Ci sei più?!

Io credevo che tu fossi mo-o-o-o-orta!...

* * *

  4
Beati quelli senza destino, beati,
sopra di loro non spazia una grande fatalità,
in loro non si addensano ossessioni pesanti, inesorabili,
non sentono il fuoco di grandi passioni,
               non crollano sotto il peso di un vizio nascosto.

Mentre tu vivi avvinghiata all’irreparabile,
e il tempo non fa altro che confrontarti
                  con i punti neri della vita,
dicendoti che in te e per te non c’è oblio, non c’è salvezza... 

Il destino. ! Avere paura del tempo
con tutti i tuoi punti neri, neri fino allo splendore,
                                      di buio pesto,
bruciante fino all’ all-u-ci-na-zi-one,
                          sterminato fino alla ver-ti-gi-ne
punti eternamente-persistenti, pre-mes-se-dell’-ess-e-re,
                            temi-di-e-sa-spe-ra-zi-o-ne...

Dato che non puoi sfuggire ai tuoi quesiti essenziali,
dato che tu muori per ogni tua ossessione,
dato che tu non puoi farla finita con le proprie premesse dell’essere,
quindi sfruttandole, un continuo morire, rischi d’incrinare.
No-o-o... Non quelli che giaciono nella palude della mediocrità,
non gli angeli bianchi e comuni, non-i-nor-ma-li
                               renderanno conto della loro vita,-
i demoni invece, sì, quelli che bruciano senza tregua,
                 quelli che si flagellano di continuo,
                                   gli au-to-le-si-o-nis-ti.

* * * 

  5
Adesso il tuo corpo era divenuto uguale, uniforme,
                            come una calza, come un guanto,
potevi rivoltarlo su tutte le parti, guardarlo...
In ogni angolo era allo stesso tempo sveglio e addormentato.

Lui era la mappa completa del tuo stato presente, il barometro.
Tu non avevi un’età, né specie, né desideri, eri un meccanismo.
E’ questo che faceva di te l’Occidente, dato che esso stesso era mec-ca-nis-mo.

E la tua anima era divenuta uguale, uniforme come una calza, un guanto.
Da una parte, dall’altra la guardavi, la vedevi malata ma fredda e stoica.

Il tuo cervello si trovava sotto una lente enorme, e lì ti serviva il bisturi;
vedevi una macchina pensierosa che poteva produrre ogni cosa:
rispondeva a domande virtuali, che nemmeno ti avevi poste.
                                                 Ti lusingava.

* * *

  6
I suoi occhi avevano il colore del mare dopo la tempesta.
Erano pieni di salme sprofondate che non chiedevano più vendetta.
Scompigliavano un azzurro disperso, irreale e una nebbia lattiginosa,
come la bocca di un malato scosso da spasimi.
- O, Dio, dissi fra me e me, non è lei! Questi occhi tornano dall’inferno!

Sulle sponde c’erano dune gialle, spente e conchiglie,
quel corpo ricordando un racconto di Marquez, dai mari espulso.
- No! ho gridato atterrita, rifiutando il mio volto impresso sul volto mutilato
(sapevo la profondità delle acque per cui roteò...)

E non voleva più niente per sé.
- Sii tu più forte di noi! proferì. Ti imploro di esserlo tu! ...Fai testimonianza.
E aggiunse qualcosa ...sui figli, sacrifici e rimborso.
                                                           Tacevo.

Quando poi la toccai, scoppiò in lacrime,
in un grido silenzioso, annegato senza pietà nella melma di questa laguna.
                               Un lamento prolungato da lì fino a casa...            

* * *

  7
Mi sento tutt’una con la cornice di questo calvario.
Tutto che mi trapassa, trapassa anche lo sgabuzzino.
Le nostra ballate sono già state, così Eminescu, e Steinbeck e Whitman...

Adesso Ezra Pound consacra quella tomba schifato.
- Sì! ritrovandomi in essa, fiorisco.
- Sì! spirito puro che accresci il mio spirito             
e dall’inferno di questo calvario lo cavi fuori alto e lumeggiato.

- Sì, vieni amico a piangere quelli più ricchi di noi,
Vieni, amico, e non obliare che i ricchi hanno governanti e non amici,
mentre noi abbiamo amici e non abbiamo governanti.
Vieni a piangere con me gli sposati e i non sposati,
i liberi e, ahimé, quelli ancora non-liberi.
E verso loro l’alba viene a passi minuti come una Pavlova dorata,
dietro le sbarre quando si asfissiano come pesci moribondi in riva.
E loro, i tristi, all’alba, insieme al loro desio si svegliano,
e, soprattutto, per loro, la vita non ha niente che valga di più
                            che quest’ora di serena frescura
                                                l’ora del risveglio accanto.
                                                       		             In libertà.              

* * *

  8
I tuoi viavai hanno una ragione:
non puoi recare con te l’intera vita, una tale vita.
Fitta e stipata in fretta, come in un sacco, ti asfissi.
Ti soffoca di continuo la formula in cui sei messa
                          mentre tu provi di ribaltarla.

Rinchiusi in celle noi tutti dell’Est,
rompiamo con i denti le catene urlando e, sciolti, scappiamo.
Tra stranieri, poi ci ritroviamo, parliamo
di un salto mortale, disperato, privi di documenti...
Hai scansato la morte, dicevi, sorridendo già discosta
anche se non puoi esserci una del posto, !non c’è modo.

Perché una semplice botte, al lato d’osteria come insegna,
ti fa srotolare tutta la tua vita e tutta la Patria.
E vai sanguinante, le calcagna sferzate, guardando indietro,
come se tutta la Bessarabia t’inseguisse
con le sue grandi vasche rimbombando addietro,
disperdendo piccioni e bancarelle con maschere,
! circo dopo il quale, ferita, Venezia giace,
con le sue acque verdi e gonfie, malate...
come la pancia di mia madre una volta dalla morte affranta..
Venezia che... !dicono che morirà anch’essa...
come un sogno, come una pianta esotica, rara,
afflitta come noi, gli stranieri...
                      che piangiamo ridendo...

* * *

  9
Spiriti-eletti, voi uccelli solari,
scalpelli affilati dal pensiero mentre scolpite lo spirito del mondo,-
più vicini al mio corpo della veste
da cui rinasce adesso la mia vita,
troppo colma di senso per scomparire indarno.

Come quel fumo del sogno celeste salirò, -
osso sciolto nelle valli profonde del mondo, da cui
parole latine verso il cielo incorporeo s’innalzavano,
come quel fumo verso la perfettamente translucida luna,
attaccata tutta tonda ad un cielo violetto che mi fa lacrimare.
!Non da altri vissuta, io stessa vivendo,
seminando armonie sulle acque ed erbe.

- Ave Maria!
Destino, tu, che mi porti sulle acque del mondo,
col ciel di pensiero sto abbattendo muro dopo muro,
- Ave Maria!   
Che fame ho avuto della sazievole luce della voce întru *
a ruminarla con i miei bianchi denti di cristallo, risorti.
                                              Ave!

(* parola rumena, praticamente intraducibile, usata da Constantin Noica nella sua opera, 
scoprendo i sensi più reconditi, filologici e filosofici compresi. Vedere il suo libro 
„Devenirea întru fiinţă” (Il divenire dentro essere), 1981, I-II.) 	

* * *

  10
Avere la tranquillità doverosa 
                       per ripensare la  vita,     
per capire i suoi lati profondi, i sensi,

come un manovale scendere nelle viscere dell’istante
                           i nervi accesi, fumanti.

Contorcerti nella febbre mentre germogli
in cerca dell’essenza del tuo pensiero,
scorgerla/intuirla appena battendo le ali,
aggrapparti, scivolante, a un suo strascico
                            come a una chimera.

Sapere che tu sia la l’ante-pa-ro-la,
viva, intatta, ermetica come sfinge,
come una mummia antica, nascosta, - frale radichella di spirito
in cui soffia di continuo, sempre dal Nord, 
                                         il Signore...               

Amare ingenuamente la vita,
il delirio del tuo limite che è sempre all’inizio, -
esodo che ti accoglie in parole e ti spande in sensi,
che tu possa addormentarti tranquilla come neonato,
svincolata da quel supplizio che si chiama amore...            

E’ questo che cerchi ovunque e non puoi trovarne:
                                la se-re-ni-tà, la li-ber-tà,   
su questa terra affrettata, stanca, violenta,
con moltissime chiese e vuote, esposte al sole,
terra che ti fa gridare per stupore,
come questa mesta Venezia,
di continuo morendo e di continuo sorridendo,
                                                       come noi...

 

Versione italiana di Geo Vasile
* Altre inedite della stessa E. Bulat saranno pubblicate su Lunarionuovo di Febbraio.

 

© Federico Patellani
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